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COSA SI NASCONDE DIETRO L’INFATUAZIONE PER LE DELOCALIZZAZIONI?

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A cura di Das schloss
Il 18 Aprile 2012
70 Views

DI GÉRARD DUMÉNIL E DOMINIQUE LÉVY
Le Monde diplomatique

L’industria automobilistica americana che si rialza; l’industria tedesca che si esporta; la relocalizzazione delle unità produttive che fa capolino… Ma dietro le dichiarazioni si nascondono realtà meno sfavillanti.

 

Il prolungamento della crisi aperta nel 2008 ha posto un tema in primo piano nei dibattiti: la deindustrializzazione dei paesi del “centro” del sistema-mondo (Stati Uniti ed Europa). Il presidente americano Barack Obama, che inizia un anno elettorale, ha scelto questa questione come una delle linee direttrici della sua campagna [elettorale, ndt] (insieme alla lotta contro l’industria finanziaria, responsabile del primo episodio della crisi, e al problema delle diseguaglianze [1] ). Una parola ha fatto la sua comparsa: insourcing (2) [approvvigionamento interno o internalizzazione, ndt], termine simmetrico di outsourcing [approvvigionamento esterno o esternalizzazione, ndt], vale a dire il sub-appalto.

 

L’idea generale è quella di riportare la produzione industriale sul territorio nazionale, quello, insomma, che in Francia si definisce “relocalizzazione”. Difficile mettere in dubbio l’urgente necessità di un ritorno dell’industria, dopo un massiccio spostamento della produzione verso le periferie.Ci si può vedere un mezzo per diminuire il livello della disoccupazione e rallentare il declino- relativo- delle economie del centro, ma anche un mezzo per evitare i disequilibri del commercio estero. E questi [i disequilibri, ndt] rivestono una particolare importanza nell’attuale contesto della crisi dei debiti sovrani, poiché le istituzioni finanziarie internazionali (i cosiddetti “mercati”) sanzionano prima di tutto il cumulo di due deficit: quello di bilancio e quello del commercio estero.

 

Si ricorderà innanzitutto, che la deindustrializzazione è un processo più generale e antico della delocalizzazione. Per le economie del centro, l’ingresso nel neoliberismo, avvenuto nel corso degli anni ’80, non ha significato una rottura radicale. Negli Stati Uniti, l’industria manifatturiera, che rappresentava il 26% del Prodotto Interno Lordo (PIL) negli anni ’60, ha visto precipitare il suo valore al 19 % negli anni ’80 e all’11% nel 2007, alla vigilia della crisi. La Francia presenta delle cifre molto prossime a queste, la Germania più elevate, ma la diminuzione ha avuto uguale dimensione (3). È noto che tendenze del genere riflettono un cambiamento a lungo termine della struttura del consumo rispetto al profitto.

 

E tuttavia la delocalizzazione della produzione verso altri paesi caratterizza la mondializzazione neoliberista.

 

Un elemento decisivo, nel corso di questi decenni, è stata la strategia industriale scelta dalle grandi società divenute transnazionali. La situazione americana ne mostra una prima modalità, la più evidente: l’investimento diretto all’estero, sarebbe a dire l’acquisto o la creazione di filiali in altri paesi. Nel corso degli anni ’70, alla vigilia dell’ingresso nel neoliberismo, negli Stati Uniti gli investimenti diretti nel resto del mondo di società non finanziarie americane rappresentavano il 23% dei loro investimenti fisici netti, in costruzioni e materiali. Nel corso del decennio che ha preceduto la crisi (1998-2007), questa percentuale è salita all’ 81% denotando una specifica volontà di produrre altrove piuttosto che sul territorio nazionale. E se il presidente Obama si stesse contrapponendo alle società transnazionali intimando loro di mettere fine a questa strategia?

 

E’ vero che attualmente, nelle periferie, i costi salariali per unità prodotta aumentano rapidamente e tendono a raggiungere quelli degli Stati Uniti. Questa convergenza è riconosciuta dal presidente americano, che la addebita all’aumento dei costi salariali orari in Cina.

 

Questo è un fatto. Questi ultimi [i costi salariali, ndt] aumentano al ritmo sbalorditivo del 13% annuo (a prezzi costanti secondo i dati ufficiali per le città). La rivalutazione della moneta cinese è ugualmente oggetto in causa. Tra il 2005 e il 2012, il tasso di cambio tra il dollaro americano e lo Yuan si è incrementato di più del 30%. Se si tiene conto dell’innalzamento dei prezzi in Cina, più rapido che negli Stati Uniti, la rivalutazione è prossima al 40%. Questa tendenza va ad aggiungersi all’abbassamento dei costi salariali negli Stati Uniti.

 

Tutto questo ha già portato alcune imprese a riallocare le loro attività in alcuni stati americani (in Carolina del sud, in Alabama e ancora in Tennessee[4]). La crisi non ha fatto altro che accelerare questa tendenza che sottolinea il successo della strategia neoliberalista della messa in concorrenza dei lavoratori dei paesi del centro con quelli delle periferie.

 

La relocalizzazione, alla quale il presidente pretende di contribuire, sarebbe già giustificata in termini di redditività. Le imprese transnazionali non avrebbero dunque alcuno sforzo da compiere (eccetto quello di prendere coscienza di questa realtà). Tanto più che il governo farà il suo dovere per favorire questa tendenza, nello specifico attraverso l’abbassamento delle imposte in favore di società che stanno investendo sul territorio nazionale.

 

Nel suo discorso sullo stato dell’Unione, nello scorso gennaio, il presidente Obama presentava il suo piano per un’America “costruita per durare”, affermando che “l’industria automobilistica americana sta ritornando”. In effetti, se si assegna il valore nominale di 100 alla produzione di automobili nel paese nell’anno 2007, alla vigilia della crisi, si osserva che questo è caduto a 48 nel giugno 2009: un crollo dal quale rischiava di non riprendersi. Nel dicembre 2011, all’indomani di un massiccio rifinanziamento operato dal governo, la produzione ha ritrovato un livello di 84. Potrebbe essersi salvata, ma si resta ancora lontani dal risultato. Alcuni settori industriali vanno ancora peggio; altri, come l’elettronica, ne escono meglio.

 

Per l’insieme del settore manifatturiero, la stessa scala mostra una caduta a 80 nel giugno 2009 e un ritorno a 93 nel dicembre 2011. Un miglioramento, certo, ma non un miracolo. I canti di vittoria che salutano le rimessa in marcia dell’industria automobilistica negli Stati Uniti, molto opportuni in periodo elettorale, potrebbero rivelarsi prematuri, se non addirittura ottimistici.

 

Viste dall’Europa, queste tendenze rimandano alla comparazione delle performance delle economie tedesca e francese. La Germania avrebbe dato, ci si dice, la dimostrazione del carattere di sostenibilità della mondializzazione neoliberista malgrado la concorrenza delle periferie.

 

La Francia sarebbe rimasta indietro. Ma questo significherebbe giudicare le performance industriali tedesche senza valutarne il costo. E’ davvero questa la strada che bisogna imboccare?

 

L’anno 2003 ha segnato una rottura. Prima di questa data, e dagli anni ’60, le traiettorie industriali di Germania e Francia erano strettamente parallele; dal 2003 si è scavato un solco nella crescita tra i due paesi. Tra il 2003 e l’inizio della crisi, nel 2007, la produzione industriale francese è aumentata soltanto del 4%, contro il 20% di quella tedesca. Ma ci si deve affrettare a sottolineare che non ci si riferisce qui che alla crescita del settore industriale.

 

A dispetto di quanto preteso dalla montatura mediatica, l’economia tedesca non cresce più rapidamente di quella francese: nel corso dello stesso periodo, il PIL dei due paesi è aumentato praticamente allo stesso ritmo (guardare il grafico in basso a destra). Peraltro, il precedente del Giappone, dove la strategia ricorda quella della Germania, suggerisce che un forte incremento della produzione industriale (18% nello stesso periodo 2003-2007), non sempre impedisce una lunga traiettoria economica di stagnazione.

 

Si ritrova qui la questione dei salari. Meccanismo essenziale è stata la pressione esercitata, nella stessa Germania, sui costi salariali (salari e contributi sociali), particolarmente forte e concentrata sui salari bassi. La porzione dei lavoratori considerata come “a basso salario” in questo paese non ha smesso di aumentare dalla fine degli anni ’90, manifestando una crescente segmentazione del regime salariale (5).

 

Si deve, d’altronde, certamente ricollegare a queste evoluzioni l’innalzamento sbalorditivo del numero dei lavoratori “indipendenti” in Germania, altra forma di segmentazione e precarizzazione del lavoro. I contributi sociali sono stati severamente ridotti alla vigilia della crisi.

 

Anche la Francia è stata interessata da una frenata dell’aumento delle spese salariali, ma in proporzioni minori: il costo salariale medio reale (6) è aumentato del 3,5%, mentre diminuiva dell’1,5% oltre Reno (in Germania, ndt) tra il 2003 e il 2007.

 

Questa pressione si è combinata in Germania a pratiche diffuse di subappalto a imprese straniere, nello specifico nell’Europa centrale. Al contrario, in Francia, dall’inizio degli anni ’90, le grandi società hanno adottato delle opzioni simili a quelle utilizzate negli Stati Uniti: l’investimento diretto all’estero. Si dirà che il risultato è lo stesso, ma il funzionamento dell’industria tedesca suggerisce che non è così: questa strategia sembra preservare la localizzazione del cuore dell’attività sul territorio nazionale.

 

Questa [strategia, ndt] è stata, comunque, associata alla crescita dell’eccedenza del commercio estero. Dal 2003, quando la separazione delle traiettorie si è affermata tra le due economie, l’eccedenza tedesca è fortemente aumentata (fino al 7% del PIL nel 2007), mentre il deficit francese si affossava in parallelo (2% lo stesso anno). La tendenza è di tanto più sorprendente poiché il surplus del commercio estero francese era, in media, superiore (in punti percentuali di PIL) a quello osservato in Germania negli anni ’90 (rispettivamente 1,2% e 0,5%).

 

Quale che sia la diversità delle esperienze nazionali, i processi di deindustrializzazione e reindustrializzazione devono essere compresi come ingranaggi della meccanica neoliberista. La deindustrializzazione, vale a dire la delocalizzazione della produzione, è stato un puro prodotto di quest’ordine sociale, l’espressione di una forma di netta separazione tra gli interessi delle classi superiori dei paesi che beneficiano dei profitti realizzati dalle imprese transnazionali da una parte, e l’economia territoriale dei paesi dall’altra. Per queste il luogo dove vengono realizzati i redditi conta poco rispetto alla dimensione dei profitti. Apparentemente da questo punto di vista le cose sono state gestite meglio in Germania, ma, come negli Stati Uniti, il prezzo da pagare per i salariati è stato considerevole- salvo che per le élite che gestiscono le imprese, la cui alleanza con i proprietari delle società costituisce uno dei pilastri del neoliberismo.

 

Fino a che il quadro generale del neoliberismo, in tutte le sue componenti (7) “egemonia delle classi capitaliste e delle istituzioni finanziarie, concentrazione dei quadri gestionali e amministrativi, finanziarizzazione e mondializzazione”, non sarà messo in discussione attraverso quello che si potrebbe chiamare, pensando agli Stati Uniti del dopoguerra, una “repressione della finanza”, tutti i tentativi messi in atto per combattere il processo di deindustrializzazione, quale che sia la loro efficacia, risultano regressivi e tali rimarranno. Essi minano alla base ciò che resta delle conquiste popolari delle decadi precedenti, senza evidentemente contribuire al rilancio della crescita e al ripristino dell’occupazione.

 

NOTE

 
(1) « Remarks by the President on the economy », Maison Blanche, Washington, DC, 4 janvier 2012 (Considerazioni del Presidente sull’economia, Casa Bianca, Washington,DC, 4 gennaio 2012)

 
(2) « Remarks by the President on insourcing American jobs », Maison Blanche, 11 janvier 2012. On parle parfois de reshoring. (Considerazioni del Presidente sull’ internalizzazione del lavoro in America, Casa Bianca, 11 gennaio 2012. Si parla talvolta di reshoring.

 
(3) Dal 36%, soltanto nella Germania Ovest, al 23%

 
(4) « Made in America, again : Why manufacturing will return to the US », The Boston Consulting Group, août 2011 (“Made in America, nuovamente: Perchè il settore manifatturiero tornerà negli StatiUniti”. Gruppo di consulenza di Boston, agosto 2011

 
(5) Thorsten Kalina et Claudia Weinkopf, « The increase of low-wage work in Germany. An erosion of internal labour markets ? », International Working Party on Labor MarketSegmentation, Aix-en-Provence, 5-7 juillet 2007. Lire également Anne Dufresne, « Leconsensus de Berlin », Le Monde diplomatique, février 2012. (“L’aumento del lavoro a basso salario in Germania. Un’erosione del mercato interno del lavoro?”Partito Internazionale del Lavoro in Segmentazione del Mercato del Lavoro, Aix-en-Provence,5-7 luglio 2007. Leggere inoltre “il Consenso di Berlino” di Anne Dufresne, Le Monde diplomatique, febbraio 2012)

 

Gérard Duménil e Dominique Lévy: economisti, autori nello specifico de “The Crisis of Neoliberalism, Harvard University Press” (“La Crisi del Neoliberismo”), Cambridge (Massachusetts), 2011 .

 

Titolo originale: “Que cache l’engouement pour les relocalisations ?

Fonte: http://www.monde-diplomatique.fr
Link
Marzo 2012

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di FRANCESCO DITARANTO

 

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