CONTRO KEYNES E I KEYNESIANI

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DI MARAT
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(Perché non mi iscrivo al Partito
Laburista?) “In primo luogo, è un partito di classe, e di una classe che non è la mia. Se devo difendere interessi particolari, difenderò i miei. Quando arriverà la lotta di classe vera e propria, il mio patriottismo
locale e il mio patriottismo personale si schiereranno con i miei simili. Posso essere mosso da quello che reputo che sia giusto e di buon senso,
ma la lotta di classe mi troverà dalla parte della borghesia colta
.”
(John Maynard Keynes, dalla sua conferenza “Sono un liberale?”,
raccolta in “Essays in Persuasion“, 1925).

(Dopo un suo viaggio in URSS nel 1925, “Come posso adottare un credo che pone il rozzo proletariato
al di sopra della borghesia e dell’intellighenzia, che, malgrado i propri difetti, rappresentano l’essenza della vita e senz’altro il seme di ogni progresso umano?
“. (John Maynard Keynes, “Un breve sguardo alla Russia”, 1925)

Keynes non era laburista e tanto meno
comunista. Lo sanno tutti quelli che la crisi del capitalismo ha costretto a frequentare un corso intensivo e accelerato di economia. Eccetto, a quanto pare, le “sinistre sistemiche” (1) che lo citano un giorno sì e l’altro pure, recitando con fervore il nome degli apostoli keynesiani, postkeynesiani, neokeynesiani – Krugman, Stiglitz, Bernanke, Minsky…-, ispirati da un credo tanto dotto, da programmi e alternative per la salvezza del sistema economico.

La salvezza e la sopravvivenza del
sistema capitalista; questa fu la sola motivazione di Keynes per l’elaborazione delle sue teorie economiche. Questa e non un’altra è l’intenzione dei suoi noti discepoli attuali.

La politica anticiclica keynesiana,
sperimentata per la prima volta come terapia contro la Grande Depressione del ‘29, eseguita nel New Deal di Roosevelt, applicata come dottrina fondante del Nuovo Ordine Economico Internazionale sorto a Bretton Woods dopo la Seconda Guerra Mondiale e in vigore fino all’assalto agli Stati iniziato dalla Thatcher e da Reagan, si basa su quattro assunti basilari:

a) La centralità del consumo o della domanda e il suo mantenimento o incremento che, insieme agli investimenti produttivi, sarà la base che potenzierà la crescita e la piena occupazione.

b) Una politica monetaria che organizzi il flusso di investimenti e che viene introdotta in situazioni di crisi e in periodi di bassi tassi di interesse che consentano un più facile accesso al credito e, di conseguenza, agli investimenti.

c) In assenza di sufficienti investimenti privati è lo Stato che deve adottare il ruolo di investitore.
Questo progetto non ha niente di sovietico. Per Keynes il protagonismo
dell’investimento deve sempre corrispondere al settore privato e lo Stato deve intervenire solo quando è necessario per mancanza di entusiasmo
di investimento da parte dei capitalisti in una situazione di crisi economica. Quando l’attività privata verrà ripristinata, lo Stato deve ritirarsi. In questo caso le differenze tra il settore dei liberisti attuali e il keynesianismo sono difficili da scovare. Non è un caso che Keynes fosse membro del Partito Liberale britannico, qualcosa che molti, tra coloro che lo esaltano e lo conoscono a malapena, sicuramente ignorano.

d) Altra cosa davvero importante nello schema teorico anticiclico proposto da Keynes: la necessità di regolamentazione del sistema finanziario per evitare che questo diventi
disfunzionale rispetto al sistema economico.

Ma risulta che il ricettario keynesiano non stia funzionando nell’attuale crisi capitalista: perché dico questo? Torniamo ai punti prima citati per comprovare quello che ho appena affermato:

1) in primo luogo questa crisi capitalista non è di sottoconsumo, ma fondamentalmente di sovrapproduzione, anche se ci sono componenti di investimento legati alla speculazione finanziaria.

Dal 1970 fino alla fine degli anni
‘90 la produzione mondiale di beni e servizi (PIL mondiale) è sempre aumentata, anche se con una tendenza irregolare di salite e discese,
con una marcata flessione nel 2009, anno in cui la crisi sistemica si
è espressa in tutto il suo impatto.

Basta vedere i grafici della produzione industriale e dei servizi in Spagna e nell’eurozona dal 1996 al 2011 che presentiamo qui di seguito per constatare come il contesto di sovrapproduzione e, di conseguenza, di offerta eccessiva diventata insostenibile all’avvicinarsi della prima decade del nuovo millennio e, in modo più accentuato, una volta avviata l’attuale crisi sistemica del capitalismo

Produzione dell’industria manifatturiera

Produzione nei servizi

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Settori come quello dell’automobile
o dell’edilizia (con 6 milioni di appartamenti vuoti in Spagna) sono solo una dimostrazione delle potenzialità di produzione e quindi di un’offerta talvolta molto al di sopra delle necessità reali e della capacità di assorbimento della domanda.

Paradossalmente, l’evoluzione dei salari è stata decrescente in termini relativi (in relazione alla sua capacità di acquisto) già da molto prima della crisi (2) ed in termini assoluti a partire dall’esplosione della crisi, sia nei paesi più sviluppati che nella maggioranza di quelli emergenti.

Allora, come è possibile che si sia mantenuta una sovrapproduzione capitalista durante i periodi espansivi precedenti e successivi ai cicli di crisi?

Risponderò con un’altra domanda.
Vi siete domandati qualche volta quando si è prodotta la grande diffusione delle carte di credito? Fu nel 1970, appena tre anni in anticipo
rispetto alla prima delle grandi crisi capitaliste dopo il crack del ‘29. Dopo la crisi del ‘73 niente sarebbe stato uguale al passato nei cicli capitalisti di espansione e contrazione. Raccomando, in relazione a questo aspetto, la lettura di interessante articolo, di qualche tempo addietro, di Jorge Beinstein, “La crisi nell’era senile del capitalismo. Aspettando inutilmente il quinto Kondratieff” (3).

In questi quarant’anni di alternanza
sempre più accelerata di crisi e ripresa del capitalismo, il consumo a credito, tramite le popolari carte VISA, MasterCard, American Express tra le altre, o attraverso i prestiti personali bancari, è stato il modo per cercare di mantenere alta una domanda che si sarebbe invece collocata al di sotto delle capacità produttive del sistema capitalista, vista la discesa graduale della capacità di acquisto dei salari.

Mentre i salari calavano e i prezzi
dei prodotti e dei servizi andavano rincarando, la vita a credito si trasformò nella forma abituale di pagamento per vasti settori della classe media e di quella operaia, fino a quando il credito “revolving“, il più caro con interessi che oscillano tra il 10 e il 24 per cento, si diffuse tra i settori con difficoltà di accesso al credito per il rischio di insolvenza, nelle classi lavoratrici con minore capacità economica.

Tutto questo contesto di sovrapproduzione con consumo sovraindotto si è mantenuto fino a che la bolla ha toccato il punto più debole: le ipoteche subprime. Tutta la struttura è crollata e la sovrapproduzione è diventata crisi di produzione.

2) nella maggioranza dei paesi centrali del capitalismo in crisi, i crediti sono già molto bassi e in alcuni
sono intorno allo zero per cento di interesse, e per questo ci potrebbero
essere difficilmente margini di manovra per il credito rivolto all’investimento produttivo; questo in un contesto in cui difficilmente l’offerta potrebbe trovare un’accoglienza favorevole in un mercato con domanda decrescente.

3) per quanto riguarda il ruolo dell’investitore per stimolare l’economia, è certo che le politiche liberiste abbiano omesso di rispettare i propri principi per sostenere un keynesianismo davvero particolare: il salvataggio del sistema finanziario, gli aiuti all’industria dell’automobile, i prestiti a fondo perduto nei settori energetici strategici, eccetera. L’amministrazione Obama è stata assolutamente keynesiana in alcuni frangenti, intraprendendo importanti progetti di opere pubbliche con la modernizzazione del suo vetusto sistema stradale, e praticando un keynesianismo perverso in altri ambiti: iniettare denaro in settori economici fondamentali per salvarli, ma senza alcun controllo statale.

Il problema è che questo ruolo di investimento degli Stati non era destinato a incentivare l’economia e il consumo, ma a salvare settori chiave: le banche in un sistema finanziario che preferisce prestare denaro agli Stati grazie agli aiuti ottenuti, invece di realizzare la sua attività naturale, il prestito agli individui e alle imprese.

Quando i Krugman, i Bernanke o gli
Stiglitz chiedono un maggiore intervento dello Stato nell’economia reale
sembrano non capire che l’economia reale è questa: un settore finanziario che è fedele alla propria essenza, l’usura – e non c’è usura più
lucrosa di quella che si possa praticare agli Stati – e settori produttivi
industriali – in quello che è ancora il Primo Mondo – che stanno per essere spazzati via dall’offerta che viene dai paesi emergenti con manodopera più economica e numerosa e cui gli Stati possono solo fornire ossigeno per prolungare lentamente la loro agonia, dato che non vogliono comportarsi da liberali puri e lasciarsi morire.

D’altra parte, solo proprio le multinazionali ad avere creato le crisi delle imprese nei paesi centrali del capitalismo delocalizzando la produzione verso il Terzo Mondo e i paesi emergenti, licenziando centinaia di migliaia di lavoratori e favorendo una minore capacità di consumo per i beni che prima venivano fabbricati in loco. E’ qualcosa che difficilmente potrà essere fermato dalle politiche keynesiane di incentivo agli investimenti, perché non farebbero altro che alimentare il ricatto delle multinazionali verso i lavoratori dei
paesi centrali del capitalismo, che pretenderanno nuove condizioni salariali e lavorative sempre più lesive per i propri dipendenti. A meno che l’intervento dello Stato nell’economia non sia definitivo – mediante
la nazionalizzazione di settori strategici – e non transitorio e limitato ai periodi di crisi capitalista, ma ciò non è qualcosa che i keynesiani – liberali moderati – vogliono sentir dire. Allontanate la tentazione bolscevica!, gridano in coro.

4) l’ultimo punto, quello relativo
alla regolamentazione del sistema finanziario, indica fino a che punto
i keynesiani abbiano smesso di comprendere il mondo in cui vivono.

La struttura finanziaria e monetaria
di Bretton Woods, creata in larga parte a immagine e somiglianza delle
teorie economiche di Keynes, è stata demolita dalla globalizzazione del mercato finanziario mondiale e dalla sua deregolamentazione, iniziata a partire da Nixon (fine della convertibilità del dollaro in oro) e accelerata dall’epoca della Thatcher e di Reagan (consultate le informazioni sul Washington Consensus): la sparizione di questo tipo di cambio
fisso, la rottura della parità oro-dollaro, l’instabilità internazionale dei tassi di interesse, il crescente sviluppo delle operazioni bancarie fuori bilancio, la privatizzazione delle agenzie di rating partecipate
da grossi istituti di credito, la sempre maggiore concentrazione dei mercati finanziari nelle mani di pochi intermediari che muovono ingenti
quantità di denaro in pochissimo tempo – attaccando economie nazionali
grandi e piccole grazie a giganteschi conglomerati finanziari -, l’opacità
del sistema finanziario e bancario internazionale con i suoi intoccabili
paradisi fiscali, l’eccessivo scambio del debito pubblico nei mercati secondari, l’abuso dei derivati, la sparizione delle frontiere tra banche commerciali e banche di investimento (dove esisteva) ce lo rendono
evidente.

Il nuovo mondo liberista su scala globale ha lasciato gli Stati senza possibilità di intervento. Le varie riunioni del G-20 e dei Presidenti dell’UE e la paralisi decisionale ne sono un simbolo.

In questo contesto continuare a sostenere l’argomento della mancanza di volontà politica dei governanti
per intervenire sui mercati è una fallacia idiota, tipica degli ignoranti e degli opportunisti politici che tentano di nascondere il fatto che i politici professionisti – in quanto casta che ha l’interesse di permanere alla direzione del sistema politico – si stanno garantendo con la loro inazione l’accesso alla riserva, sostituiti dai personaggi con la valigetta di Goldman Sachs, ora Monti e Papadopoulus, e domani da qualsiasi altro “gestore” finanziario dei globalisti del Nuovo Ordine Mondiale. Ci potranno essere suicidi politici individuali, non quelli collettivi.

I keynesiani hanno problemi supplementari, oltre alla difficoltà di comprendere il mondo della globalizzazione capitalista e finanziaria che si è configurata dopo la fine di Bretton Woods.

Un primo problema nasce dalla loro
visione aristocratica ed elitaria dell’economia, della politica e della vita in generale. Pretendono che ora lo Stato e i politici tornino a intervenire nell’economia, spingendola e, soprattutto, regolando la sua attività, ma non sono capaci di dirci da dove possa uscire tutta questa forza decisionale degli Stati da applicare alle formidabili potenze economiche mondiali che concentrano molta più liquidità rispetto all’insieme dei governi mondiali.

Vorrebbero che si verificasse questo intervento politico, ma non sono capaci di ammettere che, senza una massiccia comparsa delle masse lavoratrici come forza di scontro
contro il capitalismo senza freni, tutto questo è impossibile, perché solo esse sarebbero in grado di avere un impatto in grado di fermare il mondo. Ma ciò sarebbe davvero pericoloso per la stabilità di un sistema che si basa sul patto sociale, un patto sociale che fu stimolato proprio dal keynesianismo.

Preferiscono entrare dalla porta sul
retro e appellarsi al cittadino, con la loro enfasi sul consumo all’interno del proprio modello teorico. Tutto questo denota sicuramente meno la possibilità di una lotta di classe rispetto a un appello rivolto ai lavoratori. Roosevelt fu più intelligente di loro e negli Stati Uniti si alleò in parte con i sindacati attraverso il Warner Act, per spingere sulle grandi corporazioni. Ma ciò avvenne negli USA, dove la tradizione di sinistra dei sindacati era più limitata.

Nonostante questo i keynesiani attuali hanno ben capito come la crisi del ‘29 attivò la combattività delle
sinistre e dei sindacati, anche se non si arrivò allo spargimento di sangue del capitalismo, e non vogliono correre il rischio che accada di nuovo.

Una seconda fonte dei problemi teorico-pratici dei keynesiani è nel fatto che evitano di comprendere che il danno fatto da quel capitalismo che pretendono di regolamentare è tanto grande che un intervento sull’economia sufficientemente efficace dovrebbe essere talmente profondo, radicale e audace che si scontrerebbe e di molto con la legittimità delle convinzioni borghesi, tanto rispettose dell’iniziativa privata, della libertà di impresa e della proprietà privata.

I signori keynesiani oserebbero scommettere su un modello di pianificazione economica di un capitalismo di Stato tanto avanzato quanto fu quello della Francia di Gaulle? Aspetto, ma non sento risposte. NO. Signori keynesiani, le vostre mezze misure in economia sono tanto pudiche di fronte a questa crisi quanto un cataplasma nel corpo di un malato terminale di cancro.

Un’altra delle loro ipotesi fallaci poggia sul non capire che gli Stati sono rimasti senza risorse legali per dominare un capitalismo che opera contro di loro, scaricandogli il proprio debito dopo essere stato salvato, temporaneamente, dalla propria crisi
finanziaria. Qualunque tentativo di controllare il capitalismo dovrà avvenire con la forza.

Bisogna aggiungere a quanto detto che i keynesiani non comprendono che il loro appello all’intervento globale dei principali governi mondiali per regolare il capitalismo senza freni va ad opporsi alla sua dottrina Sinatra del “My Way“.

La sfiducia tra governi dei paesi membri dell’eurozona (quelli più ricchi contro i PIIGS), dei membri dell’eurozona rispetto a quelli che non sono dentro l’UE (Gran Bretagna contro Germania e Francia), dell’Europa rispetto agli Stati Uniti, degli USA rispetto alla Cina, degli Stati Uniti e dell’Europa nei confronti dei paesi BRIC e di altri paesi emergenti, farà presto materializzare le politiche protezionistiche di alcune aree geografiche economiche verso altre e perfino di alcuni paesi appartenenti a dette aree verso altri membri delle stesse.

Le tensioni dentro l’UE e nelle riunioni del G-20 sono prove ben evidenti. Questa tendenza non sembra davvero segnalare un clima di grande cooperazione, che sarebbe necessario per stabilire un accordo per una rinascita di un Bretton Woods II.

Quando la minaccia della crisi avanza sotto forma di effetto domino sull’insieme delle economie nazionali del pianeta e i governanti constatano che non sembra non esserci un antidoto conosciuto contro la pandemia, viene a imporsi un insieme di reazioni molto variegato: panico (per il momento ancora controllato), cautela eccessiva, iniziative disperate, improvvisazione, immobilismo, confusione, scontro di tutti contro tutti…

Per quanto si impegnino i keynesiani, l’esito scelto dal capitalismo e dai suoi governi torna a essere di nuovo, come nella Gran Depressione, il conflitto e, possibilmente nel breve-medio termine, la guerra.

Ignoro se queste riflessioni siano passate per la testa del signor Paul Krugman quando lavorava in Enron, l’impresa energetica che defraudò gli Stati Uniti con la sua creatività contabile di ingegneria finanziaria, autentico paradigma delle conseguenze della deregolamentazione, o di quella del signore Ben Bernanke, neokeynesiano nominato da George W. Bush (il figlio tonto del primo Bush che salì alla Casa Bianca), alla presidenza della Federal Reserve (FED), quella stessa FED che “ha favorito la liberalizzazione del mondo bancario per poter distruggere il sistema bancario europeo” (4), quello stesso signor Bernanke che fu accusato di mancanza di trasparenza durante il suo incarico da presidente della Fed per aver spinto la Bank of America Corp. ad acquistare Merrill Lynch” (5), comportandosi lui stesso da lobbista. Ignoro anche se il signor Joseph Stiglitz, ex vicepresidente ed ex direttore economico della Banca Mondiale, braccio bancario del FMI e partecipante nell’ultima “indignata” estate al Forum del 15-M, abbia riflettuto sulle questioni da me segnalate.

Sinceramente ho l’impressione che gli economisti keynesiani, neokeynesiani, postkeynesiani e tutta la lunga
tassonomia di questi liberali moderati, non lontani alla tradizione di Stuart Mill, si adoperano in una finta lite con i cosiddetti neoliberisti, i monetaristi e i seguaci della scuola austriaca (anarcocapitalisti compresi), molti di essi non lontani al pensiero di David Ricardo. Una
lotta tra liberali moderati e radicali, ma liberali, da cima a fondo.

Loro, i keynesiani, hanno provato una stizza enorme al vedersi sfrattati dai propri spazi di potere – quelli che vanno ben al di là dell’ambito accademico – nelle istituzioni finanziarie, bancarie, negli organismi internazionali e, in generale, tanto vicino al potere economico quanto a quello dei governi, che ora sono costretti a fare la serenata sotto le finestre dei potenti, sperando di venire compresi prima del disastro definitivo, visto sono loro l’ultima trincea in difesa del sistema capitalista.

Dimenticano che i marxisti, che non
si nascondono dietro una scuola economica nemica dalla lotta di classe, vedono nella crisi sistemica del capitalismo non solo l’opportunità per disfarsi del cosiddetto neoliberismo, che è l’evoluzione del liberalismo ottocentesco e di ciò che rappresenta per i lavoratori, ma direttamente del capitalismo e di tutte le tribù di economisti liberali che lo difendono, compresi i keynesiani.

Se questo è il ritratto reale dei keynesiani, a cosa giocano quelle sinistre che li appoggiano?

Per comprendere questa questione di lana caprina conviene tornare all’espressione “sinistra sistemica” che ho esposto all’inizio dell’articolo e che ho definito nella nota (1) relativa. Per accompagnare questa categorizzazione non c’è niente di meglio della distinzione tra le sinistre fatta dal marxista, tristemente scomparso, Adolfo Sánchez Vázquez in un articolo pubblicato di recente (6). Così parlava Sánchez Vázquez delle sinistre:

“Sinistra può essere un termine equivoco. Mi sembra preferibile usarlo al plurale: non la sinistra, ma le sinistre. Ci sono almeno quattro sinistre: una sinistra democratica, liberale, borghese, connaturale al sistema capitalista; una sinistra socialdemocratica che vuole migliorare le condizioni sociali nell’ambito
dello stesso sistema; una sinistra sociale che è critica del capitalismo ma che non vede un’alternativa, rappresentata soprattutto dai movimenti
sociali (il movimento anti-globalizzazione è chiaramente dominato dai
keynesiani, come testimoniato dalla sua linea chiaramente riformista:
il testo tra parentesi è mio); e una sinistra socialista, che si oppone
al capitalismo che propone una nuova organizzazione della società.

Attualmente la sinistra social-liberale – dopo aver abbandonato la matrice socialdemocratica -, gli ex comunisti (che possono anche avere il termine comunista nella propria denominazione) che abbandonarono il marxismo – anche se periodicamente lo rivendicano per soddisfare una parte della base collocata alla sinistra dell’organizzazione – e buona parte della sedicente “sinistra radicale” – quella della militanza social-movimentista – recitano gli ultimi gorgheggi dei Krugman, degli Stiglitz… e dei rispettivi delegati nazionali. Il lettore di qualsiasi paese potrà mettere il nome che meglio corrisponde ai discepoli di Keynes che pullulano attorno e all’interno delle sinistre sistemiche e che segnano i suoi spartiti economici e le note musicali che lodano le leggi rivelate dal maestro britannico.

Le sinistre keynesiane, davvero maggioritarie nell’insieme di ciò che culturalmente chiamiamo sinistra, appoggiano simili soluzioni economiche come alternativa alla crisi del capitalismo, anche sapendo che non sono fattibili a causa della globalizzazione, dell’assenza di organismi regolatori di intervento e della carenza di potere delle istituzioni politiche e, se abbandonassero Keynes e i suoi apostoli, dovrebbero assumere che l’unica posizione coerente è quella che Marx ci ricorda ancora oggi: la necessità di una rivoluzione socialista, oggi su scala mondiale perché mondiale è la crisi del capitalismo ed è necessario opporre una forza davvero potente quanto formidabile è quella di cui dispone il capitale.

Ma ciò le obbligherebbe a un’autocritica sulla traiettoria che hanno seguito sinora: alcuni social-liberali, altri riformisti, altri semplici radicali coordinatori di movimenti
anti-globalizzazione, dove la Chiesa Cattolica, i movimenti come ATTAC
e quelli che pretendono un’altra globalizzazione “più giusta” sono la forza determinante.

Per le “sinistre sistemiche” il keynesianismo è una fermata comoda in attesa della fine della crisi del capitalista, perché non credono che sia possibile la rivoluzione sociale
e, probabilmente, neanche la desiderano.

Questo spiega, da un lato, l’ossessiva e sistematica dichiarazione di anti-neoliberismo di queste sinistre che mai alludono al capitalismo – come se quello che chiamano neoliberismo non fosse che una delle molte strategie del capitalismo – e una serie di vuote dichiarazioni di anticapitalismo da parte di un altro settore delle “sinistre sistemiche” che, quando si concretano in programma economico, sono puro distillato keynesiano.

Fondamentalmente, ancora confidano nella possibilità di ripresa economica grazie a una fase espansiva che possa aprire un ciclo di lotte riformiste e salariali per poter recuperare il tenore di vita perso dai lavoratori e la restituzione
di uno Stato del Benessere che, in realtà, è morto per sempre.

Le sinistre, se ancora lo sono, non
devono in questo momento presentare un programma economico di gestione della crisi capitalista, che non potranno mai portare a termine perché la forza non è più nelle istituzioni politiche, ma cominciare a prendere in considerazione le parole della Segretaria Generale del Partito Comunista Greco (KKE), Aleka Papariga, sicuramente una dei politici che meglio sta comprendendo l’essenza reale della situazione odierna:

Quando diciamo al popolo che
oggi il sistema capitalista – riferendoci al sistema capitalista europeo Europa che ha compiuto tutto il suo ciclo – obiettivamente non può dare soluzioni, che ha dato tutto quello che poteva dare, ciò significa che non devono aspettarsi che il KKE partecipi al sistema politico borghese, in un governo di gestione di un sistema che non può dare niente
.” (Poi, quando parla del rovesciamento del sistema, come suggerito dal giornalista che la intervista) “Ovviamente” (7)

Ignorano che, rinunciando a preparare la rivoluzione sociale, che quando si concentrano sulla domanda di una riedizione di un nuovo patto sociale, che quando pronunciano un discorso diretto alla classa media e alla cittadinanza dimenticando che i capitalisti hanno istituito una lotta di classe che ci porta alle condizioni della classe operaia nell’Inghilterra di Engels, stanno abbandonando il terreno per una qualsiasi uscita progressista dalla crisi, anche una riformista, perché hanno negato ogni forza trasformatrice a un progetto di emancipazione dei lavoratori. E le bandiere che non verranno alzate da una sinistra rivoluzionaria verranno sbandierate nere o brune dai demagoghi e dagli opportunisti che fomenteranno un populismo reazionario che non andrà mai contro il capitale, se non nominalmente, ma contro quei settori che sarà possibile demonizzare. immigranti, minoranze etniche, donne, poveri ed esclusi, per far esprimere una rabbia collettiva che tolga pressione a una pentola che finirà per scoppiare.

Note:

(1) In vari articoli ho usato l’espressione “sinistre sistemiche“. È giunto il momento di definirla, almeno provvisoriamente e come primo avvicinamento al concetto.

Per “sinistre sistemiche” intendo quelle la cui identità originaria è stata metabolizzata dal patto sociale tacito o espresso che fu stabilito col potere economico e politico nel processo di creazione e insediamento dello stato sociale nei paesi centrali del capitalismo.

Lo sviluppo dello stato sociale, alla
cui costruzione contribuì il modello keynesiano come stimolo ai mercati da parte dello Stato, esigeva in cambio una pace sociale nell’ambito
sindacale e politico, una pace sociale che fu garantita in primo luogo dalla socialdemocrazia, poi da una buona parte dei partiti comunisti (fondamentalmente quelli di strategia eurocomunista) e
dalla fine degli anni ‘90 del secolo scorso da gran parte della sedicente “sinistra radicale”.

In questo modo, quello che in origine era una sinistra di matrice marxista o influenzata dal marxismo in maggiore o minore misura, passò lentamente ma inesorabilmente a integrare il keynesianismo come variante economica e ideologica di quello che Bernstein e altri riformisti avevano postulato in precedenza: che nello sviluppo del sistema capitalista la lotta pacifica dei lavoratori avrebbe continuato a facilitare la transizione verso il socialismo, ora tramite la via del benessere. È comunque certo che Keynes non favorì mai il socialismo né niente di simile, ma solo il conseguimento delle massime potenzialità del capitalismo.

Ma le macerie e la morte dello stato
sociale a causa dell’intervento di un capitalismo globalizzato che non ha bisogno né vuole un patto sociale perché sa che non ha niente da temere dalle agonizzanti “sinistre sistemiche”, ha chiuso la parentesi su queste teorizzazioni e sulle strategie di mero accomodamento del capitalismo.

È prevedibile che le “sinistre sistemiche” spariscano con lo stato sociale.

(2) http://dwt.oit.or.cr/images/stories/boletines/B4_informeMundialdeSalarios.pdf, dati ufficiali dell’Organizzazione Internazionale

del Lavoro.

(3) Las

crisis en la era senil del capitalismo. Esperando inútilmente al quinto

Kondratieff.

(4) Intervista all’economista Marcello

De Cecco: La

FED debilitó nuestro sistema.

(5) Audiencia

en el Congreso pone en duda el futuro de Bernanke

(6) Adolfo

Sánchez Vázquez en este 2012

(7) ¡Dentro

del sistema capitalista no hay salida de la crisis a favor del pueblo!

**********************************************

Fonte: CONTRA KEYNES Y LOS KEYNESIANOS

13.01.2012

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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