DI GILAD ATZMON
Gilad.co.uk
Una chiacchierata all’Islamic Society of York a Toronto, in Canada, del 24 febbraio 2012
Mi hanno chiesto di venirvi a parlare
del conflitto che oggi si dipana nelle nostre fila tra chi appoggia la Soluzione di un Solo Stato per il conflitto israeliano-palestinese, e quelli che sostengono per due stati per due paesi.
Ma ovviamente il tema è più profondo: malgrado il fatto che Israele sia uno Stato sovrano organico
– è già stato riconosciuto come Stato tra le nazioni, ha un sistema di fognatura unificato, una rete elettrica, una linea internazionale con prefisso proprio -, molti dei dirigenti del mondo occidentale insistono
che dovrebbe essere diviso in due. Ma non pensate che sia abbastanza
strano che la “comunità internazionale” segua ciecamente l’ideologia sionista, che vuole tracciare una linea ispirata razzialmente tra i due popoli di questa terra?
Quindi, invece di entrare in un dibattito inutile e interminabile, propongo di partire da un punto su cui ci troviamo tutti d’accordo: presumo che tutti accettiamo il fatto che Israele sia uno Stato unico, anche se è ancora dominato politicamente e spiritualmente da un sistema politico etnocentrico e discriminatorio.
Israele si definisce come lo Stato
ebraico e il significato agli effetti pratici è abbastanza devastante. È pilotato dalla razza. Le leggi israeliane favoriscono la popolazione ebraica rispetto ai popoli indigeni. Israele è impermeabile ai concetti universali ed etici. Fondamentalmente, si è insediato per servire gli interessi di una tribù a spese del popolo di questa terra.
Insisterei sul fatto che, per affrontare qualunque tema che abbia a che vedere la risoluzione del conflitto tra Israele e Palestina, bisogna prima capire cosa è Israele. Ci dobbiamo senz’altro domandare che cosa implichi la natura ebraica di Israele. Dobbiamo, una volta per tutte, comprendere il rapporto tra sionismo e giudaismo.
Il sionismo si presentò all’inizio
come una promessa utopica per far nascere un nuovo “ebreo autenticamente etico e civilizzato”; promise di rendere gli ebrei “un popolo come tutti gli altri popoli“. Ma la realtà israeliana ha dimostrato di essere esattamente il contrario di quell’aspirazione.
Il sionismo ha completamente fallito. Gli israeliani sono riusciti a dimostrare di essere il collettivo meno etico della storia ebraica. Ci si potrebbe chiedere perché, dove e quando tutto questo iniziò ad andar male? Quando è fallito il sionismo? Se il sionismo era un momento unico per il risveglio e l’autoriflessione degli ebrei, perché non ha mantenuto le promesse? Credo che la risposta sia lapidaria. Il sionismo era condannato al fallimento fin dal suo nascere, perché, nonostante un programma pseudo-secolare, era impigliato in un’ideologia quasi religiosa, e inevitabilmente trasformò la Bibbia in una sorta di catasto, e Dio in un agente immobiliare. Fu l’ebreità dello Stato ebraico che prevalse sull’iniziale utopia sionista. È l’ebreità di Israele che ha portato alla pulizia etnica, alla segregazione, all’isolamento, e, in ultima istanza, alla resurrezione delle mura dei ghetti europei.
Col fine di contemplare una prospettiva di un futuro di pace, dobbiamo allora essere in grado di capire la complessa relazione tra ebrei, sionismo, Israele e giudaismo, e dobbiamo domandarci se esiste una visione lucida della pace all’interno della dialettica ideologica e culturale ebraica.
Ma siamo almeno autorizzati a porci
queste domande? Dico senz’altro di sì, che dobbiamo farlo. Dopo tutto,
Israele si definisce apertamente, in modo cosciente e perfino con orgoglio, uno Stato ebraico. I suoi aeroplani lanciano copiosamente sui quartieri popolati dai palestinesi le bombe decorate con i simboli ebrei. Quindi, abbiamo tutto il diritto di domandarci che cosa significhi essere ebreo e qual è il suo ruolo nella psiche e nello spirito ebreo.
Nel mio libro “The Wandering Who”, ho tentato di sbrogliare questa matassa. Ho cercato di capire in cosa consista la politica identitaria ebraica. Ho esposto la continuità tra il sionismo, l’anti-sionismo ebraico e alcuni elementi della sinistra. Nel libro cerco di scoprire quale sia è il significato dell’ebreità e come sia relazionato con la politica ebrea e il potere politico ebreo.
Nelle ultime pagine del libro ho elaborato uno scenario di pace fittizio, dove un immaginario Primo Ministro israeliano riesce a capire, quasi all’improvviso, che il conflitto israelo-palestinese può essere risolto con una singola dichiarazione.
In una conferenza stampa, il Primo
Ministro immaginario annuncia al mondo e al suo paese:
“Israele si rende conto delle
sue circostanze peculiari e della sua responsabilità per la pace mondiale. Israele chiede al popolo palestinese di far ritorno nelle proprie case. Lo Stato ebreo deve diventare uno Stato dei cittadini, dove tutte le persone godono di uguali diritti.”
Anche se sorpresi dalla repentina iniziativa israeliana, gli analisti politici di tutto il mondo si affrettano a
concludere che, considerando il fatto che Israele rappresenta gli ebrei di tutto il mondo, una simile iniziativa di pace israeliana possa non solo risolvere il conflitto in Medio oriente, ma porrebbe fine anche a due millenni di mutui sospetti e di risentimenti tra cristiani ed ebrei. Alcuni intellettuali israeliani, ideologi e politici di destra si uniscono all’iniziativa rivoluzionaria e dichiarano che questo atto eroico unilaterale da parte di Israele potrebbe essere l’unico e assoluto compimento del sogno sionista, perché non solo gli ebrei sono tornati alla presunta casa natale, ma sono anche riusciti, finalmente, ad amare i vicini e ad essere amati.
Ma non trattenete il respiro: anche
se l’immagine è emozionante, non dobbiamo aspettarci a breve un qualcosa di simile, dato che Israele non è una nazione normale e uno scenario simile non si adatta alla sua ideologia etnocentrica che ha radici nell’esclusività, nell’eccezionalismo, nella supremazia razziale e in una profonda tendenza alla segregazione.
Il significato di tutto ciò è davvero preoccupante. Affinché Israele e gli israeliani mantengano l’iniziale promessa sionista di trasformarsi in “un popolo come gli altri“, dovrà essere soppressa ogni traccia di superiorità ideologica. Per far sì che lo Stato ebraico riesca a realizzare un’iniziativa di pace, è prima necessario “de-sionizzare” Israele, e deve cessare di credere di essere lo Stato ebreo. Allo stesso modo, per immaginarsi un Primo Ministro israeliano che sostenga la pace, è necessario che prima si de-sionizzi.
Per come stanno al momento le cose, lo Stato ebreo è categoricamente incapace di portare il suo popolo verso una riconciliazione. Gli mancano gli ingredienti necessari per pensare nei termini di armonia e riconciliazione. Fino ad ora, Israele può pensare solo nei termini di Shalom, un lemma che, in realtà, comporta pace e sicurezza solo per gli “ebrei“.
Ma cosa accade agli ebrei del mondo? Possono spingere i fratelli israeliani verso una riconciliazione? Non credo che davvero che lo possano fare. Recentemente mi sono imbattuto in alcune statistiche devastanti raccolte dall’Institute for Jewish Policy Research (JPR). Il sondaggio ha studiato “le attitudini degli ebrei britannici nei confronti di Israele“. Lo studio ha rivelato rivelò che “la vasta maggioranza dei contattati (ebrei britannici) ha mostrato un forte appoggio personale e un’affinità con Israele: il 95 per cento ha visitato il paese, il 90 per cento lo considera la “patria ancestrale” del popolo ebraico e l’86 per cento ritiene che gli ebrei abbiano una responsabilità speciale per la propria sopravvivenza.”
Anche se alcune voci ebree “progressiste” insistono nel dirci che gli ebrei della Diaspora si stanno allontanando da Israele e dal sionismo, la relazione del JPR rivela l’esatto contrario. Nove ebrei britannici su dieci sentono affinità con uno Stato criminale di guerra, esecutore di una pulizia etnica, razzista e discriminatore.
Ma che ne è di quell’uno su dieci che si oppone apertamente a Israele? Riuscirà a parlarne e ci aiuterà a diffondere un messaggio di pace? Non ne sono sicuro. È più probabile è che farà il possibile per impedire che si parli del giudaismo o del fatto che il 90 per cento dei suoi fratelli si identifica con lo Stato ebraico. Prima della mia apparizione a Toronto, gli organizzatori dell’evento di questa notte sono stati oggetto di costanti pedinamenti da parte di varie organizzazioni e individui “anti”-sionisti. Come i loro fratelli sionisti, molti ebrei anti-sionisti sono preoccupati in larga misura dagli aspetti tribali ebrei: combatteranno l’antisemitismo, “la negazione dell’Olocausto” o qualunque tentativo di comprendere il giudaismo da una prospettiva universale. Per questo, come rivela l’inchiesta del JPR, otterranno davvero poco nelle rispettive comunità.
Ma la situazione non è completamente oscura. In realtà sono un po’ ottimista. In più di un’occasione, mi convinco che le uniche persone che possono portare la pace sono in realtà i palestinesi, perché la Palestina, contro ogni aspettativa e nonostante la sofferenza, l’umiliazione e l’oppressione infinite, è ancora una società orientata eticamente e ecumenicamente.
Allora, cosa possiamo fare per il momento: dobbiamo lottare per uno stato o per due stati? Suppongo che avrete capito come io sia un forte sostenitore di uno Stato unico. Mi piacerebbe vedere Israele trasformarsi in uno Stato di tutti i cittadini. Riconosco anche che questo Stato non può essere uno Stato ebreo. Sarà la Palestina. È ora di dirlo apertamente, Israele appartiene al passato. E, comunque, è quello che avviene sul terreno che determinerà il futuro della regione. E quello che vediamo nel terreno può essere incoraggiante.
Nonostante la sofferenza, l’animosità e la mancanza di fiducia tra i due paesi, c’è un principio s cui
sia gli israeliani che i palestinesi possono accordarsi: “Due paesi, Un Hummus.” Può sembrare frivolo, banale o triviale, ma è invece molto più profondo di un semplice suggerimento culinario. Gli israeliani stanno diventando la minoranza in questa terra. Come ho sentito dire una volta all’ambasciatore della Palestina in Gran Bretagna, Manuel Hassassian, “Israele ha molte bombe letali, i palestinesi ne hanno una sola, quella demografica.”
Curiosamente, quando gli israeliani
vogliono sentirsi autentici, non parlano in yiddish o in aramaico, in realtà bestemmiano in arabo e mangiano hummus. Il significato è semplice; nel fondo nei loro cuori gli israeliani sanno che la Palestina è la terra e Israele è solo uno Stato. Quando gli israeliani vogliono stringersi a Sion, in realtà plagiano gli indigeni della terra, dato che gli israeliani, nel profondo, sanno che il cielo, il mare, Al Quds, il Monte degli Olivi, il Mar di Galilea, il Muro del Pianto, la lingua araba e l’hummus appartengono alla terra. Capiscono anche che l’oppressione, l’eccezionalismo e la supremazia appartengono allo Stato, il loro Stato ebraico.
“Due paesi, un hummus”
è la mia immagine di pace e di riconciliazione. La Terra Rimarrà qui per sempre; il fallimentare Stato ebraico è già oggetto di ricerca storica. I due popoli ceneranno insieme e non condivideranno solamente l’hummus, potranno anche condividere una pita.
Fonte: TWO PEOPLE, ONE HUMMUS
25.02.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE