PER I POMODORI
DI BARRY ESTABROOK
The Ecologist
I “bambini di Immokalee” hanno riportato alla nascita gravi malformazioni a causa delle infezioni da pesticidi contratte dalle loro madri durante la raccolta dei pomodori. Barry Eastbrook ci parla del caso che ha scioccato gli Stati Uniti.
Tower Cabins è un campo di lavoro
costituito da una trentina di baracche e qualche roulotte in
rovina, tenute insieme da un recinto di legno non verniciato a sud di
Immokalee, nel cuore delle grandi piantagioni di pomodori della Florida
sud-occidentale.
La comunità di poveri braccianti
immigrati è desolata nel migliore dei casi, ma poco prima del
Natale di qualche anno fa avevano di che rallegrarsi. Tre donne, tutte
vicine di casa, stavano per partorire a breve distanza l’una dall’altra,
nel giro di sette settimane. Ma nella vita dei raccoglitori di pomodori
è sottile il confine tra speranza e tragedia.
Il primo bambino, figlio del 20enne
Abraham Candelario e della moglie 19enne Francisca Herrera, arriva il
17 dicembre. Lo chiamano Carlos. Carlitos (come è soprannominato) nasce
con una rarissima forma di “sindrome di tetra-amelia”, che gli provoca
in breve la perdita sia delle braccia che delle gambe.
Circa sei settimane più tardi, un
paio di capanne più in là, Sostenes Maceda dà alla luce Jesus Navarrete.
Il bambino soffre della sequenza di Pierre Robin, una disfunzione della
mascella inferiore per cui la lingua tende continuamente a riversarsi
all’interno della gola, rischiando di farlo morire soffocato. I genitori
sono costretti a nutrirlo per mezzo di un tubo di plastica.
Due giorni dopo la nascita di Jesus,
Maria Meza mette al mondo Jorge. Ha un orecchio solo, niente naso, una
palatoschisi, un unico rene, niente ano e nessun organo sessuale visibile.
Solo dopo un esame dettagliato di quasi due ore, i dottori riescono
a stabilire che Jorge è in effetti una femmina. I genitori le cambiano
il nome in Violeta. Ma le malformazioni congenite sono così gravi che
sopravvive soltanto tre giorni.
Oltre al fatto di vivere nel raggio di cento metri l’una dall’altra,
Herrera, Maceda, e Meza hanno un’altra cosa in comune. Lavorano tutte
per la stessa compagnia, l’Ag-Mart Produce, e nello stesso sconfinato
campo di pomodori. I consumatori conoscono Ag-Mart soprattutto per i
suoi pomodori commercializzati con il nome Ugly-Ripe e i grappoli di
Santa Sweets venduti in contenitori di plastica a forma di conchiglia,
abbelliti con tre sorridenti e danzanti pupazzi-pomodoro di nome Tom,
Matt e Otto. “I bambini amano fare merenda con le nostre sorprese“,
dice lo slogan della compagnia.
Dalle file di pomodori dove lavoravano le tre donne durante i mesi di
gravidanza, non si godeva di una visione così confortevole. Un cartello
all’entrata avvertiva che la piantagione era stata trattata durante
la stagione della semina con almeno trentun tipi diversi di composti
chimici, molti dei quali erano indicati come “altamente tossici”
e almeno tre l’erbicida Metribuzin, il fungicida Mancozeb e l’insetticida
Avermectin sono noti per i loro effetti nocivi “per lo sviluppo
e la riproduzione“, secondo il Pestice Action Network.
Sono teratogeni, ossia possono provocare malformazioni alla nascita.
Violazioni della sicurezza
Per l’utilizzo agricolo di questi veleni
negli Stati Uniti, l’Environmental Protection Agency
impone “intervalli d’accesso ristretto” (REI nel gergo
dell’agricoltura chimica) tra il momento in cui i pesticidi vengono
applicati e quello in cui è consentito ai lavoratori di accedere alla
piantagione. In tutti e tre i casi, le donne hanno dichiarato di aver
ricevuto ordine a procedere al raccolto in violazione della normativa
REI.
“Mentre lavoravamo alla piantagione,
sentivamo distintamente l’odore degli agenti chimici“, ha raccontato
Herrera, madre di Carlitos. Accertamenti successivi hanno dimostrato
che Herrera lavorò in campi trattati di fresco con il mancozeb dai
ventiquattro ai trentasei giorni dopo la concezione, la fase in cui
il feto inizia a svilupparsi fisicamente e neurologiamente.
Meza ricorda: “Mi
è successo diverse volte al lavoro di respirare l’agente chimico una
volta che si era seccato e polverizzato.” Nonostante la normativa
imponga a chi maneggia simili pesticidi l’utilizzo di maschere protettive,
guanti appositi, grembiuli di gomma e respiratori al vapore, le tre
donne hanno dichiarato di non esser state avvertite dei rischi dell’esposizione
agli agenti chimici. Non indossavano equipaggiamenti protettivi, a parte
le bandane con cui si coprivano (inutilmente) la bocca per cercare di
evitare l’inalazione.
Herrera ha inoltre raccontato di essersi
sentita male durante tutto il periodo in cui lavorò alla piantagione,
di esser stata soggetta a attacchi di nausea, vomito, vertigini e a
svenimenti. Occhi e naso le bruciavano per l’irritazione. Aveva sviluppato
anche eruzioni cutanee e ferite aperte.
Mollare il lavoro non era possibile.
Herrera ricorda che il suo capo, un sub-appaltatore di Ag-Mart, le disse
che se si fosse ritirata sarebbe stata cacciata a pedate dall’alloggio
fornitole presso la piantagione. Ironia della sorte, l’imminente arrivo
del primo figlio rendeva ancor più indispensabile per lei e il marito
un tetto sopra la testa. Lavorò alla piantagione a partire dal concepimento
fino al settimo mese di gravidanza, una manciata di settimane prima
dell’arrivo prematuro di Carlitos. E anche dopo aver lasciato la piantagione,
continuò a lavare a mano gli abiti contaminati di suo marito e del
fratello, Epifanio.
La malformazione alla mascella di Jesus
si dimostrò meno pericolosa di quanto era sembrato all’inizio,
e i dottori dissero alla madre che le condizioni del bambino sarebbero
probabilmente migliorate con la crescita.
I genitori di Violeta dovettero piangere la morte della bambina. Ma
dopo la nascita di Carlitos, i problemi di Herrera e Candelario non
fecero che aumentare. Si avvicinava la fine della stagione del raccolto
invernale in Florida, e la famiglia sarebbe dovuto emigrare a nord per
trovare lavoro. Ma Carlitos necessitava di cure mediche costanti che
gli venivano fornite per mezzo di un’agenzia locale, la Children’s
Medical Services della contea di Lee. Pur essendo cittadino americano
per nascita, i suoi genitori erano messicani e privi di documenti. L’espulsione
dal Paese era un rischio reale.
Le cose peggiorarono ulteriormente
quando a tre mesi di età il bambino sviluppò problemi respiratori.
Periodicamente doveva essere trasportato in aereo da Immokalee al
Miami Children’s Hospital. Privi di automobile, Herrera e Candelario
dovettero farsi accompagnare dagli operatori sociali da un capo all’altro
dello Stato, in viaggi che potevano durare anche cinque ore e che erano
possibili solo nei giorni in cui Candelario non veniva chiamato alla
piantagione, dove era ancora costretto a lavorare per pagarsi l’affitto.
Assistenza
giuridica
Uno degli operatori sociali giunto in aiuto dei genitori di Carlitos
si rese conto delle insostenibili difficoltà che la famiglia stava
affrontando. In cerca di assistenza legale, contattò un avvocato del
posto e questi gli confidò che il caso era talmente complesso che avrebbe
sarebbe stato un rompicapo per chiunque. Ma l’operatore aveva comunque
un collega specializzato in lesioni personali, affidabilità dei prodotti
e in cause per illeciti sanitari.
Alzò la cornetta del telefono
e digitò il numero di Andrew Yaffa, partner della Grossman Roth,
con uffici a Miami, Fort Lauderdale, Boca Raton, Sarasota e Key West.
Senza saperlo, Abraham Candelario, Francisca Herrera e Carlitos stavano
per andare incontro a una prima cesura della lunga catena di sventure
che avevano segnato sinora la loro esistenza. Chiunque sia stato coinvolto
in incidenti d’auto, infortuni sul lavoro o danneggiato da un medico
negligente non può fare scelta migliore che affidarsi alle cure di
Andrew Yaffa.
Quando lo incontrai, capii subito perché
Yaffa è arrivato a essere un avvocato di grido. Il giorno del nostro
appuntamento, era indaffarato fuori dalla sala di rappresentanza della
sede della sua azienda a Boca Raton. “Vivo come fosse una scatola
di Federal Express,” mi disse, “ho pratiche da sbrigare
in tutti gli uffici della ditta.” Quel pomeriggio si era impossessato
del tavolo dell’aula solitamente adibita alle conferenze. Faldoni e
raccoglitori sparpagliati ovunque. Il computer portatile aperto. Un
suo costoso cappotto buttato sullo schienale di una sedia e la cravatta
sciolta. Ogni due minuti sul tavolo suonava un cellulare a cui lui dava
un’occhiata veloce per poi rimetterlo a posto senza perdersi un solo
squillo.
All’epoca della nascita di Carlitos
nel 2004, Yaffa aveva poco più di quarant’anni ed era già uno degli
avvocati più quotati di tutto lo Stato. Si era aggiudicato sentenze
da milioni e milioni di dollari in processi sostenuti di fronte ad alcuni
fra i giudici più esigenti della Florida. Uno dei suoi avversari me
lo descrisse in una e-mail come “un grande avvocato […]
una persona di solidi principi […] integra […] associato
di uno studio prestigioso […] creativo […] innovativo
[…] brillante […] eticamente ineccepibile.”
Yaffa è di statura alta e ha
un aspetto fotogenico che lo renderebbe perfetto per la parte da protagonista
se qualcuno decidesse di girare una versione cinematografica delle sue
crociate forensi. I suoi capelli corti, scuri, sono pettinati all’indietro
e laccati a puntino. Il suo bell’aspetto è temperato da una franchezza
tipica del Midwest. (In realtà è nativo della Virginia)
Yaffa stabilì con me una confidenza immediata, parlando con voce calma
e tono costante. Quando gli chiesi perché avesse accettato un caso
così complicato come quello di Carlitos, mi lanciò un’occhiata come
a un teste poco collaborativo e disse: “Con questo mestiere ne
vedo di tutti i colori. Ma quando vedo un bambino o una famiglia che
hanno subito un torto e sono in pericolo, non ho bisogno di molte altre
motivazioni.”
In principio, Yaffa aveva stentato
a credere al racconto fattogli dal collega. Doveva vedere coi propri
occhi e parlare con i genitori del bambino. Erano persone credibili?
Una giuria avrebbe potuto fidarsi di loro? Avevano proprio bisogno
del suo aiuto? Lasciato in garage il suo abituale mezzo di trasporto
– una BMW nuova di zecca – per evitare di attirare l’attenzione, salì
su un vecchio Chevy Suburban riservato alle uscite di pesca nei fine
settimana e ai viaggi al mare con la famiglia, si allontanò dal suo
ufficio di Miami, attraversò per chilometri le praterie disabitate
degli Everglades fino alla cadente capanna a due stanze che i
genitori di Carlitos dividevano, assieme al loro povero figlio, con
altri sette lavoratori immigrati.
Quando Yaffa bussò alla porta, si ritrovò davanti Herrera. Fu colpito
dal fatto che quella minuta donna, dalla faccia tonda, era poco più
che una bambina. Tutti gli altri inquilini della baracca erano fuori,
a lavorare alla piantagione. Carlitos fu piazzato in un seggiolino per
bambini. Brandelli di carne secca pendevano da un filo tirato da una
parte all’altra del salotto e l’aria umida aveva un odore fetido e pungente.
Le mosche erano ovunque. Quanto Carlitos iniziò a fare chiasso, Herrera
lo prese (aveva appena sei mesi) e lo mise sul pavimento. Un cucciolo
di cane che gli inquilini della baracca avevano adottato si mise ad
abbaiare in giro, e il bambino lo osservava sorridente.
“Né
braccia né gambe”
Il cucciolo guaiva, saltellava, e cominciò
a mordicchiare Carlitos. Il bambino iniziò a gridare: non aveva possibilità
di scacciare una mosca o di allontanare un cagnolino, andava incontro
a una vita piena di bisogni. “I pesticidi si erano insinuati
dentro di lei colpendo quel bambino e guarda un po’, nasce senza braccia
né gambe”, mi disse Yaffa.
Parlando in spagnolo, l’avvocato tentò di cavare qualcosa da Herrera,
che a sua volta lo parlava assai poco. Come per molti braccianti immigrati,
la sua prima lingua e quella con cui si sentiva più a suo agio era
un dialetto dei nativi indiani. Yaffa spiegò di essere stato contattato
da un operatore sociale e di essere lì con un solo scopo: aiutarla.
Le disse che il processo non sarebbe pesato sulle sue spalle. Come d’abitudine
per gli avvocati nel suo campo, si sarebbe fatto carico lui di tutte
le spese processuali e, come retribuzione, avrebbe avuto una percentuale
dell’eventuale risarcimento.
Quando Herrera finalmente fece con
la testa un cenno d’assenso, Yaffa promise che avrebbe fatto tutto il
possibile per aiutarla. Ma si trattava di un rompicapo persino per un
avvocato di successo e d’esperienza come lui. Per via delle quasi infinite
variabili – ereditarietà, esposizione ad agenti chimici su altri
luoghi di lavoro, possibili abusi di fumo o di droga, fattori ambientali
– dimostrare le connessioni tra esposizione a pesticidi e malformazioni
fetali è notoriamente un’impresa ardua.
Anziché adottare l’approccio
convenzionale e cercare di identificare i veleni all’origine del danno,
per citare la compagnia che lo aveva prodotto Yaffa decise di fare qualcosa
che non aveva mai fatto. Avrebbe provato a ottenere un rimborso dalla
fattoria dove Herrera lavorava. In sostanza, avrebbe chiamato in causa
l’intero sistema di coltivazione moderno e la filosofia dei pesticidi
su cui è basato.
Fonte: Chemical warfare: the horrific birth defects linked to tomato pesticides
01.09.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di DAVIDE ILLARIETTI