E’ vero, rinnovare il passaporto è la cosa più semplice del mondo. Basta recarsi in questura, presentare la domanda, aspettare qualche giorno e ritirare il passaporto nuovo. Perché in una democrazia avere il passaporto è un diritto del cittadino.
Una volta era più difficile, occorreva telefonare, prendere appunto di tutti i pappiè (come diceva mio nonno), necessari, pagare tasse e tassette, compilare moduli, fotografarsi e poi si andava a depositare il tutto. Dopo una fila adeguata all’importanza dell’ufficio, un poliziotto sadico esaminava la documentazione con aria di superiore competenza cercando di trovare qualche pecca, qualche bollo mancante, qualche certificato scaduto, infine si decideva ad accettarla ed in capo al tempo necessario per fabbricare carta e inchiostro partendo dalle materie prime, il passaporto era pronto. Oggi, per fortuna, con le nuove tecnologie informatiche è tutto molto più semplice.
Basta dare un’occhiata in rete e subito appare il modulo di richiesta, il bollettino postale da pagare – euro 42,5 – il “contributo amministrativo”, sì, insomma, la vecchia marca da bollo – euro 72,5 – due foto formato tessera, fotocopia della carta d’identità – naturalmente per avere un documento, ci vuole un altro documento – e poi basta portare il tutto in questura. Fatto! Senza neppure telefonare!
Be, all’atto pratico, anche oggi pagare le tasse non è poi così facile, devo andare all’ufficio postale e fare la fila, poi l’impiegata, che entra a fatica nella sedia, mi dice che il bollettino generico, che pure ho compilato con cura, non va bene perché ci vuole uno apposito, tutto stampato di rosso. Vabbè allora me lo dia questo bollettino rosso che lo compilo. Eh, avercelo! Mi dice, ma alla fine lo trova frugando in un armadio: lo compilo di nuovo e poi di nuovo a far la fila.
C’ha provato anche il tabaccaio mascherato che spaccia le marche ad esercitare la parte di prevaricazione di sua spettanza, mentre entravo mi ha intimato: Signore! Un attimo per favore! Questo perché in bottega c’era già un tizio a comprare gratta e vinci. Ma il bottegaio ha fatto male i conti: lui, povero stronzo, non ha il monopolio delle carte bollate, non mi tiene per le palle come l’amministrazione: di tabaccai ne trovo quanti ne voglio. Lui riesce solo a perdere clienti.
Sulle istruzioni della questura sta scritto che bisogna prendere un appuntamento sul loro sito. Un appuntamento per consegnare una domanda? Ma se è roba di un minuto? Che senso ha? Vabbè, se proprio lo vogliono, prendiamo questo appuntamento. Ma il sito non mi fa entrare. Per entrare nella sezione appuntamenti occorre lo spid. Quindi non solo c’è bisogno di un appuntamento per consegnare dei documenti ad uno sportello, ma anche di uno status speciale solo per prendere questo appuntamento? Esattamente. Non è possibile, io sono un cittadino, un cittadino ha il diritto di inoltrare richieste alla pubblica amministrazione e se il loro sito degli appuntamenti non mi lascia entrare, che colpa ne ho io? Ci vado direttamente. L’ufficio passaporti è aperto solo due ore al giorno – giovedì e festivi esclusi – ma con tutta la documentazione compilata e le tasse pagate, in fondo si tratta solo di depositare le carte: un attimo. Eppure, nonostante tutto ciò che fanno sia prendere in mano dei foglietti e consegnarne altri e per di più ricevano solo su appuntamento, riescono comunque a far sì che ci sia una discreta fila. Devono avere poteri di moltiplicazione con le file simili a quelli di Cristo con i pesci. Che minchia fanno la dentro?
La poliziotta dall’aria letargica è completamente scandalizzata. Quasi quasi mi denuncia per vilipendio di pubblico ufficiale. Vorrei forse presentare all’ufficio passaporti la domanda per avere un passaporto senza prima aver preso un appuntamento con l’unico mezzo abilitato a prendere un appuntamento, cioè con il sito appuntamenti della questura accessibile solo a chi possiede una cosa, o uno status, o chissacchè, chiamato spid in quanto la cittadinanza italiana non è sufficiente? Ma è inaudito! Roba dell’altro mondo! Ma dove pensa di vivere lei? Ma, guardi, non so dove vivo adesso, ma dieci anni fa è proprio così che ho fatto: sono venuto in questura e ho portato i documenti. Tra parentesi, la fila era più o meno la stessa. Ma le cose cambiano caro signore! Si deve adeguare! Mi adeguo, però il vostro sito appuntamenti, cioè il sostituto meccanico della segretaria, non mi fa entrare, perché non ho lo spin, cioè, lo spid! E allora se lo facci lo spid! Io qui devo lavorare – prendere foglietti, consegnarne altri – mica posso perdere tempo con chi non ha appuntamento! Ma visto che il sito appuntamenti non mi fa entrare, non potrebbe darmelo lei l’appuntamento già che sono qua nell’ufficio passaporti? Anatrema! Anatrema! Ma mi facci il piacere, se ne vadi! Io ho un foglietto, sa, con su scritti tutti i nomi di oggi – una decina – e solo con loro posso parlare e lei sul foglietto non c’è! Guardi, non c’è! Tra i primi nomi della lista che non dovrei vedereere per ragioni di privacy (anglo neolingua), mi pare di leggere:“Franz Kafka”.
Chissà se la poliziotta avrà l’identità digitale. Una cosa è certa: non ne ha certo bisogno per ottenere il passaporto.
Ora immagino sia evidente anche ad un bambino che subordinare la possibilità di prendere un appuntamento presso la questura per consegnare una domanda che non viene altrimenti presa in considerazione, non sia neppure lontanamente un metodo per facilitare la burocrazia, ma un mezzo per costringere indirettamente, cioè con l’oramai usuale sistema usato dal governo, il ricatto, il cittadino a farsi uno spid, cioè un’identità digitale, della quale, vi giuro, non ho mai sentito alcun bisogno. Ma tant’è. Si tratta dello stesso metodo usato per il green pass (anglo neolingua) o anche, dalla mafia: o fai come dico o ti brucio la casa. Ne consegue per consistenza logica, che per ottenere un passaporto devi possedere un computer o uno “smart phone” (anglo neolingua, cioè un computer con lo schermo piccolo), e un accesso a internet, ma questo viene sottaciuto, non deve apparire, è lasciato come onere nascosto alla cura del suddito.
Va da sé che in una dittatura sarebbe lo stato stesso ad importi una “identità elettronica” e a spedirti la tessera a casa o magari a importi di munirti di un apposito apparecchio elettronico di sorveglianza presso un apposito ufficio. Tutte cose costose e complesse. In una democrazia come la nostra, invece, nessuno sembra importi nulla, nessuno viene a cercarti a casa, l’obbligo c’è, ma è indiretto: sei in pratica costretto a fare tutto da solo, senza assistenza e senza che nessuno si prenda la responsabilità di costringerti apertamente. Attraverso una pratica che in diritto penale si chiama “ricatto”, devi denunciarti e punirti da solo. Molto più rispettoso e democratico, volete mettere! La stessa differenza che c’è tra uno schiavo e uno sfruttato: Lo schiavo, deve provvedere a mantenerlo il padrone e lavora poco, lo sfruttato si deve arrangiare da solo per il mantenimento e lavora di più proprio per riuscire ad arrangiarsi. Se lo schiavo muore di fame, la colpa è del padrone, se lo sfruttato muore di fame, la colpa è sua che è sempre stato un fallito e non è stato in grado di “cogliere le opportunità”. Suggerirei di obbligare tutti al raggiungimento della maggiore età, un “consenso informato”: il sottoscritto dichiara che se mai si troverà in situazione di indigenza (miseria non usa più in burocratese) sarà solo per colpa sua e solleva la società tutta da qualsivoglia responsabilità.
A quanto pare non posso fare a meno di farmi questo spid se voglio avere un passaporto e tenete conto che il passaporto ce l’ho dall’età di 18 anni: mi è difficile rinunciare. Anche se allo spid preferirei uno schiaffo in faccia. Torno a casa e mi impegno sul computer. A quanto pare ci sono diversi “gestori abilitati” tra i quali scegliere, tutti sostanzialmente equivalenti. Qui la solita dittatura ti metterebbe a disposizione un ufficio, ma la democrazia ti fa scegliere tra privati o privatizzati cui ha trasmesso il potere di angariarti e che, per di più, tentano di guadagnarci sopra quanto possono. Pare si possa procedere in diversi modi, alcuni gratuiti, ma devi recarti personalmente a Catania, altri attraverso la telecamera del computer, ma pare complesso e poi, la mia funziona? Provo con un metodo intermedio, a pagamento, presso la Tom, anche se ha una fama peggiore di quella dei quaranta ladroni di Ali Baba, e dopo una lunga decifrazione delle istruzioni redatte in impeccabile informatichese e un’altrettanto lungo riempimento di sterminate pannellate che mi chiedono di tutto nonostante sappiano di me più di quanto io stesso ricordi, dopo aver eliminato errori introvabili che consistevano in cose come avere usato la sbarra tra le cifre della data di nascita anziché il trattino, scopro che non possiedo il metodo di pagamento richiesto.
Con la testa nel pallone, come direbbe Fantozzi, mi butto allora sul famigerato sito delle poste su quale passo ore. Per dare un’idea, uno degli errori impedienti era che i nomi dei file della documentazione allegata avevano spazi tra le parole. Scioccamente scrivevo carta identità anziché cartaidentità e ciò era ovviamente imperdonabile, ma, per discrezione, la macchina non osava dirlo esplicitamente. Con una persona ci puoi sempre parlare, anche con Eichmann, con un computer no. O fai tutto esattamente come vuole lui – anche se come vuole non te lo dice – o si blocca con un’ostinazione che neanche l’asino più malevolo potrebbe mai sperare di emulare. Per questo ci fanno parlare sempre più solo con macchine. Per chiuderci la bocca. O qualcuno ha forse mai ricavato qualcosa di utile da un assistente virtuale?
Comunque, dopo una giornata di lavoro al computer – scrivere un articolo, in confronto, è una pratica rilassante – sono riuscito ad arrivare in fondo alla procedura con l’approvazione di sua santità l’intelligenza artificiale. Ma non ero ancora a nulla: ciò che davvero volevo era rinnovare il passaporto, mica giocare sul sito delle poste, e per quel fine ero ancora a mille miglia. Esattamente alla fase di iniziazione per l’acquisizione di meriti che mi consentissero di conseguire l’abilitazione a prendere un appuntamento con la questura per la consegna della domanda! Poi la questura avrebbe deciso se accoglierla o meno. Magari mancava una virgola o l’indirizzo era scritto in lettere minuscole.
E poi le poste non erano ancora soddisfatte: adesso dovevo recarmi ad un ufficio postale per completare l’identificazione presentandomi fisicamente: ecco esisto davvero! Questa è la mia carta di identità e questa la mia tessera sanitaria! Habeo tessera, ergo sum!
Fortunatamente l’accesso agli uffici postali è al momento libero, fino pochi mesi fa occorreva un permesso speciale anche solo per entrare! Era necessario aver subito un’altra via crucis. Ma in fondo alle istruzioni, c’è un piccolo avviso in anglo neolingua che sollecita a prenotare un “ticket” prima di andare all’ufficio. Cosa significherà mai nella lingua di Dante e Manzoni prenotare un “ticket”? Forse fissare un appuntamento? Ma allora perché sul sito delle poste c’è un’altra voce che parla esplicitamente di “appuntamento”? Mistero. Dato che “aprire un ticket” per telefono è impossibile, ma è obbligatorio farlo sul sito web (anglo neolingua), ci provo, ma per arcani, informatici motivi, il sito, dove pure mi sono con sudore registrato, non me lo lascia fare. Probabilmente ai siti (obbligatori) risulto antipatico. A quelli che vendono ciarpame no, li mi fanno entrare allegramente, funzionano e sono tutti incredibilmente facili da usare. Chissà perchè. Provo allora a recarmi fisicamente (!) in un “qualsiasi ufficio postale” come recitano le istruzioni. Dopo tutto si tratta solo di accertare che esisto. Anche se comincio a dubitarne anch’io.
Dopo la solita fila, l’impiegata quasi si mette a ridere facendo traballare tutta la ciccia. Pretendere di fare un’identificazione spid senza aver prenotato un ticket spid! Oggigiorno se ne sente davvero di tutti i colori! Dove andremo a finire! Gli anziani di oggi non sono più come quelli di una volta. Facci prima il ticket e poi torni! Ma non può farmelo lei il “ticket” visto che sono già qui? Impossibile! Il terminale non me lo permetterebbe mai! Neppure se ne andasse della vita! Se non è capace, si facci aiutare da qualcuno! Ma se tutto il lavoro d’ufficio lo devono fare i clienti, secondo lei, per quanto ancora ci saranno gli impiegati postali? Osservo malignamente, ma siccome in Italia non è facile come in Texas procurarsi un fucile d’assalto, non posso far altro che ritirarmi in buon ordine.
L’impiegato nonostante sia un cittadino anche lui, nonostante che anche lui sarà prima o poi inevitabilmente stritolato da qualche meccanismo appositamente creato, non sta dalla tua parte, è istintivamente contro di te, parteggia per l’istituzione che ti tiranneggia, ti vede come un concorrente, spera che non ce la farai, si sente come il vaccinato: ostile e segretamente invidioso di quelli che il vaccino non l’hanno fatto. Quando poi toccherà a lui, si arrabbierà, pietirà, ma gli altri compagni di sventura gli saranno implacabilmente contro. Lo guarderanno dall’alto con disapprovazione.
Tornato a casa, mi ributto sul computer e con un paio di ulteriori ore di lavoro, forse tre – il tempo quando lavori su internet si restringe come previsto dalla relatività generale – dopo aver cambiato due volte la password (anglo neolingua), riesco finalmente a “fare il ticket” (anglo neolingua), cioè, in italiano, a prenotare un appuntamento ad un ufficio per il giorno dopo. Mi sento come Heraklis dopo aver tagliato le teste all’Idra di Lerna.
Questa volta, dopo la solita fila, perché l’ora scritta sull’appuntamento è come sempre solo un pro forma, alle poste si degnano di ricevermi e quello che devono fare è molto più semplice della discussione del giorno prima: un’occhiata alla carta d’identità, due click (anglo neolingua), sul terminale, versamento del pretium sceleris, per la verità piuttosto modesto – euro 12 – ed è fatta. Mi manderanno un SMS ( anglo neolingua) ed un messaggio di posta elettronica con le “istruzioni”. Questo significa che non è finita qui? L’impiegata non sa niente altro e se sa, non parla.
A quanto pare ho finalmente un’identità digitale veicolata dalla gloriosa istituzione delle Poste cui ha regnato a suo tempo l’ineffabile ministro Vittorino Colombo, forse parente di quel tal Cristoforo. Ma cosa ne faccio? Io volevo solo rinnovare il passaporto! Poi in cosa consiste l’identità digitale? Un username e una password (anglo neolingua)? Non avrebbe potuto essere la stessa cosa nome, cognome e una parola d’ordine per entrare per chiunque ha un codice fiscale? Chissà. In informatica fanno tutti finta di capire, ma pochissimi capiscono veramente.
Sul messaggio di “istruzioni” si legge che l’identità digitale ha tre livelli, il primo, il secondo ed il terzo. Astuto! L’iniziazione procede per gradi. La divisione delle persone in livelli è l’abc della subordinazione. Per ora a me hanno conferito il primo, per ottenere il secondo, che forse è necessario per … prenotare un appuntamento che mi consenta di consegnare dei documenti in questura, devo scaricare l’app posteid dal mio store (anglo neolingua); andare su un servizio che espone il logo spid (aglo neolingua); selezionare posteid dalla lista di I.D. spid (anglo neolingua); aprire l’app posteid ed inquadrare il qr code (anglo neolingua). Se poi ho l’incredibile fortuna di possedere uno smartphone (anglo neolingua), compatibile, posso abilitare il riconoscimento tramite impronta digitale o facciale! Che culo!
Però, lo ricordo, io volevo solo rinnovare il passaporto!
Il tutto mi ricorda spiacevolmente mia nonna che in caso di grave mascalzonata usava dire “ti sei fatto la frusta per il tuo culo”, oppure i prigionieri che si scavano la fosse da soli per risparmiare la fatica alle guardie. Io ho solo un vecchio telefono portatile e un computer. Potrò scaricare l’app sul computer? Devo comprare un nuovo telefono (smart!) e un nuovo abbonamento per internet mobile (anglo neolingua), da uno a mia scelta della dozzina truffatori telefonici autorizzati? Quanti impedimenti nuovi si possono ancora presentare sulla strada del rinnovo del passaporto? Se fossi un killer di mafia che deve recarsi a New York per un contratto, Don Totò parlerebbe al questore e andrebbe tutto a posto.
A questo punto della tragedia di un borghese piccolo piccolo e forse anche un poco fuori dai tempi, prima che il pubblico si annoi troppo, interviene il deus ex machina. Un conoscente trivaccinato e trinariciuto mi suggerisce: io ho già l’identità digitale, forse posso prenderti l’appuntamento alla questura, fammi provare. Be, certo, lui è un cittadino di grado più elevato, potrebbe riuscirci. In questura lo fanno ancora entrare. La raccomandazione di un notabile, fa sempre comodo. Temo che tra un po’ cominceranno a venderle. Ci prova, smanetta un po’, suda (d’altronde fa caldo), mi fa riempire a tempo di record sulla minuscola tastiera l’immenso modulo on line (anglo neolingua), che, per rendere le cose più difficili hanno fatto a tempo come i test di intelligenza, ma alla fine riesce a prendermi l’appuntamento per l’unico giorno disponibile: sono autorizzato a recarmi alla questura della mia città in un giorno d’ottobre, tra due mesi, per consegnare la domanda e cominciare così l’iter per ottenere un nuovo passaporto! Voi non ci crederete, ma alla fine della procedura elettronica c’è pure la customer satisfaction (anglo neolingua), che potrebbe tradursi in italiano con “presa per i fondelli”: sei soddisfatto di necessitare di uno status speciale per poter prendere un appuntamento al fine di poter depositare una domanda di routine alla pubblica amministrazione e di dover attendere solo due mesi per poterlo fare? Grazie della risposta! Il bello è che il cittadino in possesso dello status speciale scriverà di aver gradito semplicemente perché ciò gli consente di considerarsi superiore e privilegiato rispetto a chi lo status speciale non ce l’ha. Psicologia triviale, ma efficace,
Qualche maligno potrebbe chiedersi, ma cosa fanno all’ufficio passaporti della questura da qui ad ottobre? Non hanno un minutino per prendere in consegna una domanda di rinnovo prima di due mesi? Certo è che ogni burocrazia è principalmente autoreferenziale, il 70, 80% del lavoro di un ufficio è creato dagli altri uffici della struttura, il mondo esterno c’entra poco. Ma non sarà che vendono tutt’altro che passaporti? Non sarà che questo passaporto hanno poca voglia di rinnovarmelo e cercano di farmi capire che dovrei starmene a casa? Che quando sarò chiamato a muovermi, saranno loro a dirmelo? Anzi, a costringermi per ricatto senza neppure dirmelo?
Ma io non penso nulla del genere. Io credo che la pubblica amministrazione si rinnovi e si digitalizzi per venire incontro alle esigenze del cittadino e per portarci in Europa all’interno di uno stato moderno, solido ed efficiente. Lo dice anche la televisione. Tutto ciò che vogliono è facilitare le cose nella sicurezza: questa è la parola chiave, sicurezza.
Purtroppo certa gente non lo capisce, è diffidente e in qualche zona ha più fiducia nel capo mafia locale che nello stato. Come può essere? E’ incredibile, ma succede. Se le cose non vanno, è perché le persone non obbediscono ai consigli dell’autorità. Guardate le mascherine, per esempio. Cosa ci vuole a mettersi una mascherina? Se lo avessero fatto tutti, a quest’ora non si parlerebbe più di epidemia. Eppure c’è chi non lo fa, così per dispetto, contro i loro stessi interessi. E infatti la pandemia continua. La gente è strana.
Ma io sono felice di vivere in una democrazia, penso a quei poveretti in Unione Sovietica che per ottenere un passaporto dovevano passare chissà quali guai burocratici e quasi mai ci riuscivano. In uno stato democratico, invece, è tutto molto facile: vai in questura, fai la domanda ed in pochi giorni voilà, il passaporto è bello che pronto e puoi viaggiare dove e quando vuoi!