DI LUIS-MARTIN CABRERA
Rebelion
Questo non è un altro articolo sul futuro del movimento 15-M, e neanche una diagnosi teorica più esatta di altre che circolano in rete. Né una previsione del futuro, tanto meno un’analisi definitiva: è un tentativo di apertura, legna per il fuoco che alimenta la ribellione e il cambiamento, un modesto apporto di qualcuno che vuole solo essere un anonimo operaio della parola.
Negli ultimi mesi sono stati scritti
fiumi di inchiostro su quello che è e non è il movimento 15-M. In maniera ben intenzionata, ma non sempre generosa, alcuni hanno voluto vedere nelle assemblee delle piazze la conferma di tutte le proprie teorie: sono comunisti, sono illuministi, è la moltitudine che si alza dalla realtà per abbattere il capitalismo, fino a definirli un alveare senza operaie né regina. Altri, in maniera meno ben intenzionata, hanno gridato “sono marionette di Rubalcaba”, “punkabbestia”
(che mente fascista avrà inventato questo neologismo! Ndt. Si riferisce
all’originale castigliano “perroflauta”), “infiltrati dell’ ETA.” E, infine, non pochi settori della sinistra, vittime delle teorie millenariste della cospirazione, che attribuiscono ai potenti una razionalità di cui – per fortuna – non sono dotati, hanno visto nel 15-M la consacrazione di Punset e dei suoi discepoli della nuova fede dei portavoce delle masse, l’apoteosi del nuovo stile di un capitalismo rinnovato.È logico, tutti vogliamo avere ragione,
tutti vogliamo vedere nel 15-M la conferma della nostra visione del mondo e i nostri aneliti. Tutti, e per tutti mi riferisco soprattutto alle e agli intellettuali, vogliamo dare consigli, dirigere, indicare: “di là no” “di là sì”, “la nostra esperienza storica ci dice che”, “non siate ingenui”. Pubblichiamo perfino libri per dire, questo “noi” ve lo avevamo già detto,
finalmente la gente “ci fa caso”, e non ci rendiamo conto che riempire le biblioteche di nuovi libri non significa cambiare la realtà; non ci rendiamo conto che parlando in questo modo, guardando così alla piazza, non siamo altro che entomologi che dissezionano come l’insurrezione sventra un insetto. Mi racconta Ángeles Dieci – la sociologa della mia testata – che i più opportunisti o i più inconsciamente reazionari sognano già il momento nel quale il 15-M smetterà di stare nelle piazze per esistere solo nelle biblioteche, una farfalla imbalsamata, ma soprattutto un pensiero utopistico.
Tuttavia, è arrivato il momento
di invertire lo sguardo, è arrivata l’ora di sospendere il piacere
infinito che soddisfa il voyeurismo intellettuale, smettiamo per un
minuto di guardare ossessivamente la piazza, invertiamo il campo visuale,
osserviamo noi stessi guardando, o anche meglio, lasciamo per una volta
che sia il movimento 15-M a guardarci, diventando oggetto e non solo
soggetti delle analisi. Per fare questo potremmo incominciare a leggere
un classico di Francis Fox Piven e Richard Cloward – Poor People’s
Movements – sui successi e i fallimenti dei movimenti sociali
negli Stati Uniti. In questo libro si può leggere come nella storia
i movimenti sociali di base – il movimento sindacale negli anni ’30
o il movimento per i diritti civili negli anni ’60 – ottengono le
maggiori conquiste al momento dell’insurrezione e si spengono e perdono
forza quando i dirigenti cercano di orientare e strutturare la protesta.
Molte volte col migliore delle intenzioni i dirigenti di questi movimenti
tirarono fuori la gente dalla strada per rinchiuderla nelle sezioni,
hanno disdetto proteste per redigere statuti e formare organizzazioni
che finirono per essere cooptate da alcune élite che sono sempre più
a loro agio quando sanno con chi devono combattere e quanto vale un
dirigente.
Le tesi di Fox Piven e Cloward è,
ovviamente, più che discutibile; anche se è certo che a
volte un’organizzazione potente, strutturata e avanguardista come il
PCE durante la dittatura può essere un organismo di resistenza efficace,
molte altre volte l’”organizzazione”, “la struttura”,
i “leader“, “l’avanguardia del partito” e
la “lista delle domande” possono essere un modo per addomesticare
l’insurrezione: la storia della dirigenza del PCE durante la transizione
non è aliena da questa catastrofe. In questo senso, i media
e i politici muoiono dalla voglia di etichettare i leader del
15-m, ma il movimento ha fatto qualcosa di molto più importante, ha
rubato la Politica, con la maiuscola e al femminile, ai politici, con
la minuscola e al maschile, come si ruba il fuoco agli dèi, e intanto
ha inventato nuovi linguaggi, “Democrazia in costruzione, scusate
il disturbo”, e nuovi ritmi decisionali fuori del tempo accelerato
dei mercati, “andiamo piano perché andiamo lontano”.
Questa nuova forma della politica non
deve rinnegare la forte tradizione di lotta che c’è in Spagna
e in altre zone, ma neanche deve rendergli omaggio, perché almeno ha
creato, di proprio conto, un spazio – l’assemblea – dove si può
ascoltare:
– un militante di un’associazione
di cittadini dove ha spiegato come sono riusciti a difendere la chiusura
di una scuola pubblica a Carbanchel, perché le associazioni di cittadini
possono essere una potente di organizzazione basata sulla conoscenza
che viene data dal vivere vicino agli altri;
– una femminista che ha spiegato che
il lavoro domestico o la cura dei soggetti deboli vengono svolti principalmente
dalle donne perché la nostra costruzione dei generi ci ha convinto
che il lavoro domestico non è lavoro e che la cura è un’inclinazione
naturale delle donne;
– due militante delle brigate antirazziste
che hanno spiegato come si interviene per interrompere la detenzione
e i maltrattamenti per gli immigrati senza documenti, descrivendo i
CIE, i Centri di Internamento per gli Stranieri, come Guantánamo in
miniatura che dovrebbe fare indignare;
– qualcuno che parla delle banche e
dei politici, e delle persone che sono sedute in piazza come noi. Noi
contro Loro, la piazza, noi, contro loro e il patriarcato capitalista;
– alcuni che sono stati internati in
un ospedale psichiatrico che parlano della necessità di chiedersi
cosa sia la normalità e il perché delle camicie di forza;
– altri che chiedono un minuto di silenzio
per i desaparecidos del franchismo e che raccontano come l’edificio
che abbiamo di fronte fu la Direzione Generale della Sicurezza, un centro
di tortura.
Queste e molte altre cose ho ascoltato
in un giorno trascorso nel dibattito alternativo dello Stato della Nazione
alla Puerta del Sol, e questo senza aver assistito il primo giorno,
quando si sono discusse le proposte di economia, educazione e salute.
Non è in sé stesso un evento? Abbiamo davvero bisogno di “ordinare”
questa esplosione della Politica per paura del futuro?
Eduardo Hernández descrive che nei
pochi mesi di vita del movimento vita si sono rotte molte delle convenzioni
borghesi che definivano la discussione pubblica; non si applaudono quelli
che parlano bene, o quelli che esibiscono il proprio capitale culturale,
o non li si è applauditi proprio per quel motivo, si appoggia e si
applaude quelli che sono agitati e quelli che non hanno capitale culturale
o di frasi e citazioni, affinché possano esprimere quello che devono
esprimere con le loro parole che valgono molto più di quelle di un
professore universitario.
Quelli che parlano nelle piazze non
sono nessuno, sono Esther, Juan o sono le molte Silvia dell’associazione
dei cittadini di Vallecas. Nelle piazze gli intellettuali devono aspettare
il suo turno come tutti e non hanno cognomi o curriculum. È logico
che molti intellettuali si innervosiscano, abituati come sono a farsi
dare immediatamente la parola, l’autorità e il pulpito. Per questo
è doppiamente patetico ascoltare Agustín García Calvo – con tutto
il rispetto che merita il nostro percorso – pontificando nella piazza
e dando istruzioni all’assemblea affinché non propongano niente, perché
proporre è cadere nel linguaggio dal padre, dello Stato, dell’ordine
che si cerca di combattere. Se egli stesso non riesce a vedere che “quello
che ci rimane come popolo”, per usare un suo concetto, sono proprio
queste assemblee, deve essere cieco o che deve preferire i cenacoli
libertari che presiede in modo tanto patriarcale.
E García Calvo disgraziatamente non
è il solo a rimanere nei suoi deliri illuministi, gli intellettuali
del manifesto “Un’illusione condivisa” hanno assunto una posizione
altrettanto illuminista e dispotica per firmare un manifesto da cui
traspira un odore progressista e opportunista. Ma come si può firmare
un manifesto sull’avanguardia storica quando fino a tre giorni prima
molti dei firmatari appoggiavano un governo che ha implementato le misure
più regressive e reazionarie degli ultimi venti anni? Come si può
credere di essere un promotore e creatore di una ricostruzione della
sinistra quando il 15-M ti ha scoperto a bere lo champagne a Cannes
o godendo delle regalie offerte per il tuo ultimo libro, grazie della
Legge Sinde che hai difeso a cappa e spada nei tuoi articoli settimanali?
Questa “illusione condivisa” deve essere il continuare a essere
“professionisti della sinistra”, di modo che il “non
ci rappresentano” possa essere pronunciato anche per loro.
Altre persone con tanta cultura da
poter essere anche sprecata, come nel caso di Fernando Savater, possono
permettersi direttamente di esercitare la violenza epistemica che concede
loro la sua tribuna e di fare passare per filosofia asseverazioni del
tipo: “Il 15-M mi è servito da tontometro per misurare il livello
di stupidità e di cinismo di alcuni”. Di fronte a tanta sfacciataggine
e tali spropositi agli intellettuali non rimane che declassarci, scinderci
completamente da questo branco di despoti illuminati e di apostoli della
banalità e dell’opportunismo. Comunque, gli intellettuali altro non
sono che minorate e minorati. Già Antonio Gramsci notò che ogni uomo
è un intellettuale, perché non esistono uomini né donne che non abbiano
idee sul mondo in cui vivono, perché solo la separazione artificiale
e violenta tra lavoro manuale e lavoro intellettuale ha reso possibile
l’esistenza degli intellettuali che hanno il tempo e i privilegi necessari
per dedicarsi professionalmente a pensare, leggere e scrivere.
Per questo, tanto più avanzerà
il 15-M tanto più necessario sarà abolirci, non tanto per
“anti-intellettualismo”, ma perché la cosa più
intellettuale che possiamo fare subito è – malgrado l’ego
se ne dispiaccia, accorrere alle assemblee, dare il nostro apporto per
quello che possiamo nelle commissioni con umiltà, parlare faccia a
faccia, senza cognomi né titoli e, cosa importante, sentirci orgogliosi
di quello che facciamo come un falegname si sente orgoglioso del tavolo
che ha costruito. Operai della parola, non signori rispettabili, a ciascuno
secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità.
http://rebelion.org/noticia.php?id=132299
16.07.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE