DI LARRY EVEREST
Revolution
Per oltre cento anni, la dominazione sull’Iran è stata profondamente intrecciata all’interno del tessuto dell’imperialismo globale, rafforzata da macchinazioni segrete, tirannia economica, attacchi e invasioni militari.
Questa storia fornisce lo sfondo necessario a spiegare l’odierna ostilità degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran, compresa la reale minaccia di guerra.
– Nella prima parte di questa serie di articoli si è indagato sulla rivalità tra gli imperialisti europei, al fine di controllare l’Iran e il suo petrolio, fino alla Prima Guerra Mondiale.
– Nella seconda parte si è smascherato il rovesciamento del governo laico e nazionalista di Mohammed Mossadegh, al fine di ripristinare un protetto tirannico, lo Shah.
– La terza e quarta parte si sono incentrate sull’impatto di 25 anni di dominio a stelle e strisce, per il tramite dello Shah, e il modo in cui aprì la strada alla rivoluzione del ‘79.
– Nella quinta parte si è investigato sulla rivoluzione del ’79 e la risposta americana, comprendendo come entrambe le cose alimentarono l’ascesa del fondamentalismo islamico.
– La sesta parte ha esposto la logica e le necessità imperialistiche al di là della mossa iniziale di Reagan di offrire all’Iran lo scambio di armi con ostaggi (arms-for-hostages nell’originale ndt).
Con questa settima parte delineiamo l’escalation dell’ostilità americana verso l’Iran – dal crollo dell’Unione Sovietica fino al 2001 (l’insediamento di George W. Bush).Il crollo sovietico — Un terremoto geopolitico
Il crollo dell’Unione Sovietica nel ‘91 è stato un terremoto geopolitico, che ha aperto sia nuove opportunità sia nuove minacce all’imperialismo americano. In un solo, rapido colpo, il principale antagonista alla potenza globale USA è stato (almeno temporaneamente) eliminato. I teorici americani dell’Imperium percepirono la storica opportunità di estendere con la forza il dominio globale e affrontarono, in modo deciso, un gran numero di ostacoli al fine di creare un impero incontestato e incontestabile.
Questa nuova miscela di opportunità e necessità diede una forma diversa all’approccio di Washington verso l’Iran. Durante la Guerra del Golfo Persico del ‘91 non solo cacciarono Saddam Hussein dal Kuwait ma distrussero gran parte dell’infrastruttura militare e industriale dell’Iraq – proprio mentre l’Iran rimaneva neutrale [e non toccato dagli eventi bellici ndt]. In seguito, i leader della Repubblica Islamica presero qualche incerto provvedimento per normalizzare le relazioni con gli USA; relazioni che erano andate in frantumi quando, nel ‘79, l’ambasciata america fu sequestrata. L’ayatollah Khomeini era scomparso due anni prima e una nuova, più pragmatica leadership si era insediata, sotto il Presidente Rafsanjani. L’Iran, inoltre, non vedeva l’ora di attrarre nuovi investimenti stranieri e commerciare per sostenere la propria economia.
Gli Stati Uniti non erano interessati. La Repubblica Islamica era ancora un ostacolo alle mire statunitensi su numerosi fronti. Il crollo sovietico non aveva risolto il cuore dei problemi che gli USA si trovavano ad affrontare nel Medio Oriente (in effetti ne esasperarono più di uno) e aprì il vaso di Pandora dell’Asia Centrale. Gli Stati Uniti si trovarono ad allargarsi sempre più, a spese dell’Iran, in entrambe le regioni. E in quel momento, senza l’impiccio dell’URSS, gli strateghi americani non sentirono più il bisogno di mantenere l’equilibrio tra Iran e Iraq. Potevano piuttosto muoversi in maniera più diretta contro entrambi i paesi.
“Il Doppio contenimento”– Salvaguardare lo status quo dominato dagli USA
L’amministrazione Clinton adottò una politica di Doppio Contenimento, con sanzioni punitive dal punto di vista economico nei confronti di Iran e Iraq, mirata all’indebolimento e all’isolamento di entrambi. Clinton & co temevano che i bisogni e le ambizioni regionali dell’Iran, uniti alla crescita dei movimenti fondamentalisti islamici avrebbero potuto danneggiare l’ordine mediorientale, dominato dagli Stati Uniti.
La rivoluzione iraniana del ‘79 e i suoi messaggi islamisti e antiamericani trovavano ancora eco nelle popolazioni che vivevano sotto i fragili dispotismi pro-USA in Arabia Saudita, Giordania ed Egitto. La fine dell’Unione Sovietica aveva indebolito (qualche volta in modo fatale) diversi partiti e movimenti filosovietici. Ciò aveva ulteriormente rafforzato gli orientamenti del fondamentalismo islamico, che stavano per diventare il principale polo di opposizione agli USA e ai suoi protetti. La rivoluzione iraniana e, in seguito, la disfatta sovietica in Afghanistan incoraggiarono gli Islamisti che erano quindi in grado di sostenere che se erano riusciti a detronizzare lo Shah e quindi sconfiggere una superpotenza, perché non avrebbero potuto far lo stesso con gli USA?
In quanto il più importante stato islamico della regione, l’Iran rappresentava una sfida ideologica alla globalizzazione imperialista (capitanata dagli USA) e alla “modernizzazione”. La Repubblica Islamica rappresentava un polo di opposizione a certi obiettivi politici statunitensi nella regione, come pure una sorgente di ispirazione (e, a volte, un supporto diretto) per diverse tendenze del mondo Islamico.
L’amministrazione Clinton guardava al “processo di pace” israelo-palestinese, da essa stessa sponsorizzato, che era mirato alla fine della rivolta palestinese e al rafforzamento israeliano, come cruciale rispetto alla demolizione dei sentimenti antiamericani e al potenziamento del controllo statunitense sulla regione. Ma in questo l’Iran rappresentava un ostacolo – sia a causa del supporto politico ai Palestinesi sia a causa del supporto materiale agli Hezbollah in Libano e alle forze palestinesi.
Gli Stati Uniti erano inoltre preoccupati dal potenziale iraniano, ovvero il destino manifesto di diventare una grande potenza regionale in forza della sua estensione, ubicazione strategica, estese risorse petrolifere e sforzi mirati a raggiungere le potenze globali. Il fatto che la Prima Guerra del Golfo, nel ‘91, avesse finito per indebolire proprio il bastione regionale iracheno (inteso come contrappeso strategico verso l’Iran) si aggiungeva a tali preoccupazioni.
L’Iran, nel frattempo, non vedeva l’ora di attrarre gli investimenti esteri per espandere la produzione petrolifera e sviluppare l’infrastruttura industriale e militare. Nei primi anni ’90, l’Iran aveva offerto al gigante petrolifero statunitense Conoco un miliardo di dollari al fine di sviluppare il comparto estrattivo di petrolio e gas. Ciò fece scalpore in America e portò all’imposizione di sanzioni nel ‘95, ostacolando gli investimenti delle compagnie statunitensi nelle industrie estrattive iraniane (in seguito potenziate per punire le aziende straniere che si comportarono in quel modo).
Un nuovo Grande Gioco nell’Asia Centrale
In più il crollo sovietico ha avuto smisurate ripercussioni per gli Stati Uniti (e l’Iran) in Asia Centrale. Improvvisamente, stati che facevano una volta parte dell’Unione Sovietica e in possesso di estese risorse energetiche – Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, Kyrgyzstan, and Kazakhistan (oggi l’area del mondo in cui si concentrano i maggiori progetti di sviluppo petrolifero) – diventarono indipendenti e disponibili [alle influenze di potenze altre da quelle sovietiche ndt]. Una competizione feroce si mise rapidamente in moto tra USA, Russia e Cina, come pure le potenze europee per l’accesso, l’influenza e il controllo dell’area. L’ex dirigente dell’amministrazione Carter, Zbigniew Brzezinski, ammonì come “per l’America, il premio più importante fosse l’Eurasia… La supremazia americana è direttamente dipendente da quanto a lungo e quanto efficacemente il predominio statunitense sul continente eurasiano sarà mantenuto.”
L’Iran ha cercato di allargare i collegamenti storici, geografici, culturali e linguistici con queste nuove repubbliche. Ha altresì cercato l’inclusione nei nuovi accordi energetici che si focalizzavano sulla costruzione di pipeline di petrolio e gas dall’Asia Centrale ai punti vendita destinati al mercato globale. L’Iran si stende tra il mar Caspio, che abbonda di fonti energetiche, a Nord al Golfo Persico a Sud, e possiede già una propria rete di pipeline. Perché, quindi, non trasportare petrolio e gas altrui attraverso il paese stesso?
Come è stato sottolineato in Revolution, “Se le pipeline vanno a Sud attraverso l’Iran per sfociare nelle sue raffinerie e porti, il contenimento statunitense viene infranto… Gli USA hanno posto il veto a qualsiasi rotta energetica iraniana e si sono ostinati a volere un percorso energetico che passasse attraverso l’Afghanistan, diretto verso il Pakistan” (si faccia riferimento al numero del 4 Novembre 2001 di Revolutionary Worker ,– adesso chiamato Revolution, “Afghanistan: The Oil Behind the War,).
Negli anni ’80 e ’90, gli Stati Uniti e i loro alleati sauditi organizzarono finanziarono in segreto gruppi fondamentalisti sunniti anti-iraniani (compresi i Talebani) in modo da isolare l’Iran e neutralizzare i gruppi islamisti della Shia, ispirati dall’Iran stesso, soprattutto in Pakistan e Afghanistan. Queste macchinazioni segrete alimentarono ulteriormente il fondamentalismo religioso di stampo reazionario e il settarismo trasversalmente alla regione.
Lo scontro sulla Grand Strategy degli anni ‘90
La strategia americana nei rapporti dell’Iran fu forgiata da un marcato dibattito all’interno della classe borghese: tale dibattito si svolse durante gli anni ’90, nel corso della strategia globale post-sovietica. La strategia neocon fu articolata chiaramente nel ‘92 dai più importante funzionari dell’amministrazione di Bush senior (che ritornarono al potere sotto l’amministrazione di Bush junior). Essa evocò l’uso della potenza militare a stelle e strisce per demolire, in modo preventivo, rivali anche solo potenziali e instaurare un’egemonia globale unilaterale.
Durante gli otto anni in cui fu in carica, Clinton si batté per il “diritto” di agire unilateralmente e conformare l’ambiente globale [ai desiderata statunitensi ndt] all’occorrenza per mezzo della forza, mentre dava enfasi all’agire in modo concertato con le altre potenze imperialiste, un atteggiamento complessivo che l’amministrazione definiva come “multilateralismo assertivo”.
Clinton non esitò a usare la forza militare, come nell’intervento NATO nella ex-Jugoslavia, la conservazione militare della no-fly-zone sull’Iraq e la distruzione di obiettivi in Sudan. Egli, inoltre, fece pressioni per l’espansione della NATO nel blocco ex-sovietico. Tuttavia, ciò rientrava ancora nel quadro di un più tradizione “approccio multilaterale” (in cui però gli USA avevano sempre l’ultima parola, oltre al diritto di veto). Per di più, esisteva un’attenzione considerevole, da parte dell’amministrazione Clinton, sul rafforzamento del potere economico americano sulla scena globale e sulla pressione, esercitata in modo aggressivo, verso la globalizzazione imperialista e cose come i“free trade agreements” [accordi di libero commercio ndt]. Il tutto nell’interesse dei capitalisti americani.
Clinton non ha mai adottato una strategia di cambio di regime nei confronti della Repubblica Islamica; piuttosto nel mettere in evidenza il bastone, agitava la carota di migliori relazioni [diplomatiche e/o economiche ndt]. Il dominio imperiale statunitense era, per usare le parole di Clinton nel suo Rapporto al Congresso sulla strategia di sicurezza nazionale dell’11 Gennaio del 2000, “mirato al cambiamento dei metodi del governo iraniano in diverse aree chiave,” mentre “segnali di cambiamento nelle politiche iraniane” sarebbero state visti “con interesse…”
I neocon intuirono come l’amministrazione Clinton stesse sperperando la vittoria ottenuta alla fine della Guerra Fredda, consentendo agli eventi di andare alla deriva e alle minacce di consolidarsi. Essi consideravano l’approccio di Clinton troppo multilaterale (quindi opposto a quello unilaterale) e i suoi tentativi di dar vita a una nuova ondata di globalizzazione (sempre nell’interesse dell’imperialismo americano) troppo focalizzata sui soli aspetti economici. Ciò che i neocon intuivano era la prospettiva di dare una forma radicalmente diversa alle relazioni globali mediante una linea dura e unilaterale, un sensibile aumento nell’applicazione della forza militare e un aggressivo programma di “cambi di regime”.
Il loro punto di vista era che anche se Saddam Hussein non rappresentava una minaccia considerevole nei confronti degli Stati Uniti, il Medio Oriente necessitava di essere radicalmente rimodellato: in caso contrario avrebbe provveduto a generare forze anti-americane, in particolare fondamentalisti islamici, che avrebbe dato fastidio al dominio statunitense nell’intera regione — un obiettivo condiviso da tutta la classe dirigente, persino quando esistevano (ora come allora) diversità di opinioni sul come realizzare ciò.
Questo scontro s’intrecciava con un acceso dibattito sul significato del risorgente fondamentalismo islamico, scatenato da serie sfide degli islamisti nei confronti dei regimi al potere in Egitto, Algeria e Afghanistan. Secondo l’autore Robert Dreyfuss, esistevano sostanzialmente due fazioni all’interno dell’establishment americano: coloro che “sostenevano che gli Stati Uniti non avessero nulla da temere dal diritto islamico” contro “la scuola dello scontro di civiltà [clash of civilization nell’originale ndt] [difesa da studiosi di destra come Samuel Huntington and Bernard Lewis], che sostenevano come il mondo Musulmano fosse inalterabilmente e fondamentalmente ostile a quello Occidentale.”
La conquista della presidenza da parte di George W. Bush nel 2000, seguita dagli attacchi dell’11 Settembre, portò al rafforzamento della Grand Strategy dei neocon e al varo della Guerra al terrorismo, funzionale al conseguimento della Grand Strategy stessa.
Alla macchina da guerra statunitense sarebbe stato dato il via libera per sconfiggere il fondamentalismo islamico e prendere possesso degli stati che avessero intralciato il conseguimento degli obiettivi a stelle e strisce. Le relazioni globali sarebbero state radicalmente trasformate e lo status americano, ovvero di sola superpotenza rimasta, bloccato per le decadi a venire. L’Iran sarebbe divenuto rapidamente un obiettivo primario nella guerra per un impero più grande, come si indagherà nella prossima (e finale) puntata della serie.
Riferimenti
Ali M. Ansari, Confronting Iran: The Failure of American Foreign Policy and the Next Great Conflict in the Middle East, Capitolo 4 – Gli Stati Uniti e la Repubblica Islamica, pagg. 132-146
Bob Avakian, “The New Situation and the Great Challenges,” Revolution #36, 26 Febbraio 2006
Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, pag. 30
Robert Dreyfuss, Devil’s Game: How the United States Helped Unleash Fundamentalist Islam, pag. 316
Larry Everest, Oil, Power & Empire: Iraq and the U.S. Global Agenda, Capitolo 8 – La protesta crescente per i cambi di regime
Vali Nasr, The Shia Revival: How Conflicts within Islam Will Shape the Future, Capitolo 5: “La battaglia dei fondamentalisti islamici,” pagg. 160-168
Titolo originale: “The Soviet Collapse, the Growth of Islamic Fundamentalism, and The Intensification of U.S. Hostility Toward Iran”
Fonte: http://rwor.org
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12.09.2007
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di PG