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La Redazione

 

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DIECI ANNI FA LA ZANON FU SALVATA DAI SUOI LAVORATORI

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A cura di supervice
Il 7 Ottobre 2011
100 Views
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UN LABORATORIO DI AUTOGESTIONE OPERAIA

DI ADRIANA MAYER
Pagina12.com.ar
Rebelion.org

Stiamo scrivendo parte della storia del movimento operaio“, ha detto uno dei rappresentanti di FaSinPat, Fábrica Sin Patrón (Fabbrica senza padrone), che oggi impiega 450 lavoratori e produce 300 mila metri quadrati di piastrelle al mese. Dicono che ha cambiato la loro vita, che i dieci anni di lavoro senza padrone alla Zanon gli hanno ridato libertà e dignità. Sono finiti i doppi turni, ognuno isolato sulla sua linea, le pressioni da parte del supervisore, la permanente minaccia di licenziamento. Il 30 settembre 2001 sembrava che la minaccia del padrone di spegnere i forni si potesse concretizzare. Quella notte, i delegati rimasero in fabbrica e il 1° ottobre impedirono l’ingresso ai dirigenti. La fabbrica fu occupata dai lavoratori che si appropriarono dei mezzi di produzione, fino ad allora di proprietà di un imprenditore italiano che progettava di svuotarla. Prendendo ogni decisione in assemblea, in stretto contatto con gli abitanti di Neuquén e dando solidarietà in ogni conflitto con una strategia legale e la volontà di opporsi a ogni ordinanza di sgombero, gli operai e le operaie fecero della Zanon molto più di una società recuperata, la convertirono in un laboratorio autogestito e la misero al servizio della loro comunità.

I 70 mila metri quadrati di fabbrica di ceramiche si trovano sulla

Ruta 7 tra Neuquén e Centenario. Dopo la recinzione una spianata

che è quasi come un campo di calcio. Le visite guidate sono costanti,

asili, documentaristi, rappresentanti di associazioni provenienti da

tutto il mondo che circolano tra la polvere dell’argilla, il calore

dei sette forni, l’odore degli smalti e il rumore delle linee di produzione.

La vita quotidiana alla Zanon è anche fermarsi per un’assemblea dove

decidere come posizionarsi rispetto alla detenzione del dirigente delle

ferrovie Ruben “Pollo” Sobrero, come è accaduto la

scorsa settimana.

Il più grande impianto di porcellanato dell’America Latina aveva

circa 240 operai nel 2001, che guadagnavano 800 pesos (circa 140 €). Oggi,

la cooperativa FaSinPat convertita (in fabbrica senza padrone) ha 450

operai che guadagnano 4.500 pesos ciascuno. Producono 300 mila

metri quadrati di piastrelle al mese, ne vendono 270.000 a 20 pesos

al metro e il resto è destinato a opere di solidarietà. Due delle

altre tre fabbriche di ceramica di Neuquén, Stefani e Del Valle, sono

autogestite.

Nelle ultime elezioni locali i rappresentanti storici del movimento,

Raúl Godoy e Alejandro Lopez, sono stati eletti deputati con il Frente de Izquierda (Fronte

di sinistra). “Questi dieci anni significano un’evoluzione della

coscienza di ciascuno di noi che facciamo parte dell’ autogestione operaia;

all’inizio lottavamo per il posto di lavoro, ma abbiamo appreso la solidarietà

di classe, abbiamo incontrato la Madri di Plaza de Mayo“, ha

detto Lopez .”Stiamo scrivendo parte della storia del movimento

operaio, dimostrando il potenziale del lavoro organizzato. La Zanon

non produce solo ceramiche, è un riferimento internazionale, ha ridato

dignità alle nostre vite, ci ha trasformato in persone critiche“,

aggiunge.

Recuperare il sindacato

L’imprenditore italiano Luigi Zanon arrivò a 28 anni nel paese per avviare Italpark. Nel 1979 fondò la Zanon su terreni pubblici e con capitali provinciali e nazionali che non ha mai più restituito. Alla cerimonia di apertura, Don Luigi si congratulò con il governo militare per “mantenere l’Argentina sicura per gli investimenti“. Insieme al figlio Luigi, nato a Padova, continuò a ricevere sovvenzioni in democrazia, soprattutto con i governi di Carlos Menem e Jorge Sobisch. Il suo piano era quello di produrre solo porcellanato, il che significava circa 300 licenziamenti.

Abbiamo organizzato un torneo di calcio che

è durato un anno, era giunto il momento di discutere delle proposte

per fermare gli attacchi provenienti dai padroni. Ma prima abbiamo dovuto

vincere in casa, e poi seguire con la burocrazia sindacale“,

ha detto Juan Orellana, ex lavoratore della Zanon. La società iniziò

a ritardare stipendi e contributi, e così iniziarono i primi scioperi

e i picchetti per bloccare la produzione. “Si decideva

in assemblea, si votavano i provvedimenti, i delegati si eleggevano

per alzata di mano guardandosi in faccia. Fu un allenamento organizzativo

che ci marcò a fuoco , il fatto di riconoscerti come un compagno di

classe, che era un discorso che non intendevamo, ci aiutò

a riconoscere la burocrazia sindacale e del Ministero del Lavoro che

giocava per i datori di lavoro. Godoy era l’unico che era stato membro

della militanza di sinistra, ma trascorse i primi quattro anni osservando

senza richiamare l’attenzione. Senza questa esperienza iniziale non

avremmo trovato un piano per l’ occupazione e il controllo dei lavoratori.

Ci siamo conosciuti e siamo rinati in un altro mondo“, dice

Orellana.

Con la nuova commissione interna si bloccarono i licenziamenti. La prima

alleanza fu fra gli effettivi e i precari. La società richiese il concordato

preventivo di crisi presso il Ministero del Lavoro, uno stratagemma

ideato dall’ex ministro dell’Economia Domingo Cavallo per licenziare

il personale più di quanto consentito e per cambiare gli accordi. In

quel momento entrarono in gioco gli avvocati Mariano Pedrero, Ivana

Dal Bianco e Myriam Bregman Denaday Polo, per i quali partecipare all’esperienza

della Zanon significava “il ritorno alla tradizione di avvocati

che negli anni ’60 e ’70 difesero i prigionieri politici e accompagnarono

i lavoratori nelle occupazioni aziendali“.

Pronti a tutto

In mezzo a questa offensiva

aziendale, nel luglio 2000 Daniel Ferrer morì e la situazione

esplose. “Non avevamo medici né

un’ambulanza, l’azienda non prestava attenzione medica in una fabbrica

molto pericolosa dove c’era un morto all’anno. La situazione cambiò,

dopo nove giorni di sciopero sotto lo slogan

‘Non un morto in più’“, dice Orellana. Convocarono tutte

le organizzazioni di Neuquén , il CTA (Central de Trabajadores

de Argentina), insegnanti e statali. “La società

faceva delle offerte e, in mezzo a questa confusione, Godoy propose

di resistere un giorno in più, il che significava violare la conciliazione

obbligatoria, lo spauracchio con il quale ti dicono che sei fuori legge.

E vincemmo tutto, il concordato preventivo cadde da solo, rendemmo pubblico

che Zanon caricava trenta camion al giorno senza mai mostrare i libri

contabili per dimostrare la presunta crisi, la burocrazia non aveva

rappresentanza e la società rinforzò

le misure di sicurezza“, ricorda.

Per vincere il sindacato evitarono manovre successive e poi, girando

a proprio favore un’assemblea nella quale fu eletto il consiglio elettorale,

dovettero firmare e timbrare ogni scheda elettorale. “Tagliare

il ponte o il percorso e aprire il conflitto al di là

del portone era fare politica, lo stesso che collocare nello statuto

del nuovo sindacato che i dirigenti dovevano tornare al proprio posto

di lavoro, che non possono rinnovare più

di due volte, che si può revocare il mandato con il voto diretto dell’

assemblea“, dice. Il progetto del porcellanato fallì, la Zanon

era pronta per essere svuotata: non pagavano più i servizi e i fornitori.

La società aveva minacciato di spegnere i forni, il che significava

fermare la produzione. E perché ciò non accadesse, il 1° ottobre

fu vietato l’ingresso ai dirigenti. Giunsero gli ordini di sgombero

per l’occupazione degli impianti, i licenziamenti di massa, ai quali

risposero bruciando i telegrammi davanti al Palazzo del Governo. Quel

giorno furono repressi duramente e venti persone furono arrestate. Gli

avvocati denunciarono Zanon per aver causato una chiusura unilaterale

e la giustizia dette ragione agli operai, sequestrando oltre il 40%

delle scorte per pagare gli stipendi. Fu la prima vittoria di una lunga

battaglia legale che ancora non è finita. Dopo aver venduto le ceramiche

i lavoratori si accamparono fuori dalla fabbrica.

“Il mostro” (come lo chiamavano) doveva tornare a produrre. Mentre

un operaio ricollegava il gas, l’Università di Comahue li aiutò con

il piano produttivo. Gli Zanon avevano spaventato i clienti, pressato

i fornitori e pagato in modo che nessuno potesse sfruttare la cava di

argilla, ma i lavoratori l’argilla la presero dalla comunità mapuche.

“Manotas, un ex-supervisore, si unì alla nostra lotta ed entrò

a far parte della dirigenza e, grazie alle Madri di Plaza de Mayo, potemmo

commercializzare il nostro prodotto legalmente, alla luce del sole,

ci dice Orellana. I primi posti di lavoro furono per le organizzazioni

dei disoccupati con le quali avevano chiuso le strade.

L’8 aprile 2003 alla gendarmeria fu ordinato di sgomberare la fabbrica.

All’esterno c’erano gruppi sociali, del lavoro, dell’educazione e di

sostenitori, tra cui undici sacerdoti, ma non erano disposti a essere

sfrattati dall’interno. Perfezionarono le guardie operaie create per

proteggere impianti e macchinari. Si appostarono sui tetti, con dei

sassi di ceramica, fionde e barricate, contenitori con l’acqua per neutralizzare

l’effetto dei gas, secchi con l’acido. Sarebbe stato un massacro,

così come venne affermato successivamente dal rapporto della polizia.

Con il supporto esterno, con l’aiuto fondamentale della CTA provinciale,

i lavoratori della Zanon dimostrarono di avere il consenso della popolazione.

L’ordine fu sospeso e i sassi bianchi circolarono tra la gente come

souvenir.

In dieci anni hanno affrontato cinque ordini di sgombero simili, soffrendo

persecuzioni legali, minacce e pressioni familiari. Ma Godoy Lopez,

Chaplin, Pennello, Chiquito, Paco Ramirez, Esparza e molti altri hanno

avuto l’appoggio di León Gieco, Naomi Klein, Osvaldo Bayer e di una

lunga lista di personalità e organizzazioni. Per continuare la produzione

dovettero pagare un debito della Zanon di un milione e mezzo di pesos.

Si misero d’accordo per formare una cooperativa, le cui scadenze rischiavano

sempre di essere messi all’asta o di essere esposti alla ferocia del

mercato, per cui dovettero insistere sull’espropriazione e la statalizzazione.

Due anni fa, grazie alle mobilitazioni, alle adunate di fronte al Congresso

e alla raccolta di firme, sono riusciti a ottenere legalmente l’esproprio.

FaSinPat nel 2005 decise tramite votazione di costruire una clinica

medica per la comunità nel quartiere povero di Nueva

España. Erano

vent’anni che gli abitanti la chiedevano al governo provinciale, gli

operai FaSinPat l’hanno costruita in tre mesi.

**********************************************

Fonte: Un laboratorio de autogestión obrera

04.10.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di VINCENZO LAPORTA

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