DIETRO L’OSSEZIA LO SCONTRO TRA USA E RUSSIA

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DI CARLO BENEDETTI
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MOSCA. L’Ossezia del Sud vive la guerra. Ha chiesto l’indipendenza e sta ricevendo dure risposte fatte di pallottole, razzi, bombardamenti, distruzioni, lutti. Tutto accompagnato da una tragica pulizia etnica che rafforza, nello stesso tempo, quella tesi secondo la quale la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. Un seguito, quindi, del procedimento amministrativo attuato dagli stati e dai governi. Ed è proprio per questo che il conflitto attuale – che sconvolge la geopolitica del Caucaso – deve essere “letto” in chiave prettamente politica, perchè in gioco c’è non solo e non tanto la piccola e tormentata Ossezia, quanto l’intera società civile del mondo. Perchè il teatro delle attuali operazioni militari (che le tv presentano negli aspetti più sanguinosi) non riguarda solo i governi di Tskhivali (Ossezia del Sud) e di Tbilissi (Georgia), ma chiama direttamente in causa potenze mondiali come la Russia e gli Stati Uniti.

E questo dal momento in cui la realpolitik obbliga a considerare che quanto avviene nel Caucaso è il risultato di un grande gioco che coinvolge direttamente Mosca e Washington. In questo contesto è d’obbligo esaminare la realtà del paese georgiano che è, praticamente, il centro di una vicenda – politica, diplomatica ed economica – che caratterizza uno spazio geografico di ordine strategico.La Georgia, infatti, dopo essere stata una delle repubbliche sovietiche dove il livello di vita era più alto – se confrontato con altre realtà dell’Unione – si è ritrovata, con il crollo dell’Urss, a vivere con i suoi cinque milioni di abitanti il disfacimento totale del tessuto economico. E di conseguenza è diventata sempre più preda di gruppi politico-mafiosi. Nello stesso tempo – proprio come reazione al vecchio sistema sovietico e alla diretta dipendenza di Mosca – si è andata sviluppando nel paese una vera e propria opposizione al rapporto con la Russia e con il Cremlino. Sentimenti nazionalisti hanno preso il sopravvento e Tbilissi, nello stesso tempo, ha preso in considerazione il completo distacco dalla egemonia e dall’amicizia (tradizionale) con Mosca. E qui sono entrati nel gioco gli americani.

I quali, in primo luogo, hanno considerato gli aspetti del valore strategico della Georgia. E precisamente il fatto che il paese ha una costa di oltre 300 chilometri sul mar Nero (un mare dove la marina militare russa ha le sue basi più importanti) ed è separata dalla Russia da una catena montagnosa di oltre 700 chilometri. E non meno importanti – sempre per gli strateghi americani – i confini con la Turchia e l’Armenia. Ma a focalizzare l’attenzione americana sono stati e sono i valori della geoeconomia locale. La Georgia vista, quindi, come punto di transito dei maggiori oleodotti e gasdotti. Tutto questo messo insieme ha portato sempre più gli Usa a considerare Tbilissi come un punto di forza per la penetrazione americana nel territorio dell’ex Unione Sovietica e, quindi, della Russia.

In tal senso non è azzardato affermare che la Georgia è diventata un polo di attrazione per gli americani. E in questo l’opera di penetrazione soft – nei corridoi del potere di Tbilissi – è stata affidata ad un personaggio come il miliardario Soros, uomo della Cia, noto per aver finanziato una gran massa di ONG per provocare, in vari paesi, guerre civili e movimenti sociali approfittando dello sbando delle istituzioni e dei poteri. Ed è quello che è avvenuto anche in Georgia con la decomposizione del vecchio apparato di Stato sovietico e con la corsa della nomenklatura per impadronirsi delle risorse nazionali.

E così anche nel Caucaso è arrivata l’ondata americana con quella cosiddetta “rivoluzione di velluto”, gestita di fatto direttamente dagli Stati Uniti per mezzo di “esperti” e politici. Il primo obiettivo della Casa Bianca, del Pentagono e della Cia è stato quello di raggiungere il “tempio” delle forze armate georgiane con un primo passo: quello attuato nel marzo 1994 quando Tbilissi si unì alla “Parthnership for Peace”. Una azione alla quale seguì, nell’ottobre 2004, l’aggancio alla Nato con tutte le relative conseguenze politiche e militari.
Sul fronte della gestione politica dell’intera operazione di penetrazione in Georgia gli americani hanno poi trovato l’uomo ideale. Messo da parte quello Scevardnadze – che era egregiamente servito per l’opera di distruzione dell’Urss – l’intelligence d’oltreoceano si è rivolta a Saakasvili.

Il personaggio – nato nel 1967 – è di origine georgiana, ma di formazione statunitense. E’ un fedele della Casa Bianca, del Pentagono e della Cia. Giurista quanto a studi è divenuto a poco a poco un agente dell’influenza Usa in Georgia e nel Caucaso. E’ lui che, su comando di Washington, attua la politica di americanizzazione dell’intera regione. La sua carriera è stata programmata e finanziata dallo stesso Soros. Ed anche vari consiglieri della presidenza di Tbilissi hanno studiato negli Stati Uniti grazie a un programma di scambi universitari creato e gestito dalla fondazione privata di Soros. E non c’è solo questo: il governo americano, da parte sua, ha raddoppiato gli aiuti economici bilaterali alla Georgia dopo la “rivoluzione”. Finanziamenti annuali che raggiungono oggi la cifra di 185 milioni di dollari.

Inoltre la Casa Bianca è coinvolta in un programma di formazione delle forze speciali dell’esercito georgiano nel quadro della cosiddetta lotta contro il terrorismo islamico nella regione e con la collaborazione di Israele. Gli Stati Uniti hanno anche stanziato delle somme per pagare le fatture energetiche della Georgia all’indomani della “rivoluzione” del novembre 2003. È quindi evidente il ruolo di Soros che ha in Georgia i propri interessi finanziari e che ha lavorato a stretto contatto della CIA per favorire l’acquisizione del controllo su questa regione da parte degli Stati Uniti, soprattutto nel settore dell’energia.

Ed ecco che mentre si delinea sempre più questo scenario, l’Ossezia del Sud torna ad agitare la bandiera dell’indipendenza. Mosca non reagisce immediatamente perchè – tutto sommato – vede anche di buon occhio il fatto che all’interno della Georgia (non più “nazione amica”) nascano movimenti di opposizione e di destabilizzazione. La Russia, di conseguenza, accentua il valore della sua regione di confine, l’Ossezia del Nord. Ma in questo preciso momento scatta la reazione georgiana. Ed è guerra. Le truppe di Saakasvili, ignorando che ormai l’Ossezia del Sud è autonoma ed ha sue istituzioni repubblicane (pur essendo ancora una realtà “georgiana”), sceglie la strada militare.

Seguono massacri e bombardamenti contro una popolazione che è a stragrande maggioranza russa o che ha un passaporto russo in tasca. Scendono in campo le forze armate “regionali” di Tskhivali. Ma la Georgia è di molto più forte. E sono massacri. La Russia cerca di contenere la situazione richiamando i dettati più elementari della diplomazia. Ma nello stesso tempo è chiamata (anche dalla sua opinione pubblica interna) a difendere gli ossetini.

Putin parla di “genocidio” e da Mosca arriva anche la richiesta di creare un Tribunale Internazionale per portare alla sbarra i “georgiani criminali che hanno ucciso i russi, gli ossetini, i membri della missione di pace”. E sempre Putin aggiunge: “La Georgia ha commesso un crimine contro il suo stesso popolo, ha inferto un colpo mortale alla propria integrità territoriale e causato un danno tremendo allo stato. Date le circostanze è difficile immaginare come adesso l’Ossezia del Sud potrà essere convinta a diventare parte della Georgia, considerato che l’attacco georgiano, che è stato un crimine contro il popolo osseto, ha causato molte vittime tra la popolazione civile e una catastrofe umanitaria”.

Oltre alle dichiarazioni che hanno per ora un carattere diplomatico c’è il fatto che è in atto – nel Caucaso – una operazione globale di destabilizzazione. Con la Georgia che può essere considerata come un pezzo dell’ingranaggio americano messo in campo contro l’Iran: si è quindi in presenza di un meccanismo “occidentale” che punta allo smantellamento della stessa Russia. Ed è questa anche una catena di polveriere che comprende la Cecenia, il Daghestan e l’enclave armena del Nagorno-Karabach in territorio azero. Tutto avviene mentre si stanno moltiplicando le aggressioni della Turchia contro i curdi. E questo rientra anche nel contesto del disegno americano contro l’Iran per non parlare dell’Iraq. Ma è anche noto l’altro aspetto. Appunto quello geoeconomico.

Perchè dietro questi conflitti – che vengono presentati come “etnici” – c’è in effetti il grande gioco per il controllo dei gasdotti e degli oleodotti. È il gas del Turkmenistan e sono le riserve petrolifere dell’Azerbaigian. Gli americani mostrano le loro preoccupazioni per le risorse energetiche del Mar Caspio. E forse pensano anche di spostare le loro basi militari dall’Europa Occidentale a quella Orientale e all’Asia Centrale. Tutto viene presentato ufficialmente nel contesto della lotta contro il terrorismo ma l’obiettivo statunitense consiste nell’installare delle nuove basi in Georgia o in Azerbaigian. La Georgia è, quindi, il vero fulcro strategico del Caucaso, perché è il solo paese ad avere un accesso al mare aperto e che confina per un lungo tratto con il Caucaso russo.

Ma bisogna ora considerare che il vero obiettivo della guerra scatenata da Saakasvili è un altro. Perchè questo georgiano che gli Usa hanno nominato come Quisling del Caucaso sta lavorando per una guerra “made in Usa”, a tutto campo, contro la Russia. E la stampa di Mosca scrive: “I georgiani come i nazisti” e ribadisce che il mondo civile deve chiamare in giudizio i responsabili del genocidio ossetino. Nello stesso tempo i media attaccano gli Usa che “soffiano sul fuoco”. E alla tv un autorevolissimo esponente del mondo culturale russo – lo storico Andrej Sacharov (un omonimo dello scienziato) – parla a lungo del ruolo nefasto ed aggressivo degli Usa. La tensione cresce con i russi che passano all’attacco anche sul piano dell’informazione. Una nuova tappa dell’escalation nel confronto tra Mosca e Washington.

Fonte: http://altrenotizie.org
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13.08.2008

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