Considerazioni sulla proprietà privata

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Di Rachele Foschi

La proprietà privata è uno dei pilastri fondanti non solo la nostra società capitalistica e consumistica, ma le società di filosofia occidentale. Per la definizione della proprietà e per poterla tramandare, l’essere umano ha dovuto darsi delle regole che lo hanno portato fuori dallo stato di natura: dai comandamenti di non rubare, al matrimonio, istituzione necessaria per l’individuazione dei figli/eredi. La proprietà privata va intesa come la possibilità riconosciuta o la capacità di conservare dei beni. La conservazione implica diversi vantaggi: la capacità di far fronte ad eventi avversi o imprevisti, l’autonomia, che danno all’individuo la sensazione di benessere e felicità, di essere artefice del proprio destino, di veder riconosciuto il suo impegno. La conservazione permette, sul lungo periodo, la realizzazione personale e la mobilità sociale e di conseguenza una distribuzione più uniforme della ricchezza (che non consista banalmente nell’espropriare qualcuno per dare ad un altro). Matematicamente la proprietà privata dà luogo ad una funzione di utilità individuale sensibilmente crescente su un intervallo di valori molto ampio.

Non avere proprietà è una caratteristica dell’animale o dello schiavo: entrambi vivono al di fuori del contratto sociale umano, quando non sono addirittura loro l’oggetto della proprietà. Non possedere nulla mette l’individuo alla completa mercé di chi gli dà una “rendita”, un sussidio, l’elemosina, da mangiare; la proprietà privata lo renderebbe autonomo, pur con i vincoli del caso. Chi ha un terreno, ha la possibilità di coltivare qualcosa e mangiare, chi ha una casa, ha un riparo, ha una necessità di base in meno di cui preoccuparsi. Proprio alla terra è legata l’etimologia di diverse parole riguardanti la felicità: “felice” ha la stessa radice di “fertile” (da “ferro”=”produco”), “lieto” la stessa di “letame”. Secondo me, insito in queste etimologie c’è un concetto di proprietà: Tizio è felice non perché la terra è fertile in generale, ma perché possiede una terra fertile.

A fronte di questi benefici della proprietà privata, riconosciuti più o meno consciamente, far accettare globalmente l’abolizione della proprietà, e quindi la schiavitù (tranne ai pochi eletti che possiederebbero tutto), è un problema non indifferente, che i governanti si stanno impegnando a risolvere da qualche decennio a questa parte, nell’indifferenza e soprattutto nell’incoscienza generale.

Nonostante l’ampio spazio mediatico dedicato loro, le ideologie contro la proprietà privata rimangono diffuse con una certa rilevanza solo in alcuni strati della popolazione, ovvero in quelli che vedono negli aiuti di Stato e nel livellamento sociale un miglioramento delle proprie condizioni economiche.

Per non sfociare in una ribellione, costosa anche per chi deve sedarla, la violazione di un diritto riconosciuto dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo non può avvenire in maniera diretta. La rinuncia pacifica a un tale diritto viene resa possibile dall’introduzione lenta, apparentemente indipendente e casuale, di “istituzioni” che compensino illusoriamente i bisogni ora soddisfatti dalla proprietà: 1) garanzia della sussistenza , almeno per la parte “buona” della popolazione; 2) credito sociale , che, imitando un criterio di merito, dà all’individuo l’illusione di essere artefice della propria condizione; 3) beni “smaterializzati” e convertiti in servizi, che continuino a rendere la vita confortevole come con la proprietà, tranne per la loro caratteristica invisibile e sfuggente, ma fondamentale, di non essere conservabili, ovvero di essere sotto il controllo altrui. Deve insomma essere ridimensionato l’intervallo su cui la funzione di utilità sia crescente in maniera sensibile: nessuno combatterà per avere più di quanto non sia stabilito, se ciò ha un surplus di utilità pressoché nullo. La motivazione di altra natura rispetto a quella effettiva conferirà gradualità ad un “ridimensionamento” anche drastico. Ad esempio, non potersi permettere una casa, troppo costosa, perché etichettata come inquinante, viene giustificato e reso accettabile in nome di una necessità e di un bene maggiore (in questo caso il clima da preservare), fa leva sul senso di colpa. La colpa può essere vista come la percezione di un’utilità indebita, che rende accettabile subire ciò che in condizioni normali non lo sarebbe.

Attacchi al lavoro e alla proprietà
Il piccolo differenziale tra gli stipendi in Italia è un primo passo verso l’introduzione del reddito universale. Il fatto che pur piccolo non sia nullo da una parte dà ancora l’illusione alle persone di essere fautrici della propria condizione economica, dall’altra riesce a tenerle divise in classi sociali immaginarie, basate su differenze di stipendio di poche centinaia di euro che non riescono a tradursi in un diverso stile di vita.

La distruzione della classe media, trainante l’economia reale, porta necessariamente con sé un sovradimensionamento della classe dei lavoratori dipendenti, la maggior parte dei quali è già indirizzata verso mansioni poco qualificate, facilmente sostituibile e ricattabile e disposta a lavorare per un salario minimo. Chi non viene riassorbito come dipendente sfruttato, va ad incrementare le file dei disoccupati, che percepiscono un sussidio che grava sugli stipendi di chi ha ancora uno stipendio “tassabile” e che, essendo a fronte di nulla, è revocabile in qualsiasi momento. L’effetto cui concorre questa dinamica è che gli stipendi si appiattiscono progressivamente; la stessa retribuzione si percepisce facendo un lavoro altamente qualificato, non qualificato o anche non lavorando. Quand’anche un tale reddito permettesse a tutti una vita agiata, se fosse uguale per tutti priverebbe l’individuo dell’aspirazione al miglioramento e di ogni possibilità di realizzazione di sé. Tale situazione diventa sempre meno sopportabile quanto più questo reddito scende verso la soglia di sussistenza o ancora più in basso.

In Italia oggi la condizione economica si costruisce più che con il lavoro, su una base di risparmi e proprietà familiari: lo stipendio, talvolta buono ma non sicuro, serve da mantenimento momentaneo, la famiglia, cellula della società e dell’economia, con la sua proprietà privata, soprattutto con la casa di proprietà, tratto distintivo dell’economia italiana, costituisce un’importante retrovia.

Non è un caso che le riforme finanziarie dell’ultimo ventennio siano state rivolte all’abbassamento delle pensioni e a tassare la proprietà e a disincentivarla con altri mezzi. Dalla casa di proprietà dipinta come “ostacolo alla mobilità” (Monti, 2015) al più goffo accostamento tra proprietà privata e violenza sulle donne (Landini, 2021), si cerca di non imporre l’abolizione della proprietà privata, ma di farla digerire ai più, come benefica o quanto meno necessaria.

La proprietà privata viene dipinta come egoista; chi la difende, elevandola a ciò che va difeso subito dopo la propria vita e quella dei propri familiari, viene accusato di non avere il giusto ordine di valori, ma è la proprietà privata che distingue l’uomo dagli altri animali e il poter conservare e accumulare (comune a qualche altro animale) è legato alla sopravvivenza. La qualità della vita è legata alla proprietà: se un individuo ogni giorno deve procacciarsi il cibo e un insuccesso gli costa la fame, la preoccupazione per la soddisfazione dei bisogni primari riempirà la sua esistenza. La conservazione nasce in primis per diminuire un rischio, secondariamente per avere tempo da dedicare ad attività più soddisfacenti (anche spiritualmente). La conservazione in natura ha dei costi: l’individuo deve fare la guardia a quanto accumulato, per cui non può accumulare più di quanto non possa sorvegliare e difendere con le sue forze. L’istituzione della proprietà privata permette l’innalzamento di questo limite. La tutela della proprietà privata è, insieme alla salvaguardia della propria vita, uno dei motivi principali per cui l’uomo accetta la limitazione della libertà data dalla società (Hobbes). La proprietà privata non è solo quella dei “ricchi per diritto divino”, ma è anche quella derivante da redditi da lavoro, che del lavoro ereditano tutta la nobiltà; pertanto va interpretata e difesa come estensione e consolidamento del lavoro. La “dissuasione” alla proprietà, la sua penalizzazione o anche solo svalutazione arrivano infatti insieme al massacro del lavoro.

La proprietà e il valore convenzionale del credito
Un primo esempio di svalutazione lo abbiamo avuto durante il lockdown: i soldi non potevano essere usati per andare al ristorante, al teatro, per andare in vacanza, neanche nella seconda casa; i soldi (quantificazione della proprietà) non potevano più essere usati per incrementare la qualità della vita (arricchimento culturale, contatto con la natura). Al supermercato, in maniera del tutto priva di logica, non si poteva comprare biancheria, filo per cucire, accessori per la conservazione dei cibi; alcuni siti di e-commerce o corrieri minacciavano di sospendere la possibilità di acquisto o di non consegnare generi che non fossero di prima necessità. Contemporaneamente venivano elargiti (chiaramente a spese dei contribuenti) aiuti a chi non aveva lavorato, tutto nell’ottica di garantire le necessità primarie a tutti, ma il “non essenziale” a nessuno.

Un avvertimento di come il valore della proprietà sia puramente convenzionale: la società dà, la società revoca. Mentre, contravvenendo alla tutela della proprietà, è proprio il patto sociale ad essere nella posizione di dover essere revocato. Questa situazione ha generato per l’individuo una funzione di utilità piatta da un certo importo in su: una volta che si percepiscono (in qualsiasi modo) 500 euro al mese, il tanto che basta per fare la spesa alimentare e pagare le bollette, l’utilità non cambia. Questo è il tipo di funzione di utilità che poteva avere un uomo primitivo, che non aveva modo di conservare il cibo.

Un secondo esempio è dato dal lasciapassare c.d. verde, che già costituisce una forma di credito sociale che va ad annullare il credito costituito dai risultati di lavoro e proprietà. Un individuo potrebbe avere i soldi per concedersi una visita ad un museo, una cena al ristorante o di viaggiare su un treno veloce, ma non è abbastanza ricco nella “valuta sociale” per poterselo permettere. Anche questo fenomeno genera, almeno per chi non possiede “credito sociale”, una funzione di utilità piatta da un certo importo in poi, ovvero: se non ci si può permettere il superfluo, l’utilità percepita della cifra che eccede il necessario è praticamente nulla.

In questa ultima fase il credito sociale va ad intaccare anche il necessario, nella forma del lavoro: non un modo per spendere, quindi per usufruire di un credito, ma un modo per ottenere credito. Quand’anche non si lasciasse morire di fame nessuno e a tutti, anche a chi è sprovvisto di pass ideologico, venisse garantito l’assegno alimentare (non un reddito da lavoro quindi), non sarebbe una vittoria, ma anzi una strada spianata, e approvata anche da chi si oppone al lasciapassare, verso il reddito universale, equivalente all’espropriazione di tutto.

Agenda 2030: “Non avrai nulla e sarai felice”
Il prossimo passo riguarda, oltre a un’impennata dei prezzi delle materie prime del settore energetico, l’esclusione dal mercato delle case che “sprecano energia”. Così come vanno socialmente interdetti gli untori che non si vaccinano, così vanno puniti coloro che producono troppa CO ₂ , in questo contesto per il tramite della propria casa. Sarebbe molto facile implementare questo criterio in altri contesti economici: anziché le riserve auree di uno Stato, com’era un tempo, la moneta potrebbe essere commisurata alla quantità di CO ₂ che ogni Stato può produrre, ridefinendo sulla base dell’anidride carbonica i prezzi di qualsiasi bene; non è un semplice cambio di valuta, perché ci sarebbe un rimescolamento dei prezzi e beni essenziali non calmierati, ma non è neanche un vero cambio di paradigma, in quanto rimane intatto il meccanismo dello scambio, il concetto di valore in base una valuta e, volendo, la distribuzione del credito. Rendere invendibili e non affittabili, se non espropriare direttamente, case non rese energeticamente efficienti neanche con gli incentivi statali (quindi sempre rimborsati a spese della comunità), invece significa distruggere quello che in Italia è il principale serbatoio di conservazione della proprietà della classe media: i molto ricchi potranno continuare a godere dei diritti dell’uomo, diventati ora privilegi, mentre gli altri non potranno accumulare, conservare, pianificare, realizzare, ma sarà loro permesso di esistere economicamente solo a tempo determinato, come piccoli consumatori costanti, che soddisfano bisogni altrettanto piccoli ed effimeri.

Di Rachele Foschi

Professore Associato presso il Dipartimento di Economia e Management

Università di Pisa

 

BIBLIOGRAFIA

https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2020/11/30/papa-il-diritto-alla-proprieta-privata-non-e-intoccabile_0424ae5d-26b9-43f9-9da9-5ba56d6f1f0b.html
https://www.laverita.info/landini-e-la-violenza-sulle-donne-e-colpa-della-proprieta-privata-2655325325.html
https://www.maurizioblondet.it/il-commento-di-carlo-grossi-sulla-direttiva-ue/
http://www.interlex.it/testi/dichuniv.htm

 

Pubblicato da Jacopo Brogi, ComeDonchisciotte.org

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