Dalla crisi di Berlino del ’61 al mondo di oggi in guerra

Declan Hayes
strategic-culture.su

La crisi di Berlino del 1961 tra la NATO e i Paesi del Patto di Varsavia è uno di quei momenti cruciali che ci permettono di capire cosa l’aveva preceduto e cosa è successo fino ad oggi.

La Battaglia di Berlino, ricordiamo, si era conclusa il 2 maggio 1945, con la resa incondizionata delle truppe del Reich tedesco tra l’8 maggio 1945 (VE Day) e l’11 maggio 1945, quando oltre 600.000 soldati della Wehrmacht avevano deposto le armi in Cecoslovacchia. La situazione, quindi, era che niente, a meno di una guerra nucleare, avrebbe potuto fermare l’avanzata dell’Armata Rossa fino alla Manica, e Hiroshima e Nagasaki erano state rase al suolo perché servissero da ammonimento per i Sovietici, se fossero avanzati oltre l’Elba.

Stalin, mentre fumava la pipa nella lontana Mosca, non era all’oscuro della doppiezza degli americani. L’Italia era stata occupata esclusivamente dalle potenze occidentali, la Grecia in bancarotta, che aveva scioccamente rinunciato alle riparazioni di guerra della Germania, era sconvolta da una guerra civile orribile e totalmente evitabile, la Spagna fascista doveva essere portata sotto l’ombrello americano e l’esercito francese, che era stato completamente sconfitto nel 1940, era stato resuscitato dal nulla e gli era stato permesso di occupare una parte della Germania come potenza vittoriosa al soldo dell’America.

L’Europa era in rovina e gli americani avevano lanciato il loro Piano Marshall, in primo luogo per mantenere in vita l’economia americana, che la guerra aveva salvato dalla Depressione, e, in secondo luogo, per permettere all’Europa di godere delle briciole della ritrovata prosperità americana e rendere il comunismo un anatema.

Sebbene il mondo potesse essere in pace, l’America non lo era e i suoi leader sono tuttora fissati sull’obiettivo di respingere i Sovietici da Berlino fino a ben oltre Mosca, e i russi sono tuttora fissati sulla necessità di non essere aggirati sui fianchi, come lo erano stati durante la crisi di Berlino del ’61, nata dal fatto che Berlino Ovest era un centro di spionaggio della NATO nel cuore della Germania Est.

Sebbene la crisi di Berlino sia stata l’ultimo grande incidente politico e militare europeo della Guerra Fredda riguardante lo status di Berlino e della Germania del secondo dopoguerra, non è stata affatto l’ultima parola sulla questione e due famosi discorsi, uno del presidente JFK e l’altro del presidente Ronald Reagan, meritano di essere letti per capire dove siamo e dove stiamo andando.

Civis Romanus Sum: Ich bin ein Berliner

Civis Romanus sum. Io sono un Romano. Questa era stata la prima memorabile frase che Jack Kennedy aveva pronunciato nel suo famoso discorso di Berlino, e Ich bin ein Berliner, Io sono un berlinese, era stata la seconda. Ma, anche se San Paolo aveva usato la famosa replica di Cicerone in più di un’occasione per evitare la crocifissione, va sottolineato che i Romani erano dei veri e propri selvaggi. Non solo avevano crocifisso Gesù, ma le alle legioni X Fretensis e VI Ferrata, che all’epoca operavano nella Grande Siria, piaceva così tanto impiccare i malviventi che spesso consumavano intere foreste, indipendentemente da quanto legno per le croci vi si potesse trovare.

E poi ci sono le guerre galliche di Cesare, nonché l’egoistica versione di Cesare di quegli atti di genocidio. Cesare, che non aveva alcun diritto di invadere la Gallia, aveva massacrato i Galli in un genocidio da manuale, che sarebbe familiare a qualsiasi studente degli Stati Uniti d’America, la cui intera struttura utilizza il marcio Impero Romano come modello. Se andate a Washington DC e non riuscite a vedere gli edifici modellati a immagine e somiglianza di Roma e vi sfugge l’aria fritta dei discorsi dei suoi politici, che pensano di essere dei Ciceroni ritornati dall’aldilà, allora dovete farvi controllare sia gli occhi che le orecchie.

E poi c’è la frase di Jack Kennedy Ich bin ein Berliner, Io sono un berlinese, pronunciata nel 1963, appena 18 anni dopo la fine della Battaglia di Berlino. Se JFK si fosse riferito a uno qualsiasi dei combattenti che si erano affrontati in quelle strade durante la battaglia, o a uno qualsiasi dei civili che erano sopravvissuti, allora le sue sciocchezze avrebbero potuto avere un senso. Ma no! Stava dicendo che i residenti di Berlino Ovest nel 1963 erano l’epitome del marchio americano di democrazia, libertà, Coca Cola, Disneyland e dello stile di vita americano della San Fernando Valley.

La verità è che Berlino Ovest nel ’63 era una città distrutta, sostenuta solo dagli pfennig che le truppe di occupazione britanniche, francesi e americane gettavano agli abitanti del luogo, molti dei quali si erano trasferiti lì perché il governo federale tedesco ne aveva fatto un’opzione attraente per gli studenti e gli hippy. Il cuore della Repubblica Federale si era spostato altrove, in città come Francoforte, Monaco e Colonia, e JFK e il suo pubblico selezionato, che ascoltava i suoi vuoti discorsi, lo sapevano bene.

In quel suo panegirico sulla democrazia, la libertà e il progresso, JFK in realtà intendeva dire che l’occupazione militare americana della Germania, tuttora in corso, sarebbe continuata. Quando, il 12 giugno 1987, l’ex attore hollywoodiano e presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan aveva pronunciato davanti a un pubblico tedesco il suo famoso discorso, altrettanto incomprensibile, chiedendo a Gorbaciov di abbattere un muro o guai a lui, intendeva anch’egli dire che l’occupazione militare americana, tuttora in corso, sarebbe continuata.

Non solo l’occupazione continua, ma gli americani occupano sempre di più ciò che resta della mente della maggior parte dei tedeschi. Durante la Guerra Fredda, che aveva raggiunto il suo apice all’epoca della Crisi di Berlino, i tedeschi, in particolare in Baviera, erano stati decisamente contrari a trasformare la loro patria in un parcheggio per l’arsenale nucleare americano, in base all’indiscutibile motivazione che lo stazionamento di tali armi di distruzione di massa in quel luogo avrebbe richiesto una risposta nucleare sovietica molto forte.

Sebbene fosse stata la paura di una ritorsione nucleare a portare all’ascesa dei Verdi tedeschi, l’ironia della sorte vuole che in Germania quelle quinte colonne della CIA siano ora i principali sostenitori dell’Armageddon. Vista la loro ascesa al potere, c’è da chiedersi se ci sia qualche speranza per la Germania o, addirittura, per il mondo prima del Giorno del Giudizio.

La Germania ha permesso ai suoi padroni americani, insieme ai Quisling norvegesi, di far saltare i loro gasdotti, accentuando così l’auto-deindustrializzazione della loro patria. La Germania del dopoguerra, che un tempo si faceva paladina della pace, ora vuole che i suoi padroni americani piazzino sul proprio territorio missili Tomahawk e SM-6 a raggio intermedio e sistemi ipersonici ancora più tecnologici.

Perfetto, ma, dato che tutti questi missili mettono Mosca nel mirino di Berlino, Putin e i suoi amici non possono accettare nulla di tutto ciò. Stalin aveva occupato i Paesi Baltici per impedire a Berlino di aggirare la Russia, ma ora sembra che Berlino sia pronta non solo ad aggirare la Russia, ma anche ad entrare dalla porta principale con il dispiegamento dei missili americani in Germania.

La crisi di Berlino non è finita. Forse si sarebbe potuta evitare se Stalin avesse invaso la Finlandia e se Zhukov avesse marciato fino alla Manica. Chi può saperlo? Quello che sappiamo è che l’Alto Comando delle Forze Armate russe ha il dovere di proteggere, nella buona e nella cattiva sorte, il popolo della Federazione Russa, indipendentemente dal fatto che, come nella crisi di Berlino del ’61, ciò significhi una de-escalation o, come potrebbe avvenire nei prossimi mesi, una massiccia rappresaglia che cancellerà Berlino, i Verdi e tutta la Germania dalla mappa globale una volta per tutte.

Declan Hayes

Fonte: strategic-culture.su
Link: https://strategic-culture.su/news/2024/08/08/from-berlin-crisis-61-today-world-at-war/
08.08.2024
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

Declan Hayes, pensatore e attivista cattolico, ex docente di Finanza presso l’Università di Southampton.

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