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La Redazione

 

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ECOLOGIA UMANA – UNA NUOVA ERA GEOLOGICA PER LA TERRA

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A cura di Das schloss
Il 31 Luglio 2008
70 Views

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DI MIKE DAVIS
The Nation

1. Arrivederci all’Olocene

La crudele competizione in corso tra i mercati dell’energia e del cibo, amplificata dalla speculazione internazionale in beni e terre agricole, è solo un modesto presagio del caos che potrebbe presto crescere esponenzialmente dalla convergenza tra consumo delle risorse, ostinata disuguaglianza e cambiamento climatico

Il nostro mondo, il nostro vecchio mondo, quello che abbiamo abitato per 12 mila anni, è giunto al termine, anche se nessun giornale nordamericano o europeo ha già provveduto a pubblicare l’epitaffio scientifico.

Lo scorso febbraio, mentre le gru sollevavano i rivestimenti protettivi fino al 141esimo piano del grattacielo Burj Dubai (che presto sarà alto il doppio dell’Empire State Building), la Commissione Stratigrafica della Geological Society di Londra stava aggiungendo la storia più alta e più nuova alla colonna geologica.

La Geological Society di Londra è la più antica associazione di scienziati della Terra, fondata nel 1807, e la sua Commissione giudica con un collegio di massimi esponenti in merito all’aggiudicazione della datazione geologica. Gli stratigrafi fanno a fette la storia della Terra, preservata in strati sedimentari, dividendola in gerarchie di eoni, ere, periodi ed epoche identificati dalle “spighe d’oro” delle estinzioni di massa, degli eventi relativi alle evoluzioni di specie biologiche e dei cambiamenti improvvisi della chimica atmosferica.

In geologia, come in biologia o in storia, la periodizzazione è un’arte complessa e controversa, e la battaglia più amara della scienza britannica del 19esimo secolo –ancora conosciuta come la “Grande Controversia Devoniana” – fu combattuta su interpretazioni divergenti circa le familiari Graywackes del Galles e l’inglese Old Red Sandstone [1]. In tempi più recenti, i geologi hanno battagliato sul come individuare stratigraficamente le oscillazioni dell’era glaciale negli ultimi 2,8 milioni di anni. Alcuni non sono mai stai d’accordo con il fatto che il più recente intervallo interglaciale tiepido – l’Olocene – dovrebbe essere considerato come un’“epoca” vera e propria solo perché fa parte della storia della civilizzazione.

Come conseguenza, gli stratigrafi moderni hanno stabilito degli standard alquanto rigorosi per addivenire ad una pacifica individuazione di ogni nuova suddivisione geologica. Nonostante l’idea di “Antropocene” – un’epoca della terra definita dalla nascita della società urbana-industriale come forza geologica – sia stata a lungo dibattuta, gli stratigrafi si sono rifiutati di riconoscere prove fondamentali per stabilire il suo avvento.

Almeno per quanto riguarda Geological Society di Londra, quest’orientamento è stato ora rivisitato. Alla domanda “Stiamo vivendo adesso nell’Antropocene? ”, i ventuno membri della Commissione hanno risposto all’unanimità “sì”. Essi forniscono solide prove circa il fatto che l’epoca dell’Olocene – il periodo interglaciale dal clima inusualmente stabile che ha permesso la rapida evoluzione dell’agricoltura e della civilizzazione urbana – è giunto al termine e che la Terra è entrata in “un intervallo stratigrafico senza precedenti negli ultimi milioni di anni”. Oltre all’aumento dell’effetto serra, gli stratigrafi menzionano la trasformazione del paesaggio umano che “ora supera in ordine di grandezza la naturale produzione sedimentaria [annua] “, la pericolosa acidificazione degli oceani e l’inarrestabile distruzione del biota.

Questa nuova era, spiegano, è definita sia dai trend del riscaldamento del pianeta (che trova un precedente forse nella catastrofe conosciuta come il Massimo Termale Paleocene Eocene, 56 milioni di anni fa) e dalla previsione di instabilità radicale dei futuri habitat. Con prosa grave, essi ci avvisano che “la combinazione di estinzioni, migrazioni globali delle specie e la diffusa sostituzione della vegetazione naturale con un’agricoltura mono-colturale sta producendo un distintivo contemporaneo segnale biostratigrafico. Questi effetti sono permanenti, visto che la futura evoluzione avrà luogo a partire dalle riserve sopravvissute (e spesso antropogeneticamente rilocate)”. L’evoluzione, in altre parole, è stata costretta in una nuova traiettoria.

2. Decarbonizzazione Spontanea?

La coronazione dell’Antropocene fatta dalla Commissione coincide con crescenti controversie scientifiche sul 4th Assessment Report [2] rilasciato lo scorso anno dalla Commissione Intergovernativa sui Cambiamenti Climatici (IPCC). L’ IPCC ha il compito di stabilire linee guida scientifiche per gli sforzi internazionali finalizzati a contenere il riscaldamento globale, ma alcuni dei maggiori ricercatori del settore stanno ora mettendo in discussione gli scenari di riferimento criticandoli come eccessivamente ottimistici, addirittura come speranze vane.

I parametri attuali sono stati adottati dall’IPCC nel 2000 per modellare le future emissioni complessive basandosi su diverse “trame” riguardanti la crescita della popolazione e lo sviluppo tecnologico ed economico. Alcuni degli scenari principali della Commissione sono ben noti ai policymakers e agli attivisti ambientalisti, ma pochi al di fuori della comunità dei ricercatori ne hanno realmente letto o compreso i dettagli, in particolare la fiducia che l’IPCC ripone nel fatto che una maggiore efficienza energetica sarà una conseguenza “automatica” dello sviluppo economico futuro. In effetti tutti gli scenari, anche le varianti del “business secondo i canali tradizionali”, assumono che almeno il 60 per cento delle future riduzioni di carbonio avranno luogo a prescindere dalle misure contenitive dell’effetto serra.

Il Collegio, in effetti, ha scommesso l’azienda, o meglio, il pianeta, su un non pianificato progresso guidato dalle strategie di mercato verso un’economia mondiale post-carbonio, una transizione che implicitamente richiede che la ricchezza prodotta dal rincaro energetico trovi alla fine la sua strada verso le nuove tecnologie e le energie rinnovabili. (L’ International Energy Agency ha recentemente stimato che costerebbe 45 miliardi di dollari dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2050.) Gli accordi tipo Kyoto e i mercati del carbonio sono disegnati – quasi in analogia con la teoria Keynesiana del pump-priming [3]– per colmare le deficienze tra la decarbonizzazione spontanea e i target di emissioni che ciascun parametro richiede. Fortunatamente, ciò riduce i costi per mitigare il riscaldamento globale a livelli che si allineano con quello che sembra, almeno in via teorica, essere politicamente possibile, come esposto nell’inglese Stern Review on the Economics of Climate Change del 2006 e altri simili resoconti.

I critici obiettano, comunque, che questo rappresenta un eroico salto di fede, che minimizza radicalmente i costi economici, gli ostacoli tecnologici e i cambiamenti sociali richiesti per tenere a bada Ia crescita dei gas serra. Le emissioni di carbonio dell’Europa, per esempio, continuano tutt’ora a crescere (drammaticamente, in alcuni settori) nonostante la preghiera dell’Unione Europa nel 2005 di adottare un sistema di permessi di emissione di CO2 [4]. Nello stesso modo, ci sono state poche prove negli ultimi anni dell’automatico progresso nell’efficienza energetica, che rappresenta una condicio sine qua non dei parametri dell’IPCC. Sebbene l’Economist di solito si permetta di dissentire, la maggior parte dei ricercatori in campo energetico è convinta che, dal 2000, l’intensità energetica sia di fatto cresciuta; in altre parole, le emissioni complessive di anidride carbonica sono andate di pari passo, o addirittura cresciute marginalmente in modo più veloce, con l’uso dell’energia.

La produzione di carbone, in particolare, sta affrontando una drammatica rinascita, visto che il 19esimo secolo è tornato per creare problemi al ventunesimo. Centinaia di migliaia di minatori stanno ora lavorando in condizioni che avrebbero fatto rabbrividire Charles Dickens, estraendo lo sporco minerale che permette alla Cina di aprire due centrali elettriche a carbone alla settimana. Nel frattempo, si prevede che il consumo complessivo dei combustibili fossili aumenterà del 55% nel corso della prossima generazione, con le esportazioni internazionali di petrolio che raddoppieranno di volume.

Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, che ha compiuto in proprio degli studi sugli obiettivi dell’energia sostenibile, mette in guardia dal fatto che sarà necessaria “una riduzione del 50% delle emissioni di gas serra in tutto il mondo entro il 2050 contro i livelli del 1990” per mantenere l’umanità fuori dalla zona del riscaldamento incontrollato (normalmente definito come maggiore dell’aumento di due gradi centigradi in questo secolo). L’ International Energy Agency prevede che, con ogni probabilità, queste emissioni subiranno in questo periodo un reale incremento di circa il 100% – sufficienti gas serra per spingerci oltre molti punti di svolta decisivi. Nonostante il rincaro dell’energia stia portando all’estinzione dei SUV e stia attirando più capitali nell’orbita delle energie rinnovabili, esso sta altresì aprendo il vaso di Pandora della più cruda produzione di petrolio dalle terre canadesi ricche di catrame e del petrolio pesante venezuelano. Come ha ammonito uno scienziato inglese, l’ultima cosa che dovremmo desiderare (sotto il falso slogan dell’”indipendenza energetica”) è la nuova frontiera della produzione di idrocarburi che sollecita “l’abilità umana nell’accelerare il riscaldamento globale” e rallenta la transizione verso “cicli energetici senza carbonio o chiusi al carbonio”.

3. Il Boom della Fine del Mondo

Che fiducia dovremmo riporre nella capacità dei mercati di riallocare gli investimenti dalle vecchie alle nuove energie o, per esempio, dalle spese per le armi ad un’agricoltura sostenibile? Siamo vittime di pubblicità incessanti (soprattutto nella TV di stato) che ci mostrano come compagnie enormi quali Chevron, Pfizer Inc. ed Archer Daniels Midland stiano lavorando duro per salvare il pianeta reinvestendo i loro profitti in ricerche ed esplorazioni che assicurino combustibili con poco carbonio, nuovi vaccini e colture più resistenti alla sete. Come dimostra chiaramente l’attuale boom dell’etanolo derivato dal mais, che ha spostato 100 milioni di tonnellate di semi dalle diete umane principalmente verso i motori delle macchine americane, il “biofuel” può essere un eufemismo utilizzato per finanziare i ricchi e affamare i poveri. Allo stesso modo il “carbone pulito”, nonostante lo strenuo sostegno del senatore Barack Obama (che supporta anche l’etanolo) è, allo stato, puramente una grande illusione: una campagna pubblicitaria e di lobbying da 40 milioni di dollari per una tecnologia ipotetica che il Business Week ha descritto come “lontana decenni dall’utilizzabilità commerciale”.

Inoltre ci sono preoccupanti segnali del fatto che le compagnie di energia e di servizi stiano violando le loro promesse circa l’impegno pubblico per lo sviluppo di tecnologie cattura-carbonio ed energie alternative. Il “progetto dimostrativo” dell’amministrazione Bush, FutureGen, è stato cancellato quest’anno dopo che l’industria del carbone si è rifiutata di pagare la sua quota di “partnership” di questo programma pubblico-privato; allo stesso modo, diverse iniziative private americane di estrazione del carbone sono recentemente state cancellate. In Inghilterra, nel frattempo, la Shell ha appena presentato il più grande progetto mondiale sull’energia eolica, il London Array. Nonostante gli eroici livelli di pubblicità, le compagnie operanti nel campo dell’energia, come i gruppi farmaceutici, preferiscono appropiarsi dei beni comuni, lasciando che siano le tasse, non i profitti, a pagare per qualunque ricerca urgente, lasciata a lungo in sospes, che venga ora intrapresa.

Dall’altro lato, il bottino derivante dai prezzi elevati dell’energia continua ad essere convogliato in proprietà immobiliari, grattacieli e investimenti finanziari. Anche se non siamo proprio sulla sommità del picco di Hubbert— proprio quel picco del petrolio —indipendentemente dall’esplosione finale della bolla del caro-petrolio, quello di cui probabilmente ci stiamo rendendo testimoni è il più grande trasferimento di ricchezza della storia moderna. Un eminente oracolo di Wall Street, il McKinsey Global Institute, ha previsto che se i prezzi al barile del petrolio grezzo rimangono sopra i 100 dollari al barile – al momento rasentano i 140 – i sei paesi membri del Concilio di Cooperazione del Golfo da soli “collezioneranno un bonus di almeno 9 miliardi di dollari entro il 2020”. Come negli anni ’70, l’Arabia Saudita e i suoi vicini del Golfo, il cui prodotto interno lordo è almeno duplicato negli ultimi tre anni, stanno sguazzando nella liquidità: 2,4 miliardi in banche e fondi d’investimento, secondo una recente stima dell’ Economist. Indipendentemente dall’andamento dei prezzi, l’International Energy Agency prevede che “quantitativi sempre maggiori di petrolio proverranno da sempre meno paesi, soprattutto dai membri centro est dell’OPEC [Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio].”

Dubai, che ha da sola poche entrate di petrolio, è diventata il cuore finanziario regionale per quest’ampia piscina di ricchezza, con ambizioni che alla fine competono con Wall Street e la City di Londra. Durante il primo shock petrolifero degli anni ’70, gran parte del surplus dell’OPEC è stato riciclato attraverso acquisti militari in America ed Europa, o parcheggiato in banche straniere per trasformarsi in mutui “subprime” che in ultimo hanno devastato l’America latina. A seguito degli attacchi dell’11 settembre, i paesi del Golfo sono diventati più cauti nell’affidare le loro ricchezza a stati, come l’America, governati da fanatici religiosi. All’epoca stavano ricorrendo ai fondi sovrani per raggiungere un possesso più attivo nelle istituzioni finanziarie straniere, mentre investivano incredibili somme di proventi del petrolio per trasformare le sabbie dell’Arabia in città iperboliche, paradisi dello shopping e isole private per rock star inglesi e gangster russi.

Due anni fa, quando i prezzi del petrolio erano la metà di adesso, il Financial Times ha stimato che i progetti per le nuove costruzioni in Arabia Saudita e negli Emirati già superavano il miliardo di dollari. Oggi potrebbero avvicinarsi al miliardo e mezzo, una cifra considerevolmente maggiore al valore complessivo del commercio mondiale di prodotti per l’agricoltura. La maggior parte delle città-stato del Golfo stanno costruendo grattacieli abbaglianti –e, tra di essi, Dubai è la star indiscussa. In poco meno di una decade ha innalzato 500 grattacieli e attualmente noleggia un quarto di tutte le gru per lavori d’altezza del mondo.

Questo super-pompato boom del Golfo, che il celebre architetto Rem Koolhaas dice stia “dando una nuova configurazione al mondo”, ha portato gli sviluppatori di Dubai a proclamare l’avvento di uno “stile di vita ai massimi livelli”, rappresentato da hotel a sette stelle, isole private e yacht J-class. Non sorprende, allora, che gli Emirati Arabi e i loro vicini abbiano il più alto risparmio energetico pro capite del pianeta. Intanto, i legittimi proprietari della ricchezza petrolifera araba, le masse accatastate negli angusti sobborghi di Baghdad, del Cairo, di Amman e di Khartoum, ne ottengono come magra conseguenza la nascita di impieghi nel campo del petrolio e di madrasse sovvenzionate dall’Arabia. Mentre gli ospiti si godono stanze da 5 mila dollari a notte in Burj Al-Arab, il famoso hotel di Dubai a forma di nave, la classe operaia del Cairo si batte per le strade per il prezzo troppo alto del pane.

4. Possono I Mercati Affrancare le Masse?

Gli ottimisti delle emissioni, naturalmente, guarderanno con il sorriso a questi sentimenti pessimistici ed evocheranno l’imminente miracolo del commercio del carbonio. Ciò che essi non tengono in considerazione è la possibilità reale che un esteso mercato di compensazione del carbonio possa emergere, come già pronosticato, producendo tuttavia solo un minimo miglioramento nel bilancio complessivo del carbonio, visto che non ci sono meccanismi per far dare atto a riduzioni nette reali dell’uso dei combustibili fossili.

Nelle discussioni popolari sui sistemi di scambio che ruotano attorno al diritto (delle industrie) alle emissioni inquinanti, è cosa normale confondere le ciminiere per alberi. Ad esempio, la ricca enclave del petrolio di Abu Dhabi (come Dubai, partner degli Emirati) si vanta di aver piantato più di 130 milioni di alberi – ciascuno dei quali adempie al suo dovere assorbendo anidride carbonica dall’atmosfera. Comunque, questa foresta artificiale nel deserto consuma altresì grandi quantità di acqua d’irrigazione prodotta o riciclata da costose centrali di desalinizzazione. Questi alberi permetteranno allo sceicco Khalifa bin Zayed di portare un’aura durante i meeting internazionali, ma la cruda realtà è che essi sono un nastro di bellezza che pesa dal punto di vista energetico, come la maggior parte del cosiddetto capitalismo verde. E, mentre noi ci siamo dentro, chiediamoci semplicemente: cosa succede se la compravendita di crediti di carbonio e i tentativi di compensazione dell’inquinamento falliscono nell’abbassare il termostato? Che cosa esattamente motiverà i governi e le multinazionali ad affiancarsi spalla a spalla nella crociata per ridurre le emissioni attraverso la regolamentazione e la tassazione?

La diplomazia sul clima nello stile di Kyoto parte dal presupposto che tutti i maggiori attori, una volta accettata la scienza contenuta nei rapporti dell’IPCC, riconosceranno un supremo interesse comune nel guadagnare controllo sul fuggevole effetto serra. Ma il riscaldamento globale è cosa diversa dalla Guerra dei Mondi, nella quale i marziani invasori annientano tutta l’umanità, senza distinzioni. Il cambiamento climatico, invece, produrrà inizialmente impatti diseguali nelle regioni e tra le classi sociali. Rinforzerà, non diminuirà l’ineguaglianza geopolitica e il conflitto.

Come ha sottolineato il Programma di Sviluppo della Nazioni Unite nel suo rendiconto dell’anno scorso, il riscaldamento globale è la principale delle minacce per i poveri e i non nati, le “due facce della società con poca o nessuna voce politica”. Un’azione globale coordinata in loro favore presuppone quindi o un’attribuzione di potere rivoluzionaria (uno scenario non considerato dall’IPCC) o la trasmutazione dell’interesse verso se stesse delle nazioni e delle classi ricche in un’illuminata “solidarietà” senza precedenti nella storia. Da una prospettiva di attore razionale, il secondo risultato sembra realistico solo se può essere dimostrato che i gruppi privilegiati non hanno opzioni di “uscita” preferenziale, che la pubblica opinione internazionale guida le decisioni di policy-making negli stati chiave e che la riduzione dell’effetto serra possa essere raggiunta senza grossi sacrifici per i costosi standard di vista dell’Emisfero Nord – nessuna delle opzioni sembra altamente plausibile.

E cosa succede se le crescenti turbolenze ambientali e sociali invece di galvanizzare un’eroica innovazione e una cooperazione internazionali semplicemente orienteranno le elÎte pubbliche verso tentativi ancora più frenetici di barricarsi fuori dal resto dell’umanità? La mitigazione globale, in questo scenario inesplorato ma non improbabile, sarebbe tacitamente abbandonata (come, del resto, è in qualche modo già successo) in favore di accelerati investimenti a favore di adattamenti selettivi per passeggeri di prima classe della Terra. Qui si parla della prospettiva di creare oasi verdi e recintate di costante prosperità su un pianeta altrimenti sofferente.

Sicuramente continueranno ad esserci trattati, fondi per il carbonio, assistenza per gli affamati, acrobazie umanitarie e forse anche la completa conversione di alcune città europee in piccoli paesi ad energie alternative. Ma il passaggio ad uno stile di vita con emissioni basse o pari a zero sarebbe comunque impensabilmente costoso. (In Gran Bretagna, costa attualmente 200 mila sterline in più costruire una casa a zero emissioni di carbonio, “livello 6”, rispetto a un’abitazione standard nella stessa zona). E ciò diverrà probabilmente ancor più inimmaginabile dopo forse il 2030, quando gli effetti convergenti del cambiamento climatico, il caro petrolio, il caro acqua e 1,5 miliardi di persone sul pianeta potrebbero seriamente cominciare a soffocare la crescita.

5. Il Debito Ecologico del Nord

La vera domanda è questa: le nazioni ricche mobilizzeranno davvero la volontà politica e le risorse economiche per raggiungere davvero gli obiettivi dell’IPCC o, per quanto riguarda ciò, aiuteranno i paesi più poveri ad adattarsi all’inevitabile, già “commissionato” quoziente di surriscaldamento che sta arrivando fino a noi attraverso la lenta circolazione dell’oceano mondiale?

Per dirla con toni più caldi: gli elettori delle nazioni ricche si sbarazzeranno della loro bigotteria e dei loro confini murati per ammettere i rifugiati provenienti dai menzionati epicentri della siccità e della desertificazione come il Maghreb, il Messico, l’Etiopia e il Pakistan? Vorranno gli americani, il popolo più misero per quanto riguarda gli aiuti stranieri pro capite, imporre a se stessi delle tasse per aiutare a dare una sistemazione a milioni di individui che potrebbero essere spazzati via da regioni ad alta densità come il Bangladesh?

Gli ottimisti orientati al mercato, ancora una volta, faranno riferimento a programmi di compensazione del carbonio come il Clean Development Mechanism, che, essi sostengono, permetterà al capitale verde di volare verso il terzo mondo. La maggior parte del terzo mondo, comunque, preferirebbe forse che il Primo Mondo riconoscesse la confusione ambientale a cui ha dato vita e si prendesse le responsabilità necessarie per sistemarla. Giustamente si schierano contro la nozione che l’onere più gravoso di adattamento all’epoca dell’Antropocene dovrebbe ricadere su coloro i quali hanno contribuito in misura del tutto marginale all’emissione di carbonio e hanno conseguito i minimi benefici da 200 anni di industrializzazione.

In uno studio serio recentemente pubblicato su Proceedings of the [US] National Academy of Science, un gruppo di ricerca ha tentato di calcolare i costi ambientali della globalizzazione economica dal 1961 esprimendoli in deforestazione, cambiamento climatico, pesca in eccesso, buco dell’ozono, conversione delle mangrovie ed espansione dell’agricoltura. Dopo aver adattato gli attinenti oneri economici, essi hanno scoperto che le nazioni più ricche, con le loro attività, hanno generato il 42 per cento della degradazione ambientale attorno al mondo, e si sono accollate solo il 3 per cento dei relativi costi.

I radicali del Sud faranno giustamente notare che esiste un altro debito. Per trent’anni, le città dei paesi in via di sviluppo sono cresciute ad una velocità rapidissima, senza un equivalente investimento pubblico in servizi infrastrutturali, alloggi o sanità pubblica. In gran parte ciò rappresenta il risultato dei debiti esteri contratti dai dittatori, dei pagamenti pretesi dal Fondo Monetario Internazionale e dei settori pubblici portati alla rovina dagli accordi di “modificazione strutturale” della Banca Mondiale.

Questo deficit planetario di opportunità e giustizia sociale è ben ritratto dal fatto che più di un milione di persone, secondo l’UN-Habitat, vivono oggi nei bassifondi e il numero di questi si prevede duplicherà entro il 2030. Un numero pari, o forse superiore, brancolano nel cosiddetto settore informale (un eufemismo creato dal primo mondo per indicare la disoccupazione di massa). L’incondizionato impeto demografico, nel frattempo, aumenterà la popolazione urbana mondiale di 3 miliardi di persone nei prossimi 40 anni (9 per cento nelle città povere) e nessuno – proprio nessuno – può immaginare come un pianeta di quartieri poveri con crescenti crisi alimentari ed energetiche potrà trovare un posto per i loro sopravvissuti biologici, e ancor meno per le loro inevitabili aspirazioni ad un minimo di felicità e dignità.

Se questo sembra ingiustamente apocalittico, si consideri che la maggior parte dei progetti sui modelli climatici rinforzerà incredibilmente l’attuale geografia di ineguaglianza. Uno degli analisti pionieri dell’economia del riscaldamento globale, il professore William R. Cline del Petersen Institute, ha recentemente pubblicato uno studio condotto paese per paese sui probabili effetti del cambiamento climatico sull’agricoltura nelle ultime decadi di questo secolo. Anche nelle simulazioni più ottimistiche, il sistema agricolo del Pakistan (per il quale di prevede una diminuzione del 20 per cento dell’attuale produzione agricola) e l’India nord orientale (riduzione del 30 percento) saranno facilmente distrutti, insieme a gran parte del Medio Oriente, del Maghreb, della cintura di Sahel, della parte più meridionale dell’Africa, dei Carabi e del Messico. Ventinove paesi in via di sviluppo perderanno il 20 percento o più della loro produzione agricola a causa del riscaldamento del pianeta, mentre l’agricoltura nel già prosperoso nord subirà potenzialmente, in media, una spinta dell’8 percento.

Alla luce di questi studi, la crudele competizione in corso tra i mercati dell’energia e del cibo, amplificata dalla speculazione internazionale in beni e terre agricole, è solo un modesto presagio del caos che potrebbe presto crescere esponenzialmente dalla convergenza tra consumo delle risorse, ostinata disuguaglianza e cambiamento climatico. Il vero pericolo è che la solidarietà umana, come un blocco di ghiaccio dell’Antartico, possa improvvisamente fratturarsi e scomporsi in migliaia di cocci.

Mike Davis è l’autore di In Praise of Barbarians: Essays against Empire (Haymarket Books, 2008) e di Buda’s Wagon: A Brief History of the Car Bomb (Verso, 2007). Attualmente sta lavorando ad un libro sulle città, la povertà e il cambiamento globale. Altro a questo link

NOTE DEL TRADUTTORE

[1] Trattasi di tipi diversi di arenaria

[2] Letteralmente, “4° rapporto di valutazione”

[3] Provvedimenti per il rilancio dell’economia, investimenti pubblici per la ripresa economica

[4] Nel testo originale, l’espressione è ‘cap-and-trade system’

Titolo originale: “Human Ecology”

Fonte: http://www.thenation.com
Link
27.06.2008

Traduzione di Rachele Materassi per www.comedonchisciotte.org

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