DI CHRISTOPHER KETCHAM
Counterpunch
Ecco l’homo sapiens
sferzato contro la ruota della rete digitale sociale: inchiodato di
fronte a un computer che è legato al muro da una corda, dove un cavo
in fibra di vetro porta il messaggio; fissando lo schermo acceso, il
volto pallido nella luce innaturale; o, a testa bassa per strada, l’umore
cupo, con le dita che scorrono su quell’oggetto del desiderio che
lampeggia.
La creatura è segretamente tormentata:
è necessario tenersi aggiornati costantemente, l’utente deve tener
d’occhio la macchina quando e dove possibile – il che equivale a sempre
e ovunque – e Dio non voglia che passi troppo tempo troppo tra un’occhiata
e l’altra.
Su Facebook si contano i nuovi e i
vecchi amici, il numero potrebbe sempre aumentare! Alcuni sono effettivamente
“amici“, nel senso ormai dimenticato del termine: la
persona cui ci si confida, che ci ascolta, e a cui importa ciò che
abbiamo da dire, che conosce i nostri segreti e li tiene per sé; la
persona che ti conosce nella misura in cui solo un amico può – l’amico,
come colui o colei che riesce a guardare nei tuoi occhi e, con affetto
e persino amore, vedere in fondo alla nostra anima.
Come sappiamo, tuttavia, molti “amici”
di Facebook non hanno niente a che vedere con il tipo di relazione appena
descritta. Forse sono persone conosciute al lavoro o a scuola, in carne
e ossa, ma non possono essere considerati veri e propri amici. Alcuni
sono stranieri, conosciuti solo tramite l’interfaccia della macchina,
arrivati all’utente grazie a un algoritmo che calcola il databit
“Mi piace” e “Non mi piace“.
Dimentichiamoci per un momento che
Facebook è probabilmente il più geniale info-aggregatore
mai inventato dai governi per spiare i cittadini. Dimentichiamoci che
i cittadini stanno aiutando spontaneamente le agenzie di intelligence
nella costruzione degli archivi. A preoccuparmi è la questione dell’efficienza
dell’amicizia. Facebook rende efficiente l’amicizia, allo stesso modo
di una catena di montaggio, esattamente ciò che l’amicizia non dovrebbe
essere, se vuole rimanere a livello umano, se l’amico come persona non
deve essere degradato.
L’amicizia è sporca. È
difficile. A volte le puzza l’alito. È imprevedibile, e talvolta
rischiosa. La questione riguarda le persone e la definizione di amicizia
perché, se dobbiamo prendere sul serio Facebook, allora dobbiamo riconoscere
che la forma di amicizia che sta promulgando per necessità tecnologica
ridurrà la natura e il significato di amico. La personalità sulla
pagina Facebook non può che prendere questa strada. Si tratta di un
sé manipolato, gestito. Si tratta di personalità degradata.
Ho osservato mia figlia nel natale
del 2010 mentre utilizzava Facebook. Non avevo mai visto la macchina
del social network in azione. Lea ha quindici anni, vive in un
sobborgo di Parigi con la madre, è annoiata a morte, come tutti i ragazzi
di periferia, e, naturalmente, ha messo a punto una personalità Facebook.
Molte foto sue e di amici, a feste ed eventi cui ha partecipato, e molto
altro ancora: commento di questo o quell’articolo di interesse della
cultura pop – gruppi musicali per la maggior parte, ma anche l’amalgama
di prodotti maggiormente ricercati. Ho guardato per un attimo e poi,
bruscamente, lo ha spento, per fare in modo che io non vedessi altro
del suo sé in Facebook. Mi chiedevo quanti “amici”
potesse avere, ma non me ne ha parlato.
Pochi mesi più tardi, in primavera,
mia figlia era in Utah, nella città di Moab, dove vivevo e dove
torno ogni tanto per isolarmi e scrivere in una casetta che ho affittato
da un amico. Moab una volta era un posto sperduto nel deserto. Oggi
è invasa da gente come me, che vuole stare in un piccolo luogo fuori
dal mondo e che quindi annulla a vicenda il proprio desiderio di solitudine.
Lea aveva un Blackberry, per gentile concessione dopo continue lamentele
con la madre o la nonna – non ho mai saputo di preciso chi glielo avesse
regalato – ma ovviamente non c’era segnale nella nostra casetta. Oggi
la disconnessione è un evento sorprendente; è quasi come ricevere
un pugno in faccia.
Per essere esclusi dal chiacchiericcio
globale, per non dover rincorrere continuamente il marasma di informazioni
digitali, per essere umano nel senso primario di essere una persona
di fronte all’altra: questo è ciò a cui servono le casette in Utah,
a quanto pare. Lea e io ci siamo immersi in questo buio informativo,
la mattina abbiamo fatto grandi colazioni all’americana e il pomeriggio
abbiamo oziato sotto il sole; abbiamo letto libri – lei con “Lord
of the Flies” – e poi abbiamo fatto escursioni nelle lunghe
sere di primavera, ma senza telefoni cellulari.
Tuttavia, sentivamo il bisogno della
connessione, eravamo come in astinenza. Ovunque c’era il wi-fi
– a casa dei vicini nei pressi della casetta, nella biblioteca della
città, nei ristoranti – Volevo la mia e-mail. E Lea cercava
di connettersi e trovare le notizie su Facebook. Dimostrandomi un ipocrita
– dopo aver consultato la mia e-mail personale e aver contattato
i miei “amici” con la più semplice (Lea direbbe arcaica)
interfaccia -, l’ho rimproverata per Facebook. Lei non ha riso. Si sta
parlando di una quindicenne. La connessione sociale è tragicamente
importante.
Nonostante ciò, ha ammesso che c’era
qualcosa che non andava in ciò che Facebook pretende dagli agli
utenti. “Facebook è un ottimo strumento“, mi ha detto,
“ma è troppo strano. Bisogna essere costantemente sociali.”
“Ma con le persone – con gli amici – si dovrebbe anche avere…”
– lei è bilingue in francese e in inglese, e qui cercava la parola
più adatta – “una sorta di reculé.” Reculé
significa fare un passo indietro, una sorta di allontanamento.
“Okay, reculé“, le
ho detto.
“Tu non sei sempre lì, non
sei sempre connesso. Hai la tua vita, fai le tue esperienze. Questo
vale anche per le vacanze. Sei distante.
E poi si torna, ci si incontra e si parla, sai com’è, faccia a faccia,
per raccontare a tutti quello che è
successo in vacanza.” Strano davvero, Lea. Parli come un luddista.
Magari ci fossero più adulti
che ragionano come lei. Non passa settimana in cui quelle persone che
avrei altrimenti considerato sveglie e intelligenti cercano invano di
invitarmi su Facebook.
Il che mi fa sorgere una domanda spontanea:
perché mai una persona consapevole e intelligente dovrebbe iscriversi
su Facebook? Ho un amico a Brooklyn, certamente un tipo un po’ volgare
e non molto in sintonia con il politically correct, che considera
Facebook il luogo delle “persone che fanno i bulli in piedi
davanti allo specchio, a sparare cazzate e a vantarsi. Facebook
è la più grande perdita di tempo dopo la televisione.” Il
mio amico ha ragione. Facebook è il luogo di espressione ideale per
una società in cui il narcisismo, come Christopher Lasch ha sottolineato
tempo fa, è diventato il disturbo di personalità dilagante. Facebook
come una patologia sociale, come un sintomo di disordine sociale e di
malattia? Forse.
Tornato a New York City, dopo tre mesi
di emarginazione idilliaca, mi trovo nuovamente di fronte a una massa
di miei simili dotati di Blackberry, Smartphone, cellulari, IPad, IPod
– queste “appendici elettro-plastiche” senza le quali sembra
impossibile sopravvivere. L’istinto sarebbe quello di prendere le
cose, al grido di “banzai” e schiacciarle sotto il mio stivale.
Un intollerante e intollerabile atteggiamento, certamente anti-sociale.
Eppure, allo stesso tempo, c’è qualcosa di pietoso e ripugnante – nauseante
– in tanti esseri umani che fanno la stessa cosa con la stessa appendice
elettro-plastica collegata alla stessa rete globale: la mano tesa sul
dispositivo, gli occhi fissi sull’oggetto singolare, totalmente inchiodati
alla Singolarità. L’appendice, che emette sempre un rumore fastidioso
per richiamare l’attenzione, sembra fare il bello e il cattivo tempo,
con l’uomo tenuto costantemente in secondo piano, necessario solo
per indirizzarla, come fosse una bacchetta divinatoria che decide quale
sarà la direzione da prendere. Se un selvaggio venisse catapultato
improvvisamente in una nostra città avrebbe, sicuramente l’impressione
che l’utente è al servizio della macchina.
Ho letto un saggio di Damon Darlin,
un “redattore tecnologico” del New York Times, che fa
il classico commento da tecnocrate, da responsabile scientifico, e cioè
che i vantaggi di efficienza che derivano dall’utilizzo delle nuove
tecnologie battono sempre e comunque la nostra condizione di umanità.
Probabilmente una persona perfettamente rispettabile, Darlin sembra
a ogni modo aver sostituito la sua mente con un microchip. Scrive
come ha “imparato a non preoccuparsi del fatto di amare il mio
Smartphone.” “Per la maggior parte della gente“,
scrive, “uno smartphone cambierà
la vita e molto probabilmente per il meglio.” E quali sono
questi “miglioramenti”? Povero Damon, “non si perde”
più a New York, o, presumibilmente, ovunque ci sia segnale: è la macchina
a dirgli dove si trova. Non si “annoia mai“: la macchina
lo intrattiene. Non è “mai senza risposta“: la macchina
gliele fornisce. Lui “non dimentica mai nulla“: la
macchina ricorda tutto per lui. “Google“, scrive, “comincia
a sostituire la mia memoria.” Ha scritto che lo Smartphone
“può aiutarci a ricordare gli eventi della nostra vita.”
La macchina, dice Darlin, diventa “una memoria ausiliaria di
tutto quello che faccio“.
Per non essere perso o annoiato o per
non dimenticare o rimanere senza risposte è necessario essere
un po’ meno umani. In questo articolo Darlin non era sarcastico, era
tristemente serio, è un segnale del punto in cui siamo arrivati nella
degradazione della personalità per considerare utile la macchina. Eppure
il suo pensiero è il vangelo. Si tratta di una visione demenziale della
vita umana, una forma di follia indotta dalla tecnologia, ed è diventata
la norma.
Christopher Ketcham scrive per Vanity Fair, GQ, Harper e molte altre
riviste, e sta attualmente lavorando su un libro, “The United
States Must End“, in cui sostiene la dissoluzione degli Stati
Uniti. Può essere raggiunto a [email protected]
Fonte: Facebook and the Degradation of Personhood
24.01.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di DIANA LORENZI