DI STUART LITTLEWOOD
Uruknet
Il gas di Gaza… non è questa fonte interna di energia qualcosa che dovrebbe essere gestito dei palestinesi?
Sì, ma per come si stanno mettendo le cose essa verrà probabilmente rubata loro proprio come le loro terre, le loro case e la loro preziosa acqua.
Il giacimento sottomarino di gas di Gaza giace da 25 a 30 km dalla costa di Gaza. Nel 1999 il BG Group ottenne licenze per le concessioni offshore israeliane, e poco dopo ebbe anche la licenza per Gaza, per un periodo di 25 anni. La BG detiene il 90% del capitale nella licenza, ma questo potrebbe ridursi al 60% se la Consolidated Contractors Company (il partner che detiene l’attuale 10%) e la Palestine Investment Fund esercitassero le loro opzioni.
Nel 2005, al momento del ‘ritiro’ di Israele dalla striscia di Gaza i palestinesi decisero di abbandonare i piani di vendita del gas a Israele e, invece, discussero con l’Egitto. La posizione cambiò ancora quando Tony Blair, da sempre fedele cagnolino di Israele e ora inviato speciale del Quartetto in Medioriente, intervenne personalmente in favore di Israele. Nessuno sa quanto stesse offrendo l’egiziana EGAS e vi sono speculazioni sul fatto che Blair fosse stato mandato a persuadere i palestinesi ad accettare l’offerta israeliana più bassa. Dopo aver parlato con Michael Barron, il Manager per le questioni politiche e aziendali della BG [Policy and Corporate Affairs Manager], ho appreso che i negoziati sono sospesi perché non si è raggiunto un accordo sui prezzi del gas e i termini commerciali. In ogni caso c’è bisogno di un cambiamento nella legge israeliana sul gas per consentire al governo israeliano di agire come venditore nel suo stesso mercato, e i passi procedurali necessari potrebbero richiedere un po’ di tempo. Devono anche essere affrontate questioni fondamentali su come far tornare i fondi in Palestina e come questi vengano usati.
Nel frattempo viene ancora esplorata la possibilità di rifornire il mercato egiziano.
Il giacimento di gas di Gaza è stimato sui mille miliardi di piedi cubici di gas per un valore di circa $ 4 miliardi. Servirebbero quattro anni per portarlo in produzione. Con una produzione a livelli economici commerciali ci si aspetta che duri 15 anni e generi un profitto di 2 miliardi, metà dei quali per i palestinesi. Israele tratterebbe una percentuale tuttora ignota del prodotto, certamente molto di più di quanto richiesto dai palestinesi.
Il piano è di mandare il gas tramite un condotto dalla fonte sino al terminale on-shore di Ashkelon in Israele. Un condotto separato andrà dal terminale a Gaza. La BG ne sarà l’operatore, con Israele che fornirà grandi rassicurazioni a riguardo di una ininterrotta fornitura verso Gaza e la Cisgiordania e un flusso ininterrotto di profitti verso i palestinesi.
Prego? La BG ha intenzione di portare l’unica e sola risorsa naturale palestinese sul territorio israeliano per la lavorazione e la distribuzione…? Lo stesso Israele che sta affamando gli abitanti di Gaza per farli sottomettere, compiendo blitz nella loro casa-prigione e facendo a pezzi la loro economia? Lo stesso Israele che continua ad uccidere e imprigionare chiunque desideri, e che ruba qualunque cosa voglia? Lo stesso Israele che non ha riguardo per la legge internazionale e i diritti umani? Lo stesso Israele che ha bloccato il flusso delle tasse palestinesi e degli introiti doganali, degli aiuti umanitari e i rifornimenti ospedalieri? Lo stesso Israele che non riconoscerà la Palestina o le sue scelte democratiche?
I negoziatori palestinesi sono forse stati privati del loro cervello? O vengono sottoposti a pressioni coercitive, cosa che sarebbe fortemente impropria se provenisse da un occupante illegale e dai suoi alleati?
Nessuno in Medioriente crede, nemmeno per un solo momento, che una qualunque assicurazione o garanzia da parte Israele valga la carta su cui è scritta… Specialmente in questo caso, in cui Israele ha invano sfidato il diritto palestinese a possedere e controllare il giacimento di gas. Perciò, che cosa sta succedendo qui? Si tratta forse di un’altra idea brillante per raggiungere la “pace adesso” rapinando la Palestina dei suoi tesori e delle sue risorse?
Non è difficile vedere cosa potrebbe accadere: Israele estrae il gas in sempre maggiori quantità mantenendo i palestinesi in uno stato di bancarotta e incapaci di usare la loro parte. Alternativamente provocheranno un’allerta di ‘sicurezza’ e bloccheranno il gasdotto ogni volta gli convenga, come punizione collettiva.
I palestinesi dovrebbero, in primo luogo, vendere il loro gas? Non è necessario ogni centimetro cubico di carburante per il loro recupero economico? E, dopo sessant’anni di occupazione e distruzione, a questo scopo non servirebbero più di 15 anni? I palestinesi perderebbero $ 1 miliardi in profitti (sempre che il denaro li raggiunga) ma avrebbero gas per 50 anni o più.
La stessa Gaza dovrebbe raccogliere il bene senza che esso sia contaminato, e rifornire direttamente la Cisgiordania.
Sfortunatamente un accordo ad interim firmato nel 1995 permetteva agli israeliani di intrecciare un’intricata rete di zone di sicurezza nelle acque costiere di Gaza lasciando ad Israele il comando e il potere di decidere cosa accade al largo e chi viene e chi va. Essendo queste restrizioni marittime ad ‘interim’ non sarebbero dovute durare oltre 1999, ma sono ancora in atto. Un compito immediato per la comunità internazionale, se fosse seriamente intenzionata a una giusta pace, sarebbe di sciogliere questo embargo marittimo e restituire alla Palestina un uso libero e privo di vincoli delle sue acque territoriali.
Nel frattempo l’elaborata ‘matrice di controllo’ israeliana, progettata per immobilizzare, strangolare, vanificare e impoverire i palestinesi e rendere permanente l’occupazione israeliana, si estende sino al mare aperto e impedisce alle persone di sfruttare in modo normale le risorse del proprio paese. La situazione è in aperta violazione della legge internazionale, delle risoluzioni Onu, dei diritti umani e di ogni codice di condotta mai scritto. Ma non è nulla di nuovo. La comunità internazionale non se ne cura, o è troppo codarda per agire, o i suoi leader hanno ‘preso gli shekel’ e stanno lottando per Israele–la coraggiosa vittima circondata da una malvagia minaccia islamica e arabo-cristiana.
All’apertura della Palestine Investment Conference a Betlemme [conferenza per lo sviluppo economico palestinese tenutasi tra il 21 e il 23 Maggio N.d.t.] l’inevitabile domanda è: gli investitori stranieri sedotti da Blair e dai suoi amici investiranno sul futuro della Palestina o su quello di Israele? Lo scopo della conferenza è di dimostrare “un impegno politico di alto livello da parte dell’autorità palestinese verso una crescita dell’economia palestinese guidata dagli investimenti”. Ma se il BG Group porta in Israele il gas sottomarino di Gaza, quale sarà il beneficio per i palestinesi in termini di contatti d’affari e opportunità di lavoro?
Avranno mai anche un solo sbuffo del loro gas? Anche se fosse, per quanto tempo durerà prima che un Israele affamato di energia chiuda il rubinetto e lo confischi?
Titolo originale: “Will Gaza ever get a whiff of its offshore gas?”
Fonte: http://www.uruknet.de/
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30.05.2008
Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da ALCENERO
DIVIETO DI PESCA NELLA STRISCIA DI GAZA: IL MARE È UN IMMENSO POSTO DI BLOCCO ISRAELIANO
DI LUISA MORGANTINI*
Il Manifesto
È blu il mare a Gaza, ma anche verde di inquinamento, perché in alcuni punti le acque delle fognature scorrono liberamente sulla costa, dopo aver percorso e a cielo aperto le strade di Gaza city e delle altre città della Striscia, per finire in mare senza nessun trattamento di depurazione, distrutti dai raid israeliani o perch? i pezzi di ricambio e i filtri per l’acqua non riescono a penetrare l’embargo deciso dalle Autorità israeliane, con gravi conseguenze sull’ambiente e sull’economia locale.
Il mare, però, a Gaza è sempre stata una grande risorsa naturale e avrebbe potuto diventare anche fonte di risorse per il turismo. Dopo gli accordi di Oslo, i Palestinesi avevano sperato che le spiagge di Gaza potessero essere affollate, sono stati costruiti molti alberghi, aperti ristoranti e caffè. Ma è durato poco, gli alberghi sono ormai quasi abbandonati e i turisti non possono certo andare a Gaza, neppure i palestinesi cittadini d’Israele sui quali puntava il turismo palestinese, anche a loro è vietato entrare a Gaza visto che il confine è solo nelle mani del governo israeliano ed ogni cittadino israeliano ha il divieto di recarsi a Gaza o nella Cisgiordania.
GLI ULTIMI 5 ANNI, I PEGGIORI
Negli anni ’90, quando le barche dei pescatori potevano allontanarsi dalle coste di circa 12 miglia nautiche dalle coste della Striscia, i pescatori riuscivano a portare a riva, rivendere e anche esportare fino a 3.000 tonnellate di pesce ogni anno. Proprio in quegli anni la crescita del settore ittico a Gaza ha attinto alle migliaia di palestinesi che non potendo più recarsi a lavorare in Israele a causa dei valichi chiusi, hanno rivolto lo sguardo al mare per poter sopravvivere aggiungendosi alle molte famiglie di pescatori, molte originarie della città di Jaffa, a sud di Tel Aviv, da dove in migliaia dopo la guerra del 1948 sono partite alla volta di Gaza. Durante la prima Intifada a Gaza si arrivava facilmente, portavo sempre le delegazioni a mangiare un ottimo pesce fresco in un ristorante che si chiamava Salam, Pace. Quel ristorante c’è ancora ma di pesce ne appare poco, neppure le sardine si riescono a trovare.
La pesca infatti a Gaza è decimata. Sopratutto a partire dagli ultimi cinque anni, sia le restrizioni militari imposte dalle Autorità israeliane sia l’impedimento vero e proprio ad uscire in mare vietano ai pescatori di Gaza di allontanarsi di più di 3 miglia dalle coste, nonostante gli accordi di Oslo abbiano fissato a circa 20 miglia dalla linea costiera il limite massimo di allontanamento e le 12 miglia di distanza sancite dall’Accordo Bertini, stipulato nell’Agosto 2002 tra le Nazioni Unite e Israele.
Nel 2007 circa 500 tonnellate di pesce all’anno sono state pescate in tutto dagli oltre 3.500 pescatori professionisti lungo i 40 km costieri della Striscia a Gaza; di questi, solo 700 sono ancora impiegati in un settore che dava lavoro ad almeno 40.000 persone, tra meccanici, pescivendoli e migliaia di famiglie di pescatori locali, che riescono ora a stento a ricavarne di che vivere in un’economia schiacciata dall’assedio.
Le barchette partono nel buio della notte per rientrare in porto alle sei del mattino, dove i camion aspettano il carico da trasportare ai mercati: 70 cassette di plastica riempite di pesce e sardine può valere circa 3.500 shekel, di cui 2.000 servono per ricoprire le spese per carburante e gas per le lampade, i cui costi si sono impennati in seguito al taglio dei rifornimenti di combustibili deciso recentemente dalle Autorità israeliane. Spesso, per supplire alla mancanza dei 40.000 litri di gasolio e gas naturale necessari nella stagione alta della pesca, i pescatori ricorrono all’olio da cucina e le acque del Mediterraneo che bagna Gaza si ricoprono di maleodoranti chiazze oleose. I pochi ricavi rimanenti si dividono tra tutto l’equipaggio, che varia a seconda delle barche a disposizione, in media comunque circa 75 shekel a lavoratore, una quindicina di euro per il lavoro di una notte.
Oggi però i pesci nelle acque vicino alle coste della Striscia sono davvero pochi, inquinamento ed eccessivo sfruttamento hanno reso le acque sterili: basterebbe allontanarsi fino a 20 miglia più a largo per incontrare, in primavera, i branchi di sardine che migrano dal delta del Nilo fino alle acque della Turchia, mentre già a meno di sei miglia della costa è difficile incontrare i grandi movimenti di pesci. Secondo il Palestinian Centre for Human Rights Israele in realtà non ha mai consentito ai pescatori di Gaza di spingersi fino alle 20 miglia sancite dagli Accordi. I pescatori di Gaza denunciano che non possono allontanarsi di oltre 2,5 km senza correre il rischio di essere bersaglio degli spari israeliani, di vedere distrutte le loro reti e le loro barche, mentre le pattuglie israeliane li costringono a rientrare a riva: una situazione che va avanti sin dal 2003 e che si è aggravata negli ultimi anni con addirittura razzi ed elicotteri israeliani impiegati contro i pescatori. Le navi militari israeliane secondo il Sindacato dei pescatori di Rafah, nel sud della Striscia, pattugliano il mare 24 ore al giorno, sette giorni su sette, con il pretesto della sicurezza e del contrasto al traffico di armi. Nel corso del 2007 oltre 70 pescatori di Gaza sono stati arrestati, le loro barche distrutte, insieme a reti ed equipaggiamenti da pesca. Per mesi migliaia di pescatori non hanno avuto il permesso di lasciare il porto.
BET’SELEM, STORIE DI SOPRUSI
In un rapporto pubblicato dall’israeliana Bet’selem sono state raccolte le storie di alcuni pescatori. Isma’il Basleh il primo gennaio del 2007 era in mare con il fratello Samir e con l’amico Aymen al-Jabur. Stavano pescando quando in lontananza hanno visto avvicinarsi una nave da guerra israeliana che si è fermata a meno di trenta metri da loro e ha cominciato a sparare in aria. Il capitano della nave israeliana ha in seguito ordinato a Isma’il di seguirlo per 6 km e mezzo, quindi di spegnere i motori, togliersi i vestiti e nuotare nell’acqua gelida fino a loro. Ma la nave si allontanava e Isma’il rischiava di annegare. Il seguito della storia riportata da Bet’selem racconta di braccia e gambe legate, di minacce e intimidazioni, di privazione del sonno, di trattamenti degradanti e disumani. Anche Adnan al-Badwil ha descritto la sua disavventura: in mare, con il fratello alle cinque del mattino avevano appena tirato in barca le reti con il pesce quando hanno sentito nell’oscurità degli spari. La barca, colpita, ha cominciato a vacillare ed entrambi sono caduti in acqua. In tre dell’equipaggio sono stati feriti da frammenti di proiettile e ricoverati per tre giorni in ospedale.
Ma malgrado i rischi per la loro vita, i pescatori di Gaza vanno in mare e cercano di sconfinare dai 3 km, per poter vivere. Oggi però possono portare solo barche a remi, non c’è più combustibile a Gaza e non perché, come succede anche da noi il prezzo è salito alle stelle, ma perché Israele non permette l’entrata a Gaza del combustile continuando un embargo che è punizione collettiva di un intera popolazione.
LA SITUAZIONE È INSOSTENIBILE
Lunedì 16 Giugno i pescatori di Gaza sono entrati in mare con la bandiera palestinese e hanno chiesto mare aperto e diritto di pescare, diritto di vivere, diritto alla libertà.
La Campagna per la fine dell’assedio composta da donne e uomini, medici, professori, intellettuali, attivisti dei diritti umani palestinesi, che ha organizzato la manifestazione aveva lanciato un appello anche al mondo perché lo stesso giorno vi fossero nei mari o sulle rive iniziative di solidarietà con i pescatori di Gaza. Quell’appello è stato raccolto anche da alcuni pescatori italiani, in questi giorni in lotta contro il caro prezzo della benzina, in particolare solidarietà ai pescatori di Gaza è stata espressa da Lega Pesca, Associazione nazionale di cooperative di pesca di Legacoop che ha aderito alla giornata di mobilitazione internazionale e alcuni pescatori di Pozzuoli hanno inviato alla Campagna End the Siege in Gaza le loro fotografie con i cartelli che dicevano: «Basta assedio a Gaza. Diritto di vivere, diritto di pescare».
*Vice Presidente del Parlamento Europeo
Fonte: http://www.ilmanifesto.it
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18.06.2008