DISOCCUPAZIONE GIOVANILE, PROTESTA SOCIALE E AUSTERIT FISCALE

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NEOLIBERISTA IN SPAGNA. INTERVISTA CON ANTONI DOMÉNECH

Sinpermiso

Un anno dopo la radicale svolta neoliberista della politica economica del governo di Zapatero, e nel contesto dei dati scioccanti sulla disoccupazione giovanile in Spagna (43%) e delle risposte della società come l’invito a partecipare alle manifestazioni che si terranno in tutte le città spagnole il 15 maggio, il giornalista dell’Agenzia Colpisa, Anderson Carazo, ha intervistato Antoni Domènech per un resoconto sull’economia spagnola e sul fenomeno della disoccupazione giovanile.Come mai il tasso di disoccupazione giovanile in Spagna è il più alto di tutta l’OCSE? Che cosa è andato storto durante gli anni del ‘boom’ per avere un tasso di disoccupazione che è attualmente del 40%?

Le cause di questo enorme elevato tasso di disoccupazione giovanile sono molteplici e sono profondamente radicate nel tipo di economia che ha plasmato, in Spagna, il periodo della “transizione democratica”.

Quando, per contrastare la situazione attuale, si parla di “anni buoni”, si deve ricordare subito che in quegli anni sono stati registrati tassi di crescita del PIL superiori alla media europea, che era fondata in gran parte sulla crescita della bolla immobiliare e dalla crescita non meno sorprendente del debito privato (delle famiglie e delle imprese). Con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti, ma che erano già manifeste
e a cui nessuno ha mai prestato attenzione.

Per citarne alcune, forse le più importanti:

(1) I salari reali non sono aumentati nel corso del XXI secolo: invece la domanda è stata alimentata dall’indebitamento delle famiglie spagnole grazie al credito a basso costo, che veniva offerto dalle banche spagnole, che a loro volta si indebitavano con le banche straniere (in particolar modo con le tedesche).

(2) Non solo i salari reali non sono aumentati, ma anche la quota della ricchezza percepita dai salariati in rapporto alla ricchezza nazionale non fa fatto altro che precipitare negli ultimi decenni, mentre è aumentata quella destinata ai profitti aziendali e, soprattutto, quella dei guadagni delle rendite e degli speculatori (immobiliaristi, finanzieri, assicurazioni, ecc.)

(3) Mentre l“illusione della ricchezza” generata dall’inflazione dei valori (soprattutto quelli immobiliari) ha stimolato artificialmente la domanda e ha impoverito la lotta sindacale (per quale motivo sostenere delle lotte sindacali se si poteva ottenere credito a basso costo per finanziare l’acquisto di attivi – come la casa – che non facevano altro che salire di quotazione, offrendo così nuove opportunità per ottenere altro credito?), ha anche minato la competitività internazionale dell’economia produttiva spagnola in conseguenza dell’aumento del costo della vita per i lavoratori (il costo spopositato raggiunto dalle abitazioni in Spagna è un componente fondamentale del costo della vita e questo costo, per la competitività, è molto piu importante e decisivo del “costo del fattore lavoro” del quale sono tanto interessati gli economisti neoliberali).

E per farla breve e arrivare alla questione più importante della tua domanda:

(4) L’enorme debito privato in questi ultimi decenni ha permesso il “risanamento” dei conti pubblici su cui si sono basate le politiche più o meno sociali (piu meno che più, va detto) sociali. È una questione puramente contabile: a parità di condizioni nella bilancia commerciale, il debito privato va di pari passo con l’avanzo di bilancio, e al contrario, solo il deficit fa diminuire il debito privato: così funzionano gli stabilizzatori automatici dell’economia. Quando scoppiò la bolla immobiliare e fu messo a nudo l’enorme volume del debito privato, gli stabilizzatori automatici hanno portato all’aumento del debito pubblico. Le idee di austerità fiscale imposte alla Spagna e altri paesi alla periferia dell’Unione Europea vanno in senso contrario, e non si parla di una verità della teoria economica, ma di una verità semplice contabilità.

Abbiamo passato un anno di queste politiche procicliche suicide, che sono incapaci di riconoscere la causa principale del problema.

E il risultato è già chiaro: il calo della domanda, gli attacchi speculativi sul debito sovrano spagnolo non si sono interrotti (anche perché il continuo calo dell’attività economica e le minori entrate fiscali aggravano i problemi del debito pubblico), le famiglie e le aziende produttive spagnole devono diminuire la propria esposizione debitoria, aumentano i ritardi di pagamento, le procedure di fallimento e gli sfratti, la precarietà del lavoro e la disoccupazione sempre in crescita, con sempre meno sostegni al reddito. In modo particolare la disoccupazione giovanile: si può vedere come che la tanto decantata “generazione meglio preparata della storia della Spagna” deve guadagnarsi da vivere in Germania, come dovettero fare i loro nonni che hanno sofferto sotto Franco.

Tutti parlano di mobilitazione e di protesta, ma la cittadinanza spagnola rimane immobile. Credi sia possibile una sorta di ribellione
sociale?

L’illusione di ricchezza derivata dal “boom” è in gran parte responsabile di tutto questo. Come già osservato nella precedente domanda, la risposta tradizionale alla stagnazione dei salari reali è stata data dai lavoratori e dalle lotte sindacali. Quello a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, non solo in Spagna, è l’aver imboccato un’altra
strada, quella che si può chiamare “neoliberista”: la strada dell’indebitamento privato ottenendo credito a basso costo creato
dal nulla dalle istituzioni finanziarie private e sostenuto dalle politiche economiche del governo e dall’inflazione dei valori (quello che la stampa specializzata definisce la “bubble economy“): tutto questo ha sostituito gli aumenti dei salari reali come volano per l’aumento della domanda e, allo stesso tempo, ha sbaragliato la lotta sindacale e demolito l’autocooscienza e la solidarietà della popolazione attiva.

È un peccato che i sindacati europei e americani non abbiano capito a pieno questo processo e siano caduti – e continuano a farlo – in una tattica, regressiva e suicida, scegliendo il male minore. Ma il risultato è sotto i nostri occhi: in venti anni il tasso di sindacalizzazione è sceso del 50% nei paesi OCSE, particolarmente nel settore privato.
E ora siamo alla fine di questo processo: anche a costo di affondare l’economia con politiche di austerità fiscali disperatamente procicliche, sembra che le classi dominanti cerchino di approfittare della terribile crisi del tardocapitalismo finanziario – basta vedere il numero di inside job – per dare il colpo finale a quello che rimane delle grandi vittoria dell’antifascismo, che furono Stato Democratico, lo Stato Sociale e lo Stato di Diritto.

La gente comune, come dimostrano tutti i sondaggi, è ben consapevole di tutto questo, sa che la democrazia è stata presa in ostaggio da un’aristocrazia finanziaria internazionale in grado di imporre senza tanti problemi la sua politica ai governi democraticamente eletti, di qualsiasi posizione politica. Per ragioni che non possiamo approfondire qui (ad esempio, i vasi comunicanti che si sono aperti negli ultimi decenni tra il mondo della politica e dell’economia: si pensi a Aznar, a Felipe Gonzalez,
a Pedro Solbes, a Joschka Fischer, ecc.), quella che viene chiamata
la “classe politica” si è conformata all’andazzo e ora ha un discredito
che non si registrava in Europa dagli anni ’20 e ’30 del secolo scorso.

Una reazione sociale, prima o poi, ci sarà: non c’è alcun dubbio. Il dubbio da porsi è di capire in cosa consisterà: se in una ferma risposta della maggioranza popolare e democratica con un taglio anticapitalistico, oppure in uno scoppio di odio e di rabbia degli anti-razionalisti e, quindi, da una manipolazione dell’estrema destra xenofoba e delle minoranze nazionaliste. In quest’ultimo caso, almeno mi auguro che avvengano delle trasformazioni eccezionali nella vita intellettuale, e già si iniziano a vederne i sintomi: torneremmo a a verificare quello che Walter Benjamin scrisse per l’Europa degli anni ’30, e cioè che il fascista non è nient’altro che un liberale disposto ad andare fino alle ultime conseguenze del liberalismo (nel senso europeo del termine).

Molti autori parlano di una crisi di civiltà che causerà un cambiamento epocale, crede che sia possibile?

Non solo possibile, è altamente probabile e in un certo modo ineluttabile. Vediamo la differenza con la Grande Depressione degli anni ’30: si trattò di una delle più grandi crisi mai viste sofferte dal
capitalismo, una crisi economica. Ora abbiamo una crisi economica capitalistica (una delle tre più grandi della sua storia), ma abbiamo anche una crisi energetica (siamo in una transizione verso una vita
economica non basata sui combustibili fossili in via d’esaurimento) e una crisi ambientale senza precedenti, la cui punta più appariscente, ma non l’unica) visibile, ma certamente è il cambiamento climatico in corso.
I prossimi venti o trent’anni saranno cruciali sia per la crisi energetica (saremo costretti a scelte radicali), per la crisi ambientale (in pochi anni, se si continuerà su questa strada, le implicazioni del cambiamento climatico diventeranno irreversibili). Facendo un’analisi di tutto quello che è stato generato dalle forze del tardocapitalismo, l’attuale crisi economica è solo una sciocchezza.

Tutto sommato, le forze dinamiche capitaliste, e la cultura materiale e intellettuale da esse plasmate, sono state un’aberrazione della civiltà. Un’aberrazione che è divenuta socialmente obsoleta, come dimostra il fatto che buona parte dei politici più avveduti nei governi che sono a favore del capitalismo vogliono costringere i capitalisti a fare i capitalisti e a investire nei processi produttivi. Marx, che si accusa molto spesso di “materialismo storico” ha parlato di una possibile fine infausta come conseguenza della sparizione della lotta di classe.
Nessuno può sapere come andrà a finire, ma questa fine infausta potrebbe essere anche peggiore di quello che si era immaginato il vecchio filosofo. La scelta da fare è chiara e perentoria: più capitalismo e barbarie oppure più democrazia, socialismo e civiltà.

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Antoni Domènech è l’editore di Sinpermiso.

Fonte: http://www.sinpermiso.info/textos/index.php?id=4170

15.05.2011

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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