La Gioconda è l’unico ritratto di Leonardo da Vinci di cui non sia stata messa in dubbio la paternità. L’opera è comunemente conosciuta con due denominazioni: Monna Lisa (usata soprattutto nel mondo anglosassone) e Gioconda. La prima risale a Giorgio Vasari (1511-1574), pittore, architetto e storico dell’arte italiano, e la seconda a Cassiano dal Pozzo (1588-1657), intellettuale e collezionista d’arte, creatore del Museo Cartaceo.
Leonardo dal marzo al giugno 1503 si trova a Firenze e, stando al Vasari, inizia a dipingere quest’opera.
Leonardo aveva portato con sé il quadro in Francia nel 1517. Ci stava lavorando quindi da più di dieci anni, con diversi rifacimenti, come dimostrato dalle analisi ai raggi X a cui è stato sottoposto il dipinto, che mostrano tre diverse versioni della Monna Lisa, nascoste sotto quella attuale. L’opera era frutto di ripensamenti e sperimentazioni, come era tipico del modus operandi dell’artista, una sorta di opera in continuo divenire, certamente non un lavoro qualsiasi, ma una vera propria riflessione sul linguaggio artistico che il dipinto doveva esprimere.
L’identità della figura ritratta nel dipinto non è certa. Che si tratti di Monna Lisa Gherardini, una cortigiana proveniente dalla piccola nobiltà rurale, o che sia la benestante signora fiorentina, Monna Lisa del Giocondo, da cui deriva l’altro nome con cui è conosciuto il ritratto, o che si tratti di un autoritratto dove Leonardo si è raffigurato in versione femminile, sono tutte ipotesi. È anche possibile che Leonardo non abbia dipinto una persona specifica.
Il Vasari ne parla citando testimonianze dirette,
Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Monna Lisa sua moglie, e quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto, la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontainebleau”,
Agostino Vespucci la cita in un documento fiorentino:
[Come] il pittore Apelle. Così fa Leonardo da Vinci in tutti i suoi dipinti, ad esempio per la testa di Lisa del Giocondo e di Anna, la madre della Vergine …
Ottobre 1503.
Antonio dei Beatis, segretario del cardinale Luigi d’Aragona, aveva visto il dipinto il 10 ottobre 1517 nel castello di Cloux.
Un ritratto della grandezza del vero, in tavola, incorniciato di noce intagliato, è mezza figura ed è ritratto di una tal Gioconda. Questa è la più completa opera che di questo autore si veda, perché dalla parola in poi altro non gli manca”,
testimonierà Cassiano dal Pozzo, che, durante il suo viaggio a Parigi con il cardinale Francesco Barberini, vedrà l’opera a Fontainebleau nel 1625.
Era, insomma, un dipinto che aveva accompagnato una fetta di vita del genio toscano. Non era un’opera qualsiasi. Diventa quindi difficile pensare a una vendita, che sarebbe avvenuta per 4000 scudi d’oro, o, addirittura, a una donazione al Re di Francia. Certezze non ce ne sono.
Leonardo moriva ad Amboise, il 2 maggio 1519. Unico affetto che aveva avuto in vita, il discusso Gian Giacomo Caprotti (1480 – 1524), detto il Salaì, che però non era vicino al maestro nell’ora della morte. Il giovane artista e assistente ritornerà velocemente a Milano, portando con sé alcune opere di Leonardo. Morirà cinque anni dopo, forse assassinato, e nell’inventario redatto dai suoi eredi compaiono la Leda, il San Girolamo, la Sant’Anna, il San Giovanni Battista, e, non ultima, la Gioconda.
Come sia passata poi nelle mani della corona di Francia, evidentemente non è chiaro. Nessun documento prova quali siano stati i percorsi del capolavoro leonardesco, dal Caprotti a Francesco I. Soprattutto non è chiaro se la vendita sia stata gestita o voluta in un secondo momento dal Salaì, che però alla sua morte possedeva ancora il dipinto. E quindi il mistero si infittisce.
L’associazione “International Restitutions”, qualche settimana fa, ha inoltrato un ricorso al Consiglio di Stato della Francia, chiedendone la restituzione ai pronipoti del Genio: la presunta acquisizione, sempre a detta dell’associazione in questione, non è da considerarsi valida perché sarebbe avvenuta in maniera illegale.
Primo, perché non è stato trovato alcun documento ufficiale che certifichi la vendita o l’eventuale donazione del dipinto.
Secondo, perché Francesco I si sarebbe in realtà appropriato dell’opera sfruttando il “diritto d’albinaggio”, allora in vigore. Si trattava in sintesi di una legge che faceva sì che i beni dei cittadini stranieri deceduti senza figli sul territorio francese (come Leonardo) potessero essere incamerati dalla corona.
Tale acquisizione, poiché la decisione impugnata continua a produrre i suoi effetti anche oggi, è contraria agli articoli 1 e 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 all’articolo 17 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 10 dicembre 1948 e dell’articolo 1 del protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La Gioconda appartiene effettivamente ai discendenti di Leonardo: il primo atto di appropriazione di Francesco I tramite il diritto d’albinaggio è giuridicamente inesistente. E non può produrre alcun effetto, né creare alcun diritto a beneficio dello Stato francese”.
L’associazione è consapevole dell’alta probabilità di rigetto del ricorso da parte del Consiglio di Stato di Francia, in quanto non è la prima volta che associazioni o soggetti fisici reclamano diritti sulla Gioconda. Ma in quel caso, ha già fatto sapere di essere pronta a rivolgersi alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo.