DEMOCRAZIA S, MA QUALE

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DI LUPUX

Gli studiosi di scienza politica nel corso degli ultimi anni hanno coniato diversi neologismi per indicare la degenerazione dei sistemi democratici: sultanato, democratura, post-democrazia e via dicendo. Personalmente propendo – con le dovute proporzioni storiche – per l’antica definizione aristotelica, in virtù della quale la democrazia, nella sua forma corrotta, si manifesta come demagogia. Vale a dire una forma di gestione del potere fondata sull’esercizio della retorica e delle false promesse in modo da accaparrarsi il favore del popolo facendo leva sui sentimenti irrazionali. Come dire, rivolgendosi direttamente alla “pancia”.
Sia chiaro, ogni sistema democratico – anche il più sofisticato ed equilibrato – contiene in sé un certo tasso di demagogia. Ciò che però contraddistingue la demagogia contemporanea è il fatto di poggiare su un potentissimo fattore ideologico: l’ideologia della merce. Sono le categorie mercantili ad imporre l’agenda politica. A destra come a sinistra.

L’art. 1 della nostra Costituzione non ha oggi un significato reale, alcun senso concreto. La sovranità non appartiene al popolo e il lavoro non è il fondamento della Repubblica.

Il popolo – ammesso e non concesso che questa espressione possa ancora essere di qualche utilità – non decide più nulla. La sua sovranità è solo formale, ideologica. E non è solo un problema di legge elettorale, pure importante. Quando anche si votasse – supponiamo con una sistema proporzionale – l’esito elettorale influirebbe in scarsa misura sulle scelte politiche parlamentari e governative. La questione della democrazia è quindi molto più complessa.

A me pare ci sia anzi tutto un limite categoriale intrinseco. Quando si parla di popolo non si fa in definitiva che evocare una trascendenza, una indeterminatezza e non si comprende bene quindi a cosa ci si riferisca e quale debba essere la concreta realtà osservabile. Nella realtà effettuale sappiamo essere perfettamente coincidente con la nozione di opinione pubblica incardinata in una dimensione sociale atomizzata, nel quadro dell’antropologia dell’individualistica borghese spinta alle sue estreme conseguenze da un modello consumistico-spettacolare.

La preoccupazione principale delle èlites dominanti che amano definirsi “democratiche” è infatti quella di formare e manipolare l’opinione pubblica. E’ il passaggio dalla rappresentanza democratica di massa di estrazione novecentesca alla produzione dei propri rappresentati da parte dei rappresentanti. Ostinarsi a parlare di rappresentanza politica democratica nelle attuali condizioni è un mero esercizio retorico ( al quale si dedicano a tempo pieno i paraculisti di professione). E’ sempre più evidente che l’istituto della rappresentanza politica consiste nella sua riduzione ad un postulato ideologico sradicato dai bisogni materiali delle persone e dalle questioni sociali. E’ piuttosto il prodotto di un processo di formazione del consenso caratterizzato dalla debolezza dei soggetti sociali collettivi (partiti, sindacati, classe, in una parola il “lavoro”), i quali storicamente hanno costituito la sua “sostanza” sociale. E’ un simulacro di rappresentanza, la sua immagine illusoria. Pertanto lo stesso concetto di democrazia subisce una riduzione formalistica, una sorta di “giustificazione” della politica ( e della guerra: la democrazia da “esportare”). Attraverso la manipolazione mediatica, condotta per mezzo di sofisticate tecniche di sondaggio e meccanismi di sorveglianza e controllo, il potere non fa che prefigurare la propria base sociale. La società viene così resa asettica per mezzo di operazioni mediatiche e comunicative volte a dominare le dinamiche di trasformazione e a semplificare la complessità del reale. In questo modo, attraverso l’immagine di un soggetto debole come attore sociale generico, si persegue l’allontanamento e la dispersione piuttosto che il coinvolgimento e la mediazione del conflitto. Al contrario, quando il conflitto emerge ed esplode si risponde con un crescente militarismo e il ricorso ad una politica di allarmismo sociale, paura e razzismo, con i quali lo Stato mostra i suoi elementi fascisti e la tendenza alla istituzione di uno Stato di polizia. Lo Stato è sempre più un “comitato d’affari”. Il potere è menzognero perché è la menzogna al potere ( il falso indiscutibile di debordiana memoria). Berlusconi è stato in Italia uno straordinario interprete di questa forma di esercizio del potere. Egli ne ha rappresentato la manifestazione più volgare e deprimente, ma non esclusiva. Ma la sua fine potrebbe mai significare anche la fine di questa modalità di esercizio del potere? Certamente no.

In questi due decenni abbiamo assistito al compimento definitivo di un processo di insediamento di una forma di potere che non ha precedenti nella storia dell’umanità e in grado di ridurre l’intera vita politica e sociale ad una fantasmagoria spettacolare ad uso e consumo di masse atomizzate. In Italia come altrove. Se in Italia questa (relativamente) nuova forma di potere ha potuto assumere un carattere peculiare ( un vero e proprio laboratorio), ciò è dovuto in ultima istanza alle particolari condizioni storiche in cui è venuto a trovarsi il paese (Pasolini vi ha dedicato riflessioni di straordinaria lucidità e drammatica attualità) . E’ la fine di ogni ipotesi democratica nel quadro della filosofia illuministica sulla quale si era fondata l’illusione progressista della modernità.

Questo cortocircuito democratico non è piovuto dal cielo. Esso è il frutto avvelenato dell’insieme delle progressive trasformazioni economiche e sociali degli ultimi trent’anni che hanno svuotato dall’interno la Costituzione rimuovendo ogni ipotesi di riqualificazione dello stato contemporaneo come stato sociale, pianificato, cioè come “stato del lavoro”. Non a caso lo stesso diritto costituzionale e la teoria generale del diritto si sono trovati di fronte ad una alterazione del sistema delle fonti attraverso la produzione di una costituzione materiale che stride con quella formale: la struttura dello Stato e la connessa concezione della norma giuridica e dell’autorità hanno subito un mutamento radicale. Questi rivolgimenti (politici e istituzionali) non solo non hanno alterato la struttura di classe dello stato borghese, ma, al contrario, l’hanno perfezionata adeguandola alle nuove esigenze dello sviluppo del capitale. Oggi semplicemente si certifica, alla luce del sole, senza troppi orpelli ideologici, la stato di cose presente. Il Marchionne-pensiero è lo specchio fedele di questa condizione.

La cosiddetta “crisi della politica” affonda le proprie radici in processi di questa natura. Lo stesso astensionismo rappresenta l’epifenomeno di un processo più ampio di sussunzione “reale” del lavoro da parte del capitale, della sfera politica da parte della sfera economica e del mercato. La consapevolezza della irrilevanza del proprio voto in merito alle scelte collettive. L’ equilibrio tra politica e mercato – frutto del compromesso tra gli antagonismi di classe che in passato aveva permesso di sviluppare i principi di una politica economica “programmata e contrattata” dentro la cornice di regole negoziate poste dalla Costituzione – si è da tempo definitivamente consumato. La irreversibilità della crisi dello stato nazione si accompagna alla completa affermazione di una forma di accumulazione capitalistica transnazionale che poggia su nuove forma di produzione che investono la vita in quanto tale, nella sua totalità. La produzione e l’estorsione di plusvalore abbraccia l’intero specchio della vita sociale così da annullare la vecchia distinzione fordista tra tempo di lavoro e tempo libero.

Storicamente, le lotte condotte dal movimento operaio tradizionale per il riconoscimento giuridico e politico si muovevano sostanzialmente nell’orizzonte della filosofia illuministica poiché non avevano altro obiettivo se non quello di entrare e crescere in quelle forme (borghesi), la cui condizione limite sociale fu formata per mezzo della nazione esattamente come nell’aspetto economico. Al di là degli elementi propagandistici, per esempio, il concetto di democrazia progressiva e il “gramscismo di togliatti” ne costituiscono un esempio quasi di “scuola”. Alla fin dei conti il PCI era un partito socialdemocratico la cui pratica politica si muoveva all’interno di categorie e forme economiche, politiche e giuridiche borghesi. Ma oggi è cambiato tutto. La globalizzazione ha fatto saltare il quadro nazionale, ha reso obsoleta non soltanto quella specifica forma economica ma anche quelle politiche e giuridiche. Mettere mano a nuove pratiche per “il cambiamento” significa partire da questo dato fondamentale. Quel che voglio dire è che se le contraddizioni che si producono nella dimensione locale hanno la loro genesi in dinamiche transnazionali, allora è su questo terreno che deve collocarsi la critica almeno quanto la pratica debba inverarsi nella prima.

Il novecento è stato il secolo del compromesso tra capitale e lavora che aveva trovato nell’equilibrio tra economia e politica, mercato e stato, l’asse lungo il quale perimetrare l’espansione dei diritti politici e sociali.

Nel caso della specificità italiana – o anomalia, a seconda dei punti di vista – si fanno oggi ancora più nitide le contraddizioni all’origine del processo di formazione dello Stato unitario. Il complesso dei nodi storici irrisolti, dall’accumularsi di rivoluzioni passive alla debolezza del sentimento nazionale. La concreta possibilità di uscire dalla crisi è legata alla capacità di collocare il terreno della lotta in una geografia sociale euro-mediterranea. L’esercizio di una funzione di cerniera tra Europa e mediterraneo che la penisola ha storicamente svolto si pone oggi come necessità storica per uscire dal baratro nel quale stiamo precipitando. Per porre al centro della vita sociale, economica e politica la questione della democrazia, intesa come insorgenza costituente delle moltitudini nel quadro delle contraddizioni aperte dall’accumulazione capitalistica postmoderna e alla base della crisi attuale. Contro le politiche monetariste del Direttorio Europeo, BCE e UE.

Possiamo legittimamente supporre che la crisi che contraddistingue oggi il capitalismo è altro rispetto alle sue crisi cicliche. La disoccupazione strutturale di massa, la precarizzazione, marginalizzazione e svalorizzazione del lavoro, la crisi energetica e ambientale, la questione demografica e i flussi migratori ne sono una brutale conferma. Benché disoccupazione e “crisi” sono da sempre una realtà del capitalismo, tuttavia negli ultimi anni sembrano avere acquisito un elemento di novità: quella di avere assunto le sembianze di una crisi delle società fondate sul lavoro. Ma dovremmo allora porci una domanda: se il capitalismo è una società del lavoro ( accumulato) in senso stretto allora la crisi del lavoro equivale alla crisi del capitale stesso?

Questa mutazione qualitativa nel significato della crisi – “impossibile” per la coscienza sociale della modernità – rimanda al suo nuovo carattere qualitativo. Forse rappresenta, appunto, molto più dell’esaurimento di un “normale” ciclo capitalistico. Nell’espressione “fine della società del lavoro” – così diffusa da parte di una certa critica – si manifesta in fondo anche l’identità interna di “lavoro” e “capitale”, mentre l’interpretazione prevalente di questi concetti ha sempre posto l’accento solo sul loro contrasto immanente che si è concretizzato nell’eterna lotta degli “interessi organizzati”. La radicalità la si è sempre interpretata esclusivamente nel senso dell’ inasprimento di questo conflitto – classe contro classe – al cospetto del presupposto ontologico del “lavoro senza fine” (come se cessasse di essere ciò che è: un fatto storico). Che “lavoro” e “capitale”, in ultima analisi, siano solo due stati di aggregazione di un’identica forma feticistica sociale ovvero gli elementi della trasformazione “incessante” di energia umana in denaro secondo uno “scopo autoreferenziale” all’interno di un processo “svincolato” da ogni bisogno e relazione, rimane, certo, un fatto completamente refrattario ad ogni analisi e di certo largamente al di fuori delle possibilità di immaginazione. Secondo questa prospettiva il conflitto immanente sarebbe dunque soltanto una funzione all’interno di un sistema di riferimento comune i cui funzionari, per usare la terminologia marxiana, assumono il ruolo di “maschere di carattere” al servizio di questo “scopo autoreferenziale” ed irrazionale che sovrasta ogni cosa. Da questo punto di vista la lotta di classe non è altro che il motore dello sviluppo capitalistico e difficilmente potrà produrne il superamento.

Il problema non consiste forse nella necessità di mettere in discussione, sul piano delle categorie di analisi, oltre alla contrapposizione funzionale, immanente alla società, anche il sistema di riferimento feticistico nel suo complesso e con esso il “lavoro” stesso? Da questo punto di vista difettano attualmente sia un’adeguata coscienza critica, sia una chiara proposizione di obiettivi. Certamente non è facile doversi ritrarre da uno spazio categoriale consueto, quasi automaticamente interiorizzato, che solo in seguito alla sua obsolescenza si mostra ai nostri occhi come una realtà distinta. Il fatto che gli stati di aggregazione complementari di “lavoro” e “denaro” in quanto dati positivi a-problematici della modernità, siano considerati come inossidabili tabù, poiché essi in un certo senso costituiscono e “garantiscono” la realtà, diviene più che mai palese nel momento della loro crisi categoriale.

Le crisi precedenti, che avevano un carattere transitorio all’interno di un processo intrinseco di sviluppo – posto come “infinito” – venivano proclamate in modo affrettato come “crisi del capitalismo” (la cui conseguenza avrebbe dovuto essere l’emancipazione del lavoro “eterno” nei confronti del suo antagonista: non fu forse questo che tentò di fare il socialismo reale? ). Così questa crisi fondamentale e qualitativamente nuova del moderno sistema produttore di merci appare di converso, altrettanto affrettatamente, soltanto come una crisi unilaterale del “lavoro”, cioè dei lavoratori salariati e delle loro organizzazioni, funzionari, ideologie (la crisi della rappresentanza sociale e politica del lavoro). Il “capitale” al contrario sarebbe in grado di reiterare la propria accumulazione indisturbato, fino all’eternità? Così pensano i suoi apologeti.

Naturalmente la sovrastruttura finanziaria speculativa del “capitalismo da casinò”, staccata da ogni base reale, crea l’apparenza di un capitale che continua ad accumularsi anche in assenza di una sufficiente sostanza di lavoro. E si è visto come è andata finire. Ma già di per sé questa crisi del lavoro che si presume unilaterale rimanda ai limiti del sistema nel suo complesso. Dal momento che finora il modo di produzione capitalistico ha avuto davanti a sé margini di sviluppo, anche la battaglia immanente dei lavoratori salariati a difesa dei loro interessi poteva essere condotta spregiudicatamente: era necessario fare valere il proprio interesse all’interno del sistema nell’eterna contrapposizione con l’avversario nella cornice dell’ideologia “sviluppista” al cospetto del lavoro “senza fine”. Oggi al contrario la lotta per gli interessi è uscita di scena ed ha lasciato il posto alla “responsabilità comune” per la conservazione di un sistema che appare “impazzito”. E’ la chiamata a raccolta per la difesa dell’interesse “comune”.

L’attuale stato di cose dimostra però che il sistema di riferimento comune è giunto all’assurdo. Ovviamente occorre pur sempre lottare qui ed oggi all’interno del sistema per i propri interessi vitali. Questo è chiaro! Ma proprio perché il sistema sembra approdare ai suoi limiti storici questo interesse, sempre più impellente in un futuro non lontano, si trova in una situazione di paralisi. Abbiamo di fronte una dialettica paradossale: possiamo fare valere i nostri interessi all’interno del sistema solo se, simultaneamente, il sistema nel suo complesso viene messo in questione e sorge di conseguenza un movimento sociale di trasformazione per la costituzione del “Comune”. Anche il salario minimo, in fondo, può ancora essere difeso solo nella cornice più ampia di un grande movimento radicale anticapitalistico.

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