DIALOGO SULLA VERIT E IL POTERE

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DAVID TRESILIAN INTERVISTA NOAM CHOMSKY
Al-Ahram Weekly

Noam Chomsky, il professore conosciuto per il suo lavoro professionale nel campo della linguistica e della filosofia così come per le sue opere su questioni politiche e sociali, è stato a Parigi il fine settimana scorso su invito di Le Monde Diplomatique e del Collège de France. L’agenda dei suoi appuntamenti, divisa tra un seminario organizzato da Jacques Bouveresse, titolare della cattedra di Filosofia del Linguaggio e della Conoscenza presso il Collège de France, e una serie di interviste su questioni politiche che sono culminate in un meeting pubblico organizzato da Le Monde Diplomatique, testimonia la vasta portata della sua opera e l’alta considerazione in cui è tenuto in Francia.

Nato nel 1928 e quindi a ottanta anni compiuti, una tale agenda avrebbe fiaccato un uomo con la metà dei suoi anni. Invece lui sembrava a proprio agio nel rispondere alle domande del pubblico accorso ad entrambi gli eventi durati fino a tarda sera, parlando ininterrottamente durante varie ore sulla politica estera statunitense e la situazione delle regioni del mondo su cui ha approfondito i suoi studi, come l’America latina, il Medioriente e l’Asia sudorientale.
Sia per il seminario al Collège de France, incentrato su questioni come la verità e la razionalità pubblica sulla scia di una tradizione associata al filosofo inglese Bertrand Russell e allo scrittore George Orwell, trasmesso in diretta streaming sulla rete, che per il secondo meeting, ha assistito un numero eccessivo di partecipanti che in alcuni casi avevano viaggiato attraverso l’Europa per assistere all’evento e che hanno accolto con entusiasmo e affetto l’arrivo di Chomsky.

Nel percorrere oltre mezzo secolo di attivismo politico e dozzine di libri e articoli, tra cui i suoi incisivi lavori sulla guerra in Vietnam, I nuovi mandarini (1969) e Per ragioni di stato (1973); la sua opera sul ruolo degli intellettuali nella vita americana e il ruolo giocato dai media, La fabbrica del consenso (scritto con Edward Herman, 1988), e le sue opere monografiche su Israele e Palestina, Fateful triangle: the United States, Israel and the Palestinians (1983 & 1999), sul Medioriente, Perilous power: the Middle East and US Foreign Policy (con Gilbert Achcar, 2007) e sulla politica estera americana, Egemonia o sopravvivenza. I rischi del dominio globale americano (2003), Chomsky ha parlato con la solita competenza su temi contemporanei, mostrando che la sua intelligenza straordinaria e il suo impegno per un cambiamento sociale sono immutati.

Intanto un nuovo libro è stato pubblicato nella stessa settimana della visita a Parigi di Chomsky, il titolo è Hopes and Prospects, e vi sono articoli recenti sull’America latina, gli Stati Uniti, il Medioriente e Israele.

Nonostante la pesante agenda, Noam Chomsky ha trovato il tempo per parlare con Al-ahram Weekly sulla situazione attuale nel Medioriente e sulla politica americana nei confronti di Israele, la Palestina e la regione intera.

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Ci può dire la sua opinione sull’attacco israeliano alla Freedom Flotilla mentre questa si trovava in acque internazionali diretta a Gaza?

Dirottare navi in acque internazionali e uccidere passeggeri ovviamente è un crimine serio. Gli editori del Guardian di Londra hanno ragione quando affermano che se un gruppo armato di pirati somali avesse abbordato sei imbarcazioni in alto mare, uccidendo almeno dieci passeggeri e ferendone molti altri, una taskforce della NATO starebbe facendo rotta verso la costa della Somalia in questo momento.

Sarebbe bene ricordare che il crimine commesso non è affatto una novità. Per decenni Israele ha dirottato navi in acque internazionali tra Cipro e il Libano, uccidendo o sequestrando i passeggeri, talvolta portandoli in prigioni segrete e camere di tortura in Israele, a volte tenendoli in ostaggio per molti anni. Israele dà per scontato che quei crimini rimarranno impuniti perché gli Stati Uniti li tollera e l’Europa in genere fa quel che gli americani dicono.

Lo stesso vale per il pretesto addotto da Israele per il suo crimine più recente: cioè che la Freedom Flotilla portava materiale che poteva essere usato per la costruzione di razzi. Mettendo da parte l’assurdità di questa affermazione, se Israele fosse interessata a fermare i razzi di Hamas essa saprebbe esattamente come procedere: accettare le offerte di Hamas per una tregua. Nel giugno del 2008, Israele e Hamas hanno raggiunto un accordo per una tregua. Il governo israeliano ammette formalmente che Hamas non ha sparato un solo razzo finché Israele non ha violato l’accordo invadendo Gaza e uccidendo una mezza dozzina di attivisti di Hamas.

Allora Hamas ha rinnovato l’offerta di tregua. Il gabinetto israeliano ha vagliato l’offerta e l’ha respinta, preferendo il lancio della distruttiva e omicida operazione Piombo Fuso il 27 dicembre. È chiaro che non vi è alcuna giustificazione per l’uso della forza come “autodifesa” a meno che gli argomenti pacifici siano stati esauriti. In questo caso non erano nemmeno stati tentati, anche se – o forse proprio perché – c’erano ottime ragioni per credere che avrebbero avuto buon esito. L’Operazione Piombo Fuso quindi è una chiara aggressione criminale senza alcun pretesto credibile e lo stesso si può dire per il recente ricorso alla forza da parte di Israele.

Lo stesso assedio di Gaza non si avvale di alcun pretesto minimamente credibile. È stato imposto dagli Stati Uniti e Israele nel gennaio 2006 per punire i palestinesi per aver votato “in modo sbagliato” nelle libere elezioni ed è stato pesantemente intensificato nel luglio 2007 quando Hamas fermò un tentativo congiunto degli Stati Uniti e Israele per abbattere il governo eletto con un golpe militare che pretendeva di insediare l’uomo forte di Fatah, Muhammad Dahlan. L’assedio è selvaggio e crudele, è stato designato per tenere appena in vita degli animali ingabbiati, per potere così evitare le proteste internazionali, ma poco più di questo. È la fase ultima dei piani ad ampio raggio di Israele, appoggiati dagli Stati Uniti, per separare Gaza dalla Cisgiordania.

Questi sono i crudi lineamenti di politiche indecenti.

Recentemente le hanno negato l’accesso a Israele. Come vede la situazione nei Territori Occupati e a Gaza?

Ecco, vorrei fare una piccola precisazione, mi è stato negato l’ingresso ai Territori Occupati e non a Israele. Di fatto, se avessi voluto entrare in Israele loro me lo avrebbero permesso e da lì avrei potuto continuare verso i Territori Occupati. La ragione da loro fornita è che mi stavo dirigendo solo a Bir Zeit e non a una università israeliana.

Israele sta diventando estremamente paranoica, assalita da sentimenti ultra-nazionalisti e agisce solo in base al proprio punto di vista, in modo piuttosto irrazionale. Stanno colpendo i loro stessi interessi. Negarmi l’ingresso è stato solo un piccolo dettaglio di quanto detto. Se mi avessero lasciato entrare per la conferenza a Bir Zeit, sarebbe finita lì. In effetti non dovevo nemmeno parlare di Medioriente ma degli Stati Uniti. E loro lo sapevano, ovviamente.

Quello di Gaza è un caso di tortura selvaggia. Tengono la popolazione appena in vita perché non vogliono essere accusati di genocidio, ma questo è tutto. La popolazione si limita a sopravvivere. Non è la peggior atrocità del mondo ma tra le più feroci. L’Egitto collabora pienamente costruendo un muro e rifiutando l’ingresso di cemento e beni del genere, per questo si tratta di un’operazione congiunta israelo-egiziana che sta letteralmente torturando la popolazione di Gaza in un modo di cui non mi vengono in mente precedenti, e sta peggiorando.

In Cisgiordania bisogna dire anzitutto che non è solo Israele: sono gli Stati Uniti e Israele. Gli Stati Uniti stabiliscono i limiti di ciò che Israele può fare e collaborano con loro. È un’operazione congiunta proprio come lo è stato l’attacco contro Gaza. Ma Israele continua a imporre il proprio dominio e a prendersi quel che vuole. Si prenderanno la terra all’interno del muro di separazione che di fatto è un muro di annessione. Si prenderanno la valle del Giordano e si prenderanno ciò che viene chiamato Gerusalemme, che è molto più vasta di quanto lo fosse mai stata Gerusalemme perché è un’area che si estende verso la Cisgiordania.

E poi hanno questi corridoi verso l’oriente, così c’è un corridoio che va da Gerusalemme attraverso Maal Adumim verso Jericho. Se mai verrà sviluppato completamente, dividerà in due parti la Cisgiordania. Interessante notare che gli Stati Uniti hanno finora bloccato i tentativi di portare a termine lo sviluppo di questo corridoio.

Circa dieci anni fa, gli industriali israeliani suggerivano al governo di spostare la Cisgiordania da una situazione “coloniale” a una “neo-coloniale”, per dirla con le loro parole. Il che vuole dire costruire strutture neo-coloniali in Cisgiordania. E noi sappiamo in cosa consistono. Prendiamo in considerazione una ex-colonia. In genere, c’è un settore estremamente benestante e privilegiato che collabora con l’ex potere coloniale, e poi una massa di miseria e orrore che lo circonda. E questo è ciò che suggeriscono e ciò che si sta facendo. Così se si va a Ramallah – e io volevo vederla con i miei occhi ma non ci sono arrivato – è come andare a Parigi, si fa una bella vita, ci sono bei ristoranti e cose del genere ma ovviamente se vai in campagna è abbastanza diverso, ci sono posti di blocco e la vita è impossibile. Ecco, questo è neo-colonialismo. C’è uno sviluppo totalmente dipendente, mai permetteranno che ce ne sia alcuno indipendente e stanno cercando di imporre una sistemazione del genere.

Salam Fayyad, che speravo di incontrare a Ramallah e con cui ho parlato al telefono, ha descritto i suoi programmi e mi sembrano sensati. Anzitutto, l’invito a boicottare i prodotti degli insediamenti, mi sembra un’idea davvero sensata e penso che andrebbe fatto in tutto il mondo mentre al contempo si cerca di aiutare i palestinesi a trovare altre forme di impiego fuori dagli insediamenti che altrimenti contribuiscono a crescere; prendere parte a una resistenza non-violenta all’espansione e cercare di costruire qualunque cosa sia possibile all’interno dello spazio israeliano, magari anche nella Area C, quella controllata da Israele, e fare piccoli passi verso la base di una futura entità indipendente palestinese.

A quel punto però bisogna fare molta attenzione perché Israele potrebbe accettare questi passi ben volentieri. Infatti il vice primo ministro israeliano Silvan Shalom in un’intervista in cui gli si domandava su come avrebbe reagito se questo fosse accaduto, ha dichiarato che per lui andava bene se i palestinesi volevano aprire i cantieri, gli si può dare uno stato se vogliono, ma sarà uno stato senza confini…e questo designerà la struttura neo-coloniale.

C’è un altro elemento da aggiungere, cioè le forze militari. C’è un esercito comandato da un generale americano, Keith Dayton, che è addestrato congiuntamente dalla Giordania e Israele e che ha destato grande entusiasmo negli Stati Uniti. John Kerry, che è presidente della Commissione delle relazioni esterne del Senato, ha fatto un discorso importante su Israele-Palestina – lui è l’uomo di Obama per il Medioriente – e ha detto che per la prima volta Israele ha un legittimo partner per le negoziazioni. Perché? Perché durante l’attacco contro Gaza, l’esercito di Dayton è stato capace di prevenire le proteste e sia Kerry che la stampa hanno pensato che questo risultato era ottimo, quindi ora Dayton e il suo esercito sono un partner legittimo. Dayton dichiara che sono stati così efficaci da permettere a Israele di spostare le proprie forze dalla Cisgiordania a Gaza per ampliare il fronte d’attacco e questo è sembrato a Kerry e a Obama un grande risultato; ecco, qui si vedono altri segni di neo-colonialismo, con forze paramilitari controllate dal potere coloniale che tengono la popolazione sotto controllo.

Questi sono passi ambivalenti. A meno che gli Stati Uniti non cambino posizione e si uniscano al mondo con un accordo politico, credo che non ci sono vie d’uscita e non mi sembra che la posizione egiziana sia di alcun aiuto.

Il cambiamento arriverà come conseguenza del ruolo giocato dall’opinione pubblica, magari come è avvenuto in Sudafrica?

Il Sudafrica è un caso interessante e vale la pena dare uno sguardo alla sua storia. Intorno al 1960, il Sudafrica iniziò a capire che stava diventando uno stato paria e il ministro degli esteri sudafricano chiamò l’ambasciatore statunitense – abbiamo le registrazione della loro conversazione – e gli disse “sappiamo che stiamo diventando uno stato paria e tutti votano contro di noi all’ONU ma lei sa bene che per noi l’unico voto che conta è il vostro”, volendo dire che se gli Stati Uniti li avessero appoggiati i sudafricani non avrebbero tenuto in considerazione il resto del mondo. E questa conversazione si è mostrata estremamente conforme ai fatti.

Nei decenni successivi le proteste contro il Sudafrica aumentarono e alla fine degli anni ’70 ci furono le sanzioni e le aziende cominciarono ad abbandonare il paese. Il Congresso americano stava approvando risoluzioni per sanzioni che Reagan invece cercava di evitare per così continuare ad appoggiare il Sudafrica, come di fatto fece, fino alla fine degli anni ’80, quando si verificarono le peggiori atrocità, come le guerre in Angola e Mozambico, con l’uccisione di centinaia di migliaia di persone e questo venne fatto dentro l’ambito della guerra al terrorismo.

Washington condannò l’African National Congress (ANC) indicato come uno dei più noti gruppi terroristici al mondo e soltanto l’anno scorso Mandela è stato rimosso dalla lista dei terroristi ricercati. Il Sudafrica sembrava inespugnabile: il mondo era contro di loro ma loro continuavano a vincere tutto e andavano bene. Allora gli Stati Uniti cambiarono politica, era il 1990. Mandela fu liberato e l’Apartheid collassò in un paio di anni, in questo senso il ministro sudafricano era nel giusto.

Io credo che Israele stia seguendo lo stesso percorso. Poco importa se il mondo è contro di noi, basta che gli Stati Uniti siano al nostro fianco. Ma è un percorso insidioso il loro: gli Stati Uniti possono sempre decidere che i loro interessi sono da un’altra parte. Per tornare alla sua domanda sul ruolo dell’opinione pubblica mondiale, essa in Europa e nel Medioriente ha un’influenza notevole. Gli Stati uniti non possono vivere da soli nel mondo. Ci sono personaggi della politica che pensano che noi dovremmo essere in una gabbia e non pensare a quello che succede nel mondo; che dovremmo costruire un muro intorno al paese, uscire dall’ONU e non considerare quel che dicono. C’è una tendenza verso questo atteggiamento nella politica americana ma la leadership e le aziende non possono accettarlo per cui tendono ad ascoltare le voci del mondo.

L’Europa non sta aiutando. Consideriamo l’accettazione di Israele nell’OCSE: è una legittimazione dell’occupazione. L’Europa finanzia la sopravvivenza dei Territori Occupati ma non fa nulla per portare gli Stati Uniti ad accettare l’opinione pubblica internazionale e potrebbe farlo. Proprio ora per esempio, ci sono negoziati indiretti tra i palestinesi e gli israeliani con gli Stati Uniti nel ruolo degli onesti mediatori. L’Europa può denunciare questa farsa: ci dovrebbero essere negoziati piuttosto tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, magari con la mediazione neutrale dell’ONU, mentre gli Stati Uniti rimangono da soli bloccando un immenso consenso internazionale e finché questo non cambierà niente può accadere, ed è su questo che Israele conta.

Nel suo discorso di Giugno al Cairo, il presidente Obama ha detto che avrebbe fatto cambiare l’atteggiamento della politica americana nei confronti del Medioriente e del mondo musulmano. Lei vede qualche segno di queste parole?

Ci sono sottili differenze. Ma prima di tutto ci sono differenze tra le due presidenze Bush. La prima era estremamente arrogante, caustica e aggressiva. Gli Stati Uniti sono andati alle Nazioni Unite dicendo apertamente “o fate quel che diciamo noi o non contate nulla”. E questo ha creato molta avversione, anche tra gli alleati. Alla gente non piace sentirsi insultare in faccia. Questo portò a un forte criticismo e il prestigio degli Stati Uniti decadde a uno dei livelli più bassi nei sondaggi internazionali e si contavano anche parecchie proteste interne, perfino dell’establishment, perché stava intaccando gli interessi statunitensi.

Il secondo mandato Bush è stato più accomodante, è rientrato nella norma e ha goduto dell’appoggio centrista. Obama sta seguendo quella linea, è una continuazione del secondo mandato di Bush. La retorica è più moderata e ha un atteggiamento più amichevole, ma le politiche sono cambiate poco. Prendiamo il discorso del Cairo. Il fatto essenziale è che il suo discorso aveva ben pochi contenuti: ha detto solo qualcosa come “amiamoci a vicenda”. Ma nel percorso verso il Cairo aveva dato una conferenza stampa e un giornalista gli aveva chiesto: “Lei dirà qualcosa sul regime autoritario di Mubarak in Egitto?” E lui aveva risposto con queste parole: “Non mi piace attaccare etichette alla gente. Lui è bravo e sta facendo cose buone, per questo lo considero un amico”. Ora, non è necessario che io le dica qual è la situazione dei diritti umani in Egitto, ma se la gente nel Medioriente fosse stata attenta, si sarebbe accorta che nulla sarebbe cambiato.

Lo stesso si può dire sulla sua politica nei confronti di Israele. Le sue politiche sono anche più dure di quelle dei mandati dei due Bush. Proprio in questo momento, c’è per esempio, una controversia sull’espansione delle colonie. È molto simile a quella che scoppiò 20 anni fa sotto la presidenza Bush primo, con James Baker come segretario di stato. Ogni volta che Baker veniva a Gerusalemme il primo ministro israeliano Yitzhak Shamir ne approfittava per annunciare una nuova colonia ed era come un insulto per Baker – che era persona di buone maniere e non amava essere insultato da Israele – di fatto Bush penalizzò leggermente Israele. Impose piccole sanzioni sotto forma di restrizioni sulle garanzie dei crediti che dovevano coprire le spese delle colonie, ma furono sufficienti per far cambiare velocemente la politica a Israele.

Bene, è precisamente quello che sta accadendo oggi, con una differenza. Obama ha detto che non imporrà alcuna sanzione e che le sue proteste sono puramente simboliche – lo ha detto il suo portavoce in risposta a una domanda. A parte questo, tutte le chiacchiere sugli insediamenti sono solo una nota, il problema sono gli insediamenti, non la loro espansione. La posizione di Obama ha ricalcato quella di George W. Bush e segue le indicazioni della Road Map, cioè che l’espansione deve fermarsi, anche quella dovuta a una crescita naturale. Lui lo ha reiterato ma in modo da far capire che comunque vadano lui non interverrà, e lo stesso vale per altre questioni.

In occasione della nomina di George Mitchell, Obama ha fatto un discorso sul Medioriente. In pratica ha detto che “ci sono buone speranza per la pace e un piano costruttivo sul tavolo” e poi rivolgendosi ai paesi arabi ha detto che dovrebbero dar seguito alle loro promesse e quindi normalizzare le relazioni con Israele.

Lui sa perfettamente che la proposta non era quella. Essa in realtà consisteva nello stabilire l’accordo di due stati e in quel contesto muoversi verso la normalizzazione; così lui ha scientemente ignorato il contenuto della proposta e si è concentrato sul corollario, che è un modo come un altro per dire noi non cambieremo la nostra posizione e non ci uniremo al resto del mondo nel richiedere l’accordo dei due stati e così è da sempre.

Al tempo delle elezioni, la gente aveva speranza nel nuovo presidente americano, soprattutto dopo 8 anni di George Bush. Nel suo nuovo libro lei descrive Obama come un foglio in bianco su cui la gente può scrivere quel che vuole. Che considerazione ha di Obama?

In realtà ne ho scritto prima delle elezioni, perfino prima delle primarie e non cambierei una parola di quel che ho detto. Se diamo un’occhiata al suo programma, ci troviamo davanti il classico centrista democratico con retorica piacevole e un buon venditore. In realtà come forse lei sa, lui ha avuto un premio dall’industria pubblicitaria per la miglior campagna di marketing del 2008, e se lo è meritato. È colto, intelligente, sa costruire una frase con senso, è affabile e si comporta come se gli piacesse la gente. Ma in cosa consisteva il cambiamento di cui parlava? In niente. Un foglio in bianco, ecco cosa era: ognuno può scriverci quel che più gli piace. Non ha mai detto in cosa consisteva il cambiamento o la speranza. “Ci sarà un cambiamento”, tutto qui.

In verità McCain recitava gli stessi slogan, il perché è ovvio. Le elezioni negli Stati Uniti sono essenzialmente gestite dall’industria pubblicitaria, e i dirigenti dei partiti leggono i sondaggi e da questi sanno che l’80% della popolazione pensava che il paese stava percorrendo una strada sbagliata. Di riflesso la campagna è stata all’insegna de “la speranza e il cambiamento”, e questo è Obama. E lui ha fatto tutto molto bene, ha infuso nelle persone energie ed emozioni, ma di fatto se lui è stato eletto è grazie al supporto delle istituzioni finanziarie. Hanno preferito lui a McCain, l’hanno finanziato e questo ha portato alla sua elezione. Contava sull’appoggio popolare ma soprattutto su quello della finanza che si aspettava di essere ripagata – così funziona la politica – ed è stata ripagata.

Ci sono stati notevoli riscatti di banche e le grandi banche ora sono più ricche e potenti di prima, ma quando finalmente lui ha inziato a parlare di “banchieri ingordi” e cose del genere, loro gli hanno subito risposto “sei uscito dalla linea” e hanno spostato i finanziamenti verso i repubblicani. Ora la maggior parte delle sovvenzioni da parte delle istituzioni finanziarie va ai repubblicani che sono ancora più a favore del big business dello stesso Obama. Ma è questa la natura della politica statunitense.

Durante la presidenza Bush abbiamo visto che gli Stati Uniti ricorrono alla tortura in Iraq, alle extraordinary rendition e all’uso della forza in affari internazionali, mettendo al margine l’ONU nonostante le proteste internazionali. Gli Stati Uniti cercheranno di restaurare la propria immagine visti i deludenti risultati ottenuti finora da Obama?

Oltre questo non si è fatto quasi nulla e in realtà, sotto alcuni aspetti, è peggio di Bush. È un punto che discuto in dettaglio nel mio libro. C’è stato un caso alla Corte Suprema nel quale questa ha deciso che i prigionieri di Guantanamo avevano diritto all’habeas corpus, l’amministrazione Bush l’ha accettato ma ha ribattuto che esso non era valido nel caso di Bagram. La cosa è andata a finire in tribunale e un giudice di prima istanza nominato da Bush, un giudice di destra di un tribunale di prima istanza ha invece ritenuto che era valido anche per Bagram. Il dipartimento di Giustizia di Obama sta cercando di ribaltare questa sentenza e di non farla applicare a Bagram. In questo senso, Obama sta andando oltre Bush.

Se fossi un avvocato dell’amministrazione Bush, farei notare che le accuse contro Bush sulla tortura non reggono nel quadro legale statunitense. Quasi tutto quello che Bush ha autorizzato rientra nell’ambito della legge americana. Gli Stati Uniti non hanno firmato la Convenzione Contro la Tortura o l’ha firmata ma con riserve. È stata riscritta molto attentamente per escludere i metodi di tortura sviluppati e inseriti dalla CIA nei loro manuali. La si indica come “tortura che non lascia tracce”, tortura psicologica e tortura mentale. La CIA le ha riprese dai manuali del KGB ed è risultato che il modo più efficace per rendere un individuo come un vegetale è la tortura psicologica, il confinamento solitario, l’umiliazione e cose del genere. Abu Ghraib e Guantanamo sono la messa in pratica di questi manuali. Meglio la “tortura psicologica” che gli elettrodi nei genitali. Così possono obiettare che hanno operato proprio entro i margini della legge americana.

In effetti probabilmente l’unica differenza tra l’amministrazione Bush e quelle precedenti è che nel caso di Bush la tortura veniva operata da americani. Di solito gli Stati Uniti la commissionano ad altri: ai sudvietnamiti, ai guatemaltechi o agli egiziani. Ecco cos’è la extraordinary rendition. La si invia ad altri paesi che porteranno a termine la tortura. Ma in questo caso è stata realizzata proprio a Guantanamo.

In realtà, l’unica rivelazione interessante nelle relazioni sulla tortura e che non è stata riportata ampiamente, è che gli interrogatori hanno testimoniato di aver ricevuto forti pressioni da parte di Cheney e Rumsfeld per ottenere informazioni che legassero Saddam Hussein a Al-Qaeda. E queste informazioni non c’erano perché non erano vere. Ma non riuscendo a ottenere queste informazioni, allora sono stati istruiti di usare misure più pesanti, insomma la maggior parte delle torture scaturiva da un tentativo di Cheney e Rumsfeld di ottenere una sorta di giustificazione che la loro posizione nell’invasione dell’Iraq era dovuta ai legami con Al-Qaeda, e questa era un’affermazione ridicola. Apparentemente la maggioranza delle torture nascono da questo fattore.

Il suo ultimo libro si intitola “Speranze e Prospettive”. Quali sono le speranze?

La prima parte del libro è sul Sud America e lì ci sono degli sviluppi che destano qualche speranza. Per la prima volta in 500 anni, sin dai tempi dei Conquistadores, il Sud America sta iniziando a muoversi verso qualche grado di indipendenza e integrazione e finalmente inizia ad affrontare qualcuno dei suoi gravi problemi interni. La struttura coloniale in Sud America è estrema, esiste una stretta concentrazione di benessere nelle mani di un’èlite europeizzata, qualche volta di razza bianca, circondata da una situazione terribilmente tragica e c’è una situazione di diseguaglianza tra le peggiori al mondo, in una regione ricchissima di risorse e di potenziale. Ora si sta muovendo qualcosa per risolvere questa situazione.

Negli stessi Stati Uniti si stanno verificando dei cambiamenti. Non so se abbastanza velocemente da risolvere i problemi più grandi, ma prendiamo per esempio Israele e la Palestina. Fino a qualche anno fa se io volevo fare un discorso su questo tema dovevo essere protetto dalla polizia all’università, perché i meeting potevano finire con grandi violenze. Ricordo ancora quando la polizia insisteva a voler accompagnare me e mia moglia fino alla nostra macchina dopo un discorso all’università. Questo aspetto non è cambiato del tutto ma si è evoluto con gli anni ed è cambiato radicalmente dopo gli eventi di Gaza. Ora trovo un pubblico entusiasta, molto impegnato e coinvolto, desideroso di darsi da fare.

Il cambiamento non ha riguardato i media, non riguarda la classe politica né gli intellettuali, ma qualcosa sta cambiando nel paese e prima o poi queste cose avranno un effetto. In qualche modo è stato deviato dal fenomeno Obama, perché esso ha portato a forti aspettative e deviato parecchi attivisti. Ma ora è arrivata la delusione e se i cambiamenti continuano a svilupparsi, possono eventualmente portare cambiamenti significativi, così come è accaduto in Sudafrica.

Una parte notevole della sua opera riguarda i media e le deficienze degli intellettuali negli Stati Uniti, dove è difficile star fuori da un ristretto circolo di opinioni. Cosa pensa della sua posizione oggi?

Anzitutto, non direi che gli Stati Uniti differiscono così tanto da altre società in questo senso. Le questioni possono variare, ma non c’è gran differenza in Inghilterra o in Francia. In ogni paese c’è una frangia di dissidenti. Questo si è verificato lungo tutta la storia. Ma perché lo fanno? Perché sentono il compromesso con certi valori e ideali e decidono di non conformarsi. In genere, non vengono trattati molto bene e il trattamento dipende dalla natura della società, ma non è mai molto gentile. In alcune società ti fanno saltare la testa, in un’altra vai in un Gulag, in altre ancora ti diffamano. Il sistema di potere non apprezza le critiche e usa qualunque tecnica per minarle e condannarle.

Un atteggiamento classico da parte delle classi intellettuali, nel corso della storia, è stato quello di sottomettersi al potere, con poche eccezioni. Eppure, c’è chi non si unisce a loro e decide di seguire un percorso indipendente. Gli Stati Uniti non sono molto rigidi in questo senso, sicché chi si trova in una situazione privilegiata, tra cui ci sono io, non subisce una dura repressione. Io ho rischiato una sentenza di lunga prigionia, e mi hanno quasi condannato, ma era dovuta a una aperta e chiara resistenza. Non potevo obiettare nulla perché stavo facendo cose apertamente e coscientemente illegali in resistenza alla guerra, così se fossi andato in galera non avrei potuto chiamarla repressione. La punizione per aver scritto e parlato e cose del genere è la marginalizzazione e la diffamazione, ma io posso accettarlo. Ho un gran seguito presso il pubblico.

Il giornalista Chris Hedges stava facendo una ricerca nel New York Times qualche settimana fa e ha trovato una nota del direttore editoriale del New York Times indirizzata ai redattori e opinionisti in cui diceva loro che non erano autorizzati a fare il mio nome. La National Public Radio ha pubblicato che sono l’unica persona alla quale non permetteranno di apparire nei notiziari e programmi di massimo ascolto. Ma non è una grande punizione, quando torno a casa trovo centinaia di messaggi inviati per e-mail, tra cui un paio di dozzine di inviti a tenere discorsi in tutto il paese e in quasi tutti ci sarà una audience notevole di persone interessate e impegnate, persone ricettive che vogliono fare qualcosa, questo mi basta come stimolo ad andare avanti.

Ho accesso ai media in altri paesi in circostanze determinate, per esempio quando mi mostro critico nei confronti degli Stati Uniti. Ma se critico i paesi nei quali vengo invitato allora si ferma tutto, automaticamente. L’ho notato perfino in Canada. Se vado lì loro vogliono sentire critiche contro gli Stati Uniti ma se inizio a criticare il Canada allora si chiudono le porte. E capita lo stesso dovunque.

Per finire, perché ha criticato la formula “dire la verità al potere”, usata negli ultimi scritti di Edward Said per descrivere il ruolo degli intellettuali?

Questo in realtà è uno slogan quacchero, a me piacciono i Quaccheri e con loro faccio tante cose ma non sono d’accordo con questo slogan. Anzitutto, non è necessario dire la verità al potere perché loro già la conoscono. Poi, non si può dire la verità a nessuno, è troppo arrogante. Quel che si deve fare è riunirsi con le persone e cercare di trovare la verità, le si ascolta e si dice loro ciò che si pensa e così via, si cerca di incoraggiare la gente a pensare con la propria testa.

Quelli a cui bisogna interessarsi sono le vittime non i potenti, quindi lo slogan dovrebbe essere di impegnarsi con i deboli e aiutarsi a vicenda per trovare la verità. Non è uno slogan facile da compendiare in 5 parole, ma penso che sia il più giusto.

Titolo originale: “Dialogando sobre la verdad y el poder”

Fonte: http://weekly.ahram.org.eg
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09.06.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di RENATO MONTINI

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