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La Redazione

 

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CAPIRE LA MANIFESTAZIONE CONTRO IL SEQUESTRO IN COLOMBIA

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A cura di Das schloss
Il 28 Febbraio 2008
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América Latina en Movimiento

Questo articolo analizza la portata della manifestazione contro il sequestro in Colombia che si è svolta in più di 130 città in tutto il mondo. La manifestazione si è risolta nella più grande manifestazione che si sia mai avuta in Colombia, con una partecipazione a livello planetario di diversi milioni di persone (c’è chi dice 3 milioni e c’è chi dice 10 milioni).

Lo slogan principale è stato “No al sequestro! No al terrorismo! No alle FARC!” Nonostante la genuinità delle intenzioni della maggior parte dei manifestanti, tale evento ha presentato molte ombre, soprattutto perché i familiari dei sequestrati non vi hanno partecipato, preferendo riunirsi a pregare in una chiesa. Questo articolo cerca di chiarire i vari dubbi lasciati aperti.

La marcia del 4 Febbraio è stata, come poteva immaginarsi, un successo contundente in quanto a partecipazione.

Le notizie parlano di 1 milione di persone solo a Bogotà.

La gente ha marciato in più di 50 città colombiane ed altre 130 in tutto il mondo.L’atmosfera è stata molto tranquilla e per la strada hanno sfilato persone di tutti gli strati sociali, dai ricchi dei quartieri bene fino agli abitanti delle aree più degradate. Indubbiamente un evento storico, a tale punto che la si considera come una delle più grandi marce della storia del paese. Non si è verificato nessun problema di ordine pubblico. La consegna della marcia era: “Mai più FARC, mai più sequestro”, ma molta gente sfilava anche con striscioni contro gli altri attori armati ed in favore dell’accordo umanitario.

Poche centinaia di persone hanno accompagnato i parenti dei sequestrati che hanno deciso di non andare e di organizzare una liturgia nella Chiesa del Voto Nazionale. Li hanno accompagnati, tra gli altri, il sindaco Samuel Moreno, l’ex presidente Samper e l’ex sindaco Lucho Garzón.

È stato un giorno di festa civica inusuale in Colombia che si è unito per la pace. Questo insolito evento, al realizzarsi in un paese che generalmente non si esprime massicciamente per le strade, nonostante sia uno dei più conflittuali del pianeta, può avere per lo meno 3 chiavi di lettura: il rifiuto, la manipolazione e l’espropriazione del dolore.

Il rifiuto

Se, come dice Von Clausewitz, uno dei più riconosciuti studiosi della storia militare e della filosofia bellica: “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, in Colombia è vero il suo contrario come per primo ha detto il filosofo Foucault: “La politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”. Il colombiano è un conflitto che tutto include e tutto giustifica.

Sono già 6 generazioni che sono nate e sono cresciute nel contesto della guerra e hanno dovuto abituarsi a massacri, violenza, sparizioni, “desplazamiento” e sequestro. La mancanza di un “post-conflitto” per 60 anni ha fatto sì che i colombiani non abbiano potuto “vomitare i propri morti”, come lo ha suggerito il premio Nobel José Saramago in un recente viaggio nel paese, cioè non hanno potuti analizzarsi, in una situazione pacificata, per imparare dai propri errori e non tornare a ripeterli.

Un conflitto tanto lungo ha pochi precedenti nei tempi odierni per poter paragonare ed analizzare gli effetti sociali sulla popolazione.

Ma un conflitto tanto lungo dimostra anche che esiste, nelle classi dominanti, un’incapacità, quando non una mancanza di volontà, di mettere fine al conflitto. Cosa che contrasta fortemente con la voglia e l’illusione della maggioranza della popolazione di vivere in un “paese normale”. Questo è possibile perché la Colombia è un paese diviso: da un lato le città dirette verso la modernità, il lusso, e verso modelli economico globalizzati, e dall’altra, la campagna, le aree rurali, arretrate e soffocate nella guerra e nella violenza.

Alcuni dei pochi fatti che porta il conflitto alle classi medio alte delle città è il sequestro. Gli attori armati trasportano fisicamente politici e gente comune nella selva e nella guerra, creando un cordone ombelicale che unisce le due parti di questa Colombia lacerata dalla violenza.

In questo scenario, la marcia del 4 di febbraio, organizzata da un gruppo della rete Facebook, è una novità, una delle poche occasioni nelle quali la popolazione esce in strada in forma massiccia.

I Colombiani hanno interiorizzato l’impotenza ed il dolore per il loro paese, e si sforzano di cancellare il conflitto dalla loro mente.

Per questo, la forte reazione di fronte alle inumane condizioni degli ostaggi nelle mani delle FARC è positiva e potrebbe segnare un risveglio della società. È un raro momento di spontaneo e genuino rifiuto alla violenza che vive il paese.

Ma è un rifiuto ad un conflitto che la gente non conosce. La maggioranza dei colombiani ignora le forme, i numeri della violenza del proprio paese e la natura degli attori armati. Non esiste una società civile organizzata e cosciente che faccia appello ad una multitudinaria marcia di rifiuto, esistono poteri forti che approfittano di questo spontaneo sentimento per avviarlo verso i propri interessi.

La manipolazione

Il presidente Uribe arrivò al potere nel 2002 dopo 4 anni di un infruttuoso ed interminabile processo di pace. Un processo nato con gran aspettativa, trasformato in un inganno e sepolto indubbiamente come conseguenza dei fatti dell’11 settembre 2001. Le élites colombiane si convinsero che, nel nuovo scenario internazionale, era possibile sconfiggere militarmente la guerriglia, evitando un cambio sociale che inevitabilmente avrebbe implicato un accordo di pace col gruppo guerrigliero.

Uribe nega l’esistenza di un conflitto, trasforma gli attori armati da politici a semplici terroristi, e fa dell’opzione armata l’unica soluzione.

Costruisce un discorso politico dove tutto ha senso e si giustifica non appena esiste un nemico terrorista da annichilire, di seguito vengono i piani militari, le battaglie s’intensificano e la vittoria finale sembra sempre questione di giorni.

Tuttavia, questa posizione non permette soluzioni negoziate e non prevede terze posizioni. Esistono solo uribisti o guerriglieri. Ma, senza un nemico, il belligerante presidente si ritirerebbe insieme al suo governo; senza un conflitto, l’esercito colombiano dovrebbe rinunciare alle enormi quantità di aiuti degli USA che ammontano al 6,5% del PIL ed al suo potere quasi illimitato sulla popolazione civile.

La realtà è che la pace non la vuole nessuno nel governo e nelle élites colombiane. Fin quando c’è guerra, ci sono soldi.

Uribe si trasforma nel bene assoluto contrapposto alla guerriglia che diventa semplice terrorismo ed incarnazione del male. Il conflitto armato si banalizza ed si tende a giustificare il paramilitarismo come un male minore di fronte all’orrore delle FARC.

Per potere sostenere questo discorso, il presidente fa un utilizzo massiccio dei compiacenti mezzi di comunicazione. La maggioranza dei colombiani che vive giorno per giorno neanche viene a sapere di ciò che sta succedendo al di fuori degli schermi della TV. La versione ufficiale del conflitto armato diventa l’unica realtà, la guerriglia ed i suoi crimini l’unico nemico.

Klaudia Girón, insegnante di Psicologia dell’Università Javeriana commenta: “Da questo scenario si evince che dall’immagine sfigurata del conflitto, si è andato configurando un paese sempre di più disinformato e terrorizzato […] La maggioranza della gente non sa, né vuole sapere le atrocità che commette lo Stato o i paramilitari”.

Cosicché quando i colombiani scendono alla strada a marciare, lo fanno contro l’unico nemico che conoscono. Conseguentemente umiliano le vittime degli altri attori e legittimano il progetto belligerante del presidente.

È chiaro che il Governo vuole approfittare della giornata per appoggiare la sua immagine come il principale punto di riferimento anti-FARC nel paese, e per questa via aprire il passo ad un’eventuale seconda rielezione presidenziale.

Lo dimostra, per esempio, il fatto che il Ministero di Difesa, Juan Manuel Santos, obblighi ad uscire in strada ai suoi impiegati, o che il Segretariato ed il Ministero d’Educazione appoggino la marcia pagando il giorno ai professori che portino i loro alunni a marciare. Vale la pena ricordare che queste stesse entità ed il governo tacciarono di terroristi studenti e professori che pochi mesi prima erano andati a protestare di fronte ai ritagli economici all’educazione.

Questo ha generato un dibattito molto forte nella società colombiana tra chi volesse marciare contro tutte le violenze e tutti gli attori armati e chi, come i giovani organizzatori, ignorano l’esistenza di violenze superiori o altre e confondono i critici della loro iniziativa (vittime, organizzazioni sociali e di sinistra) come amici delle FARC.

Analizzando questo dibattito, molti analisti considerano che c’è una polarizzazione nel paese, probabilmente si confonde un’esasperazione degli animi ed una crescente intolleranza con una polarizzazione. Ma non esiste una vera divisione, al contrario, quello che si pretende è un animismo ideologico, un’omogeneizzazione del pensiero, la creazione di un nemico unico e di una sola verità che tende a cancellare ed ignorare la storia ed ad eliminare chi abbia idee differenti, come gli stessi familiari degli ostaggi delle FARC.

John Stuart Mill si esprimeva così: “Il male realmente temibile non è la lotta violenta tra le differenti parti della verità, bensì la tranquilla soppressione di una metà della verità; c’è sempre speranza quando le genti sono forzate a sentire le due parti, quando ne sentono solo una è quando gli errori si trasformano in pregiudizi”.

È per questo che una marcia spontanea e positiva di rifiuto ad un crimine, obiettivamente abietto, e di un’organizzazione astorica che ha perso il contatto con la realtà e la popolazione, può finire per sostenere la violenza in Colombia, allontanando la pace e promuovendo un processo di colpevolizzazione delle vittime degli altri attori armati e dei difensori dei diritti umani. Perché, come dimostrano le aggressioni alla senatrice Piedad Cordova, sostenitrice di un’uscita negoziata al conflitto ed autrice intellettuale della liberazione di Clara Rojas e Consuelo Perdomo, chi sostiene opinioni impopolari, è esposto a calunnie.

Iván Cepeda, presidente del Movimento Nazionale delle Vittime di Crimini di Stato, commenta così la marcia: “La convocazione che si realizza contro una forma di violenza esclude altre logiche e si potrebbe dire che ci sono due tipi di vittime: quelle del sequestro e quelle della guerriglia, ed altre che sono passate ad essere vittime inesistenti”.

Espropriazione del dolore

Quando gli organizzatori si rifiutano di marciare contro tutte le violenze e decidono di marciare solo contro le FARC, ignorano le vittime degli altri attori armati e li rendono invisibili. Si riconosce l’atrocità che vivono i più di 700 rapiti in mano delle FARC, ma si sopprime la realtà di un paese sconquassato dalle violenza paramilitare e statale; ancora peggio, questa si legittima. Prova di ciò, è che i capi paramilitari hanno appoggiato, in un comunicato, la marcia del 4 febbraio.

In Colombia 120.000 persone, secondo cifre della Commissione Nazionale di Riconciliazione e Riparazione (CNRR), si sono identificate come vittime del paramilitarismo davanti all’Unità di Giustizia e Pace della Procura Generale della Nazione. Si pensa che i desaparecidos per l’intervento dei paramilitari delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia) potrebbero arrivare a 14.000. Le AUC non hanno ostaggi, riempiono fosse comuni!

L’ex capo paramilitare Salvatore Mancuso si è attribuito la colpa di 112 massacri con un totale di 1370 vittime. Il suo amico, alias Don Berna, ha rivelato l’ubicazione di 300 vittime della sua strategia di terrore, sepolti in 11 fosse comuni.

Fino a dicembre 2007 sono state trovate 935 fosse comuni.

Solamente il capo paramilitare Éver Velosa, alias H.H, un comandante intermedio, ha ammesso a Medellin la sua responsabilità in 1200 omicidi commessi in un anno e mezzo: “c’erano notti che ne ammazzavamo fino a 20″, ha dichiarato di fronte ai parenti delle vittime che si sono uniti per sapere il destino dei loro esseri cari spariti anni fa.

Il capo paramilitare Jorge 40, ha ammesso la sua responsabilità in vari massacri nel nord del paese dove ha dichiarato d’avere assassinato un centinaio di colonizzi, compreso il massacro di Ciénega Grande, Santa Marta, dove sono stati giustiziati più di 60 pescatori nell’anno 2000. La sua struttura è responsabile di 768 sparizioni e gli sono attribuiti 200 massacri.

L’alias Alemàn ha indicato l’ubicazione di 50 corpi in fosse comuni ed ha confessato più di 100 crimini.

Fino ad oggi si sono ascoltati solo a 63 paras che hanno reso una confessione volontaria su circa 2914 paras processati. Questo può dare un’idea di quello che è stato il terrore paramilitare in Colombia.

Con le AUC, il governo Uribe ha anticipato un processo di pace molto discusso, in questa cornice, una sentenza della Corte Suprema di Giustizia ha dichiarato che non può applicarsi il crimine di “sedizione” ai membri delle AUC, perché non si sono sollevate contro lo Stato, bensì in suo favore.

Effettivamente, più di 60 congressisti e politici uribisti sono inclusi nello scandalo conosciuto come la “parapolítica” e li si accusa d’aver finanziato e creato gruppi paramilitari. Tra questi si trova il cugino del Presidente, Mario Uribe.

Parlando solo del 2008, tra il 31 di dicembre ed il 14 gennaio, il Movimento delle Vittime di Crimini di Stato (MOVICE), ha riferito che presunti paramilitari di estrema destra hanno assassinato 12 persone, ne hanno fatte sparire 9, hanno obbligato 120 a fuggire e ne hanno ferite altre tre.

“Sembrerebbe che quelle vittime siano “inesistenti”, ha scritto Iván Cepeda Castro, in una lettera al presidente Álvaro Uribe. “Né le corporazioni imprenditoriali, né la Chiesa né i sindaci, né i governatori, né i grandi mezzi di comunicazione convocano marce di rifiuto cittadino davanti a questi crimini”, ha aggiunto, in riferimento alla manifestazione del 4 febbraio.

Nella lettera, Cepeda continua: “Lei, quando si pronuncerà sui crimini contro l’umanità che continuano a commettere i gruppi paramilitari? Quando farà un’allocuzione solenne per condannare le sparizioni forzate massicce che hanno portato migliaia di compatrioti in fosse comuni e cimiteri clandestini?”

Parlando dell’esercito colombiano, le ultime relazioni del Centro di Investigazione ed Educazione Popolare (CINEP), sicuramente la banca dati più importante sul conflitto colombiano, parlano di una realtà da brivido.

Nell’ultimo semestre del 2006, le violazioni gravi al diritto umanitario internazionale, DIH, (sparizione, omicidio extragiudiziale, tortura, tra gli altri) sono di responsabilità, nel 66%, della forza pubblica, nel 24% dei paramilitari, smobilitati, secondo il governo, e solo il 4% delle guerriglie. Nel primo semestre, i dati indicano che il 44% è stato commesso da attori statali, il 35,5% dai paras ed il 12% dalle guerriglie. Come sempre, quando diminuisce la violenza paramilitare aumenta quella dello Stato e viceversa.

Nel 2007 le cose non cambiano molto. La forza pubblica è responsabile di 385 violazioni gravi del DIH, altri attori dello Stato di 62, i paras di 325, le guerriglie di 22.

Come può marciare contro i crimini della guerriglia senza marciare contro i crimini dello Stato e dei paramilitari? Come può lo Stato colombiano chiamare a qualcuno terrorista senza prima far riferimento allo stesso modo a sé?

La marcia del 4 di febbraio espropria il dolore di tutte le vittime del conflitto. Non è casuale che nessuna organizzazione di vittime, o di diritti umani l’abbia appoggiata.

Titolo originale: “Claves para entender la marcha del 4 de febrero”

Fonte: http://alainet.org/active/
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06.02.2008

Traduzione a cura di PANAGEA

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