Fahrenheit Buster Scruggs

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DI JOE H.LESTER

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L’evento spartiacque della cinematografia mondiale è giunto il 16 novembre 2018. Per la prima volta, un film nella rosa dei vincitori in uno dei principali festival cinematografici mondiali, è stato trasmesso per il pubblico internazionale esclusivamente in rete (e solo in alcuni cinema degli Stati Uniti in distribuzione limitata). Parliamo di La ballata di Buster Scruggs di Joel ed Ethan Coen, vincitore del Premio Osella per la migliore sceneggiatura alla 75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Pure se della questione i media probabilmente ne parleranno a dicembre inoltrato, dal momento che verrà distribuito Roma di Alfonso Cuarón, sempre a Venezia vincitore del Leone d’oro, non si può non riconoscere a La ballata di Buster Scruggs il primato di film evento, in quanto Roma avrà comunque una sua distribuzione nelle sale.

Si tratta di un passaggio avvenuto quasi in sordina, per mano dei fratelli Coen poi, coloro che hanno accompagnato il cinema americano nel post-moderno forse con maggior classe rispetto a Tarantino (guarda un po’, anche il suo ultimo film era un western anomalo, ma scritto male), allo stesso tempo amanti dei generi classici della vecchia Hollywood con cui spesso giocano mischiandoli tra loro, veri e propri pupilli del cinema d’autore mainstream. Vos quoque, Coen! E con quest’opera che tratta di morte e caos, come spesso nella loro filmografia, dimostrano nuovamente di aver capito tutto. Scelgono il western, genere fondativo della cinematografia americana, dopodiché ne fanno un film antologico che, volendo, può essere visto in più giorni, al pari delle puntate di una serie TV, perfetto per il mezzo scelto. Sei titoli (The Ballad of Buster Scruggs, Near Algodones, Meal Ticket, All Gold Canyon, The Gal Who Got Rattled, The Mortal Remains), sei storie che variano di tono e registro, passando dal musical (il primo e innocuo episodio che dà titolo al film) al grottesco, dal western puro al metaforico. Vicende caratterizzate da un estremo pessimismo e una profonda sfiducia nel genere umano (in pratica finiscono tutte male, tranne una), che raggiunge il suo apice nel terzo cinico episodio; e dalla consueta riflessione sul nonsenso dell’esistenza, tipica degli autori, chiaramente espressa nel meraviglioso quinto episodio. Ed è proprio in The Gal Who Got Rattled che scopriamo il punto di vista dei registi, non soltanto quello di osservatori (il gufo dell’affascinante episodio precedente, All Gold Canyon, tratto da un racconto di Jack London), ma quella di beffardi superstiti, solidali col personaggio del fastidioso cagnolino President Pierce che tanto mi ha ricordato il criceto sopravvissuto nell’inquadratura finale di Carnage (2011), in cui ho fantasticato immedesimarsi Polanski. Episodio questo che contiene le scene più propriamente western, dal magistrale scontro coi nativi, alla carovana di coloni lungo cui è ambientato, svelando forse il senso finale dell’operazione. È lo spirito della frontiera, teorizzato da Frederick Jackson Turner nella sua Tesi della frontiera nel 1893 (The Significance of Frontier in American History), facilmente illustrato persino in quel claudicante, ma suggestivo, prodotto pop che è Innerstate 60 di Bob Gale, così presente in tutto Moon Palace di Paul Auster e naturalmente in Star Trek (solo per dirne alcuni). Ciò che identifica il carattere americano coincide con quello che gli statunitensi hanno da opporre alla finitezza della condizione umana, così come gli stessi Coen ci propongono La ballata di Buster Scruggs e altre storie della frontiera americana, tramite la rete, ultima frontiera della diffusione cinematografica.

Non è casuale, se appena due giorni prima della distribuzione di questo film sulla principale piattaforma di streaming legale [1], il ministro dei Beni Culturali Alberto Bonisoli, per tranquillizzare gli esercenti, abbia annunciato di accingersi a firmare il decreto attuativo che definisce le regole sull’uscita in contemporanea in sala e in streaming per i film italiani, come accaduto per Sulla mia pelle, e che (se abbiamo ben capito) in sostanza limiterebbe o impedirebbe del tutto, ai prodotti indirizzati alla rete anziché alla sala, di beneficiare di contributi statali, oltreché rendere una regola certificata la convenzione dei 105 giorni massimo di sfruttamento delle sale. Certo, pare che questa misura fosse già prevista dalla famosa legge sul cinema, la 220 del 2016, non è quindi farina esclusiva del governo giallo-verde, inoltre noi non abbiamo una produzione cinematografica prolifica come, che so, la Francia (ma potremmo e dovremmo averla) e infine cosa volete importi ad aziende floride e potenti quanto Netflix o Amazon? Insomma, è una goccia nel mare, ma sempre meglio di niente.

Il prodotto in sé è ancora “cinema” pur non essendo uscito nelle sale? Non è un problema filosofico che mi appassiona molto, ma senza alcun dubbio sì, almeno questo. Sarebbe come se un film, una volta trasmesso in TV o commercializzato in DVD e Blu-ray, venisse declassato al livello di tele-film. Sarebbe come sostenere, ad esempio, che Fahrenheit 11/9 di Michael Moore possieda lo stesso valore di un servizio di Report poiché trasmesso su La7 alla vigilia delle elezioni statunitensi di midterm ad appena due settimane di distanza dalla sua uscita ufficiale nelle sale cinematografiche italiane.

A proposito del documentario di Moore, dopo averlo visto devo dire che rimango della mia opinione: come critica a Trump rimane più efficace la singola clip finale di BlacKkKlansman di Spike Lee. Perché, comunque la si pensi, Fahrenheit 11/9 è critico soprattutto nei confronti del Partito Democratico statunitense.

Il film inizia in maniera spumeggiante, dopo una carrellata iniziale di improbabili e stucchevoli sostenitori della Clinton, con il faccione del presidente eletto proiettato sull’Empire State Building e di sottofondo la voce del regista che chiosa: “come cazzo è stato possibile?!” (anche se in realtà lo aveva previsto in un editoriale che all’epoca convinse persino il sottoscritto). E prosegue ammettendo come lo stesso genero di Trump abbia in passato finanziato un suo film e che pure Steve Bannon ne abbia distribuito uno, per scadere improvvisamente nel tentativo nemmeno troppo velato di convincerci che Trump non è semplicemente fiero dell’aspetto esteriore della figlia, ma che ne sia realmente attratto, per la maniera greve in cui ne parla appena può. Alla fine vogliamo sperare che piuttosto vanti se stesso e il proprio genoma, da egocentrico quale dicono sia, oltreché le sue capacità di maschio alfa; che cerchi insomma di vendere un suo prodotto.

Dopo però il film fa un passo indietro nel tempo e, nella sua parte meglio imbastita, ci racconta l’allucinante vicenda del nuovo acquedotto di Flint, di quando il Presidente degli Stati Uniti era ancora Obama. Se non la conoscete andatevela a cercare: una follia da paese sottosviluppato… Bisogna infatti riconoscere all’autore d’essere impietoso nei confronti di Obama e di alcune sue responsabilità inimmaginabili per il grande “pubblico” (la periferia di Flint usata a mo di poligono di tiro, probabilmente per esercitarsi a gestire sommosse popolari!).

Trump sarà un narcisista pericoloso, ma è tremendamente sincero quando ammette che il sistema è rotto. Lui ha pagato i politici, racconta, e quando ha avuto bisogno di loro sono accorsi subito. Ci suggerisce giustamente Moore, quanto la responsabilità principale dell’elezione di quest’uomo che si definisce “tempesta” (e che forse esagerando un tantinello il regista paragona a Hitler) sia della Clinton, nei fatti più a destra di lui. Anzi, di tutto il Partito Democratico che da tempo insegue i repubblicani sui loro temi per risalire la china. Un partito che ha tradito i propri elettori sabotando Bernie Sanders, il quale si ritirò dalla competizione senza troppo protestare dopo una chiacchierata con Obama.

È chiaro cosa vuole fare Michael Moore col suo documentario e i suoi candidati, Alexandria Ocasio-Cortez in testa, ispirare la nascita di una vera sinistra socialista e una coscienza di classe (in una nazione dove lo sciopero è illegale), ma col mezzo sbagliato: lo spettacolo. Per comprenderlo basti notare con quanto affetto costruisca la simpatica porzione dedicata all’attivismo dei giovani studenti che parlano di cambiamento e si dicono cresciuti da social e smartphone (prestiamo attenzione a sti post-Millennials!). Purtroppo per lui, Moore negli USA non è Grillo in Italia e il film è stato un flop. Funzionerà mai? Non ora, ma forse tra qualche anno Alexandria. Sperando che non ti ridurrai a bere l’acqua di Flint come Obama.

In conclusione, a chiudere l’ideale cerchio dell’esperienza cinematografica a distanza di 123 anni dalla sua invenzione, sulla principale piattaforma di streaming legale, arriva l’ultimo e inedito film di Orson Welles, uno dei maestri che più ha contribuito a far evolvere la stessa arte cinematografica col suo film d’esordio. Eccoci oggi, in rete, ad avere la possibilità di ammirarne l’ultimo lavoro (che fino a poco tempo fa era il fondamentale F for Fake). The other side of the wind, girato tra il ’70 e il ’76, rimasto per decenni bloccato da contese legali per lo sfruttamento dei diritti e la carenza di fondi per la post-produzione. Ci giunge ora, finalmente completo grazie al complesso montaggio del grandissimo regista Peter Bogdanovich (qui anche attore), questo film stile found footage ante litteram. E com’è?

Interessante, se si è interessati, poiché se non lo si è veramente, rischia di essere percepito come un poco confuso e noiosetto. Ci sono certo tutte le ossessioni di Welles, ma il protagonista principale, il regista Jake Hannaford, interpretato dal vero regista John Huston, ripreso da critici, documentaristi e paparazzi, durante un party nella sua ultima notte di vita, che beve e sentenzia circondato da amici e collaboratori più o meno adoranti, mentre nel suo ranch si proietta a intermittenza il suo ultimo film intitolato appunto The other side of the wind (interpretato dall’allora compagna di Welles, Oja Kodar, quasi sempre nuda sullo schermo), non appare poi così gigante. E questo è singolare trovarlo nell’ultimo film di un regista tanto interessato alle figure giganti e alle loro oscure personalità. Non scocca per questo personaggio quella scintilla di morbosa empatia che invece, magari involontariamente, provoca Micheal Moore nei confronti di Donald Trump (questo sì, un carattere degno di Welles). Emerge invece lo stesso Peter Bogdanovich nel ruolo di Brooks Otterlake, protégé di Hannaford, divenuto regista di successo. Colpisce poiché infinitamente più complesso e non è un caso sia lo stesso, personaggio/attore/regista, a cui Welles a suo tempo affidò realmente il compito di terminare The other side of the wind nell’eventualità gli fosse successo qualcosa. Uno strano ibrido questo film di capezzoli e primi piani con grane e aspect ratio differenti, oramai più di Bogdanovich che di Welles. Forse soltanto un doloroso passaggio di consegne, obbligato ma non desiderato, dal maestro all’allievo di un’altra generazione divenuto maestro a sua volta; come successivamente quello stesso allievo/maestro un giorno sarà costretto (quanto i Coen o Cuarón) a consegnare il proprio lavoro, costituito un tempo da concreti rulli di pellicola, all’intangibile mondo della rete.

 

Joe H. Lester

Fonte: www.comedonchisciotte.org

novembre 2018

 

[1] “Principale piattaforma di streaming legale”: essendo stanco di fare pubblicità involontaria, mi rendo conto di evocare l’azienda come Veltroni faceva con Berlusconi definendolo “principale esponente dello schieramento a me avverso”. Una sciocchezza storicamente inutile che però in questo caso aiuta a farmi sentire meno a disagio.

 

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