BRUSCA QUASI INNOCENTE ?

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DI PIERO LAPORTA
pierolaporta.it

Un libro sbagliato che tuttavia apre a un’ipotesi inquietante: un’altra mano dietro la strage di Capaci? Stefania Limiti, “Doppio Livello, come si organizza la destabilizzazione in Italia” (ed. Chiarelettere). Quasi 500 pagine, documentate, ricche di riferimenti, dense di fatti e pure di congetture inconcludenti.

L’interesse si fa acuto nel capitolo di Capaci, l’ultimo di otto: “Dopo la strage di Capaci”, in effetti, a differenza di quanto avvenne poi per quella di via D’Amelio, esecutori e concorrenti esterni non ebbero alcun bisogno di depistare l’inchiesta”. Tenuto conto di quanto segue, tali parole non fanno onore a chi investigò sulla morte di Falcone.
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Nella tavola qui accanto sono riassunti taluni aspetti controversi, che la Limiti non ha approfondito né scientificamente ma neppure analiticamente.

Non di meno la Limiti introduce un indizio per Capaci che, se avvalorato, certificherebbe Giovanni Brusca innocente della morte (ma colpevole della preparazione dell’attentato) e suo malgrado prigioniero d’un burattinaio raffinatissimo e potente.

Ho quindi scritto a parte sui primi sette capitoli (si può leggere qui), preferendo concentrarmi sulle pagine di Capaci per spiegare perché l’analisi della Limiti è errata, così com’è basata acriticamente sulle “rivelazioni” di un c.d. “gladiatore” (dell’organizazione Stay Behind del SID/SISMI?!?). Faccio così perché le prime 400 pagine, a dispetto della ricchezza della ricerca – un vero sciupio – rispecchiano la consueta tesi del giornalismo italiano: “Le stragi? Responsabilità di Nato, Cia, massoneria, P2, servizi deviati…” Ne siamo certi? Non c’era nessun altro fattore? Sarà proprio il capitolo su Capaci a suggerirci, come vedremo, che forse altre manine e di certo la stupidità potrebbero avere avuto ruoli non secondari.

Appare necessario rintracciare il c.d. gladiatore, per capire perché talvolta sembri intorbidire le acque. L’Autrice può/deve nascondersi dietro il segreto professionale, ovvio. Non di meno il c.d. gladiatore, se davvero è tale, appartiene ai servizi segreti e, come si sa, la legge guarda con attenzione alla collaborazione fra giornalisti e servizi, tanto più se l’Autrice (come conferma la sua lettera, leggi qui) è acritica col c.d. gladiatore, gli scopi del quale sono comunque da approfondire, visto che le sue parole non appaiono aderenti alla verità.
In ogni caso il c.d. gladiatore – se ancora esiste – è facile trovarlo. Se un magistrato è interessato, siamo pronti a spiegargli come fare. A meno che tutti i magistrati, proprio tutti, gradiscano questo libro così com’è; in tal caso sarebbe un’altra storia.

Un’Auto Troppo Lenta Eppure Puntuale


Nel capitolo “False Bandiere a Capaci”
(Stefania Limiti “Doppio Livello” ed. ChiareLettere) l’Autrice afferma che la carica esplosiva, preparata e collocata dalla mafia, fu successivamente potenziata da una mano misteriosa. Secondo l’Autrice glielo ha rivelato un sedicente “gladiatore”
(cioé della organizzazione atlantica “Stay Behind) da lei intervistato [testo evidenziato in giallo].

«Scusi, che intende quando dice che non c’erano solo quattro mafiosi?» chiesi all’ex gladiatore. «Può farmi capire meglio?» L’uomo di Gladio mi raccontò allora che quando sua figlia era piccola amava accompagnarlo in barca e pescare con lui: «Naturalmente, non era ancora in grado di tirare su pesci e allora, pur di farla divertire, la armavo di canna con una lenza rivolta verso il basso e poi, sempre accanto a lei, gettavo in acqua la mia canna aspettando che la preda abboccasse alla mia esca. Appena sentivo che la mia canna si muoveva, cercavo di agganciarmi alla sua lenza così che lei potesse sentire il movimento e illudersi di aver pescato … quando tiravamo su era cosi felice che certo non distingueva le due canne … Mi creda, Stefania, quei poveri scemi piazzati nella casetta sopra la curva dell’autostrada credono davvero di aver compiuto un attentato con tutti i crismi della professionalità degna dei migliori artificieri militari operanti in un teatro di guerra… ma alla fine assomigliano molto alla mia bimba… non si sono accorti che altri, ben più all’altezza di tali situazioni, hanno fatto tutto con grande capacità, lasciando a loro solo l’effimera illusione di essere veri criminali … Credo che quella tecnica sia stata applicata molte altre volte e che l’innocente inganno della canna da pesca possa spiegare non solo i segreti di Capaci». La storia si interrompe qui, senza un bel finale. Ma possiamo provare a ricomporla grazie al lavoro di alcuni magistrati. [grassetto aggiunto]

gladiatoreQuesto racconto non convince. Se il gladiatore fosse sincero e informato, non dovrebbe opporre difficoltà a chiarire qual è stata la manipolazione, qual è stata la “seconda canna” e in quale modo fu data in mano ai “poveri scemi”.

La manipolazione di quella esplosione infatti può concernere solo due elementi: l’esplosivo e l’innesco che lo fa scoppiare. Se vi fosse stato un timer, questa sarebbe stata una terza possibilità; è tuttavia dimostrato che un timer non c’era.

Il «gladiatore» la dà a intendere ma non spiega: è tipico di chi mente e vuole lasciarsi comunque una via di fuga. Non è l’unica ombra nel comportamento di costui, come vedremo, né la più grave.

Non di meno l’Autrice e, a suo dire, un piemme poggiano una deduzione sulle fumosità del sedicente gladiatore: la “seconda canna”, la manipolazione fu il potenziamento della carica esplosiva all’ insaputa dei “poveri scemi”. La ragione del potenziamento dell’esplosivo, secondo l’Autrice? Entità ignote volevano essere certe di colpire comunque l’auto di Falcone, sebbene fosse in movimento.

A parte il fatto che potevano pensarci prima, queste misteriose entità a far mettere più esplosivo, la deduzione della Limiti è invece un errore marchiano per almeno per le due seguenti ragioni.

Primo. La perizia sugli esplosivi, redatta all’indomani dell’attentato dagli esperti incaricati dal tribunale, [leggila qui] certificò scientificamente quantità e qualità dell’esplosivo. Queste certezze furono poi confermate dalle indagini successive.

Secondo. Un esperto sa molto bene che l’esplosivo perde esponenzialmente la sua efficacia col crescere della distanza dall’obiettivo. L’autista di Falcone, Giuseppe Costanza, si salvò trovandosi 50 centimetri dietro il giudice. Si sarebbe probabilmente salvato anche se l’esplosione fosse stata più potente. Per un esperto il problema più acuto in un tale attentato è realizzare la contiguità fra scoppio e vittima, cioè far coincidere il tempo dello scoppio con l’istante della presenza della vittima nelle immediate vicinanze dell’esplosivo.

La preparazione dell’attentato

blankI mafiosi fecero numerose prove di velocità, al fine di stabilire come e quando dare l’impulso radiocomandato all’esplosione mentre transitava l’auto di Falcone. Tutte le prove presumevano che l’auto di Falcone viaggiasse a 160-170 chilometri orari.

Essi pertanto posero un indicatore – un rottame di frigorifero – sul margine della carreggiata. Quando l’auto di Falcone fosse stata allineata col frigorifero, Brusca avrebbe dato l’impulso radio alla deflagrazione. Tutte le prove compiute dai mafiosi ruotarono intorno a tale procedura.

La distanza tra frigorifero ed esplosivo era 30 metri.

Questi esperimenti – che come vedremo sono fallaci – offrono tuttavia una preziosa informazione oggettiva circa la scarsità di riflessi di Giovanni Brusca, il mafioso che manovrava il telecomando. Appuriamola.

“v” è la velocità, “s” lo spazio, “t” il tempo.

170 km/h è pari a 47 metri al secondo, pertanto:

s:v = t, cioè 30 /47 = 0,63 secondi

In altre parole, Brusca aveva necessità di 0,63 secondi dal momento in cui il suo cervello percepiva il segnale (auto allineata col frigo) al momento in cui egli premeva il pulsante.

Un tempo di reazione normale è 0,2 secondi. Il tempo di reazione di Brusca è invece tre volte più alto.

La differenza fra i due valori è importante poiché l’auto lanciata a 170 km/h in 0,63 secondi percorre 30 metri. L’auto di Falcone tuttavia non sfiorò neppure i 170 km orari.

Dimostreremo che nel momento fatale essa procedeva a 80-90 km/h e con questa velocità tuttavia il tempo di reazione di Brusca peggiorava le possibilità di successo, l’auto di Falcone a 90 km orari percorre 17 metri in 0,63 secondi (il tempo di reazione di Brusca). tenuto conto che il frigorifero era a 30 metri, dopo 0,63 secondi Falcone avrebbe coperto 17 metri e quindi si sarebbe stato a 13 metri dall’esplosione, cioé alla distanza che poi ebbe la terza auto del convoglio, i cui componenti si salvarono tutti.

Falcone invece fu puntuale sull’esplosione, purtroppo, nonostante l’auto fosse troppo lenta.

Sottolineiamo ora che la pianificazione di Brusca e dei suoi compari presentava un errore grossolano, che la dice lunga sulla loro professionalità: davano per certa la velocità, 170 km/h.

Questo errore è marchiano per almeno tre gravi motivi: 1) quel modello di Croma (blindata per di più) raggiungeva molto difficilmente i 170 km/h; 2) Falcone limitava la velocità a non più di 120 km/h quando viaggiava con la moglie; 3) la velocità non è un parametro fisso, bensì una variabile del tutto incontrollabile da parte dei malviventi, conseguentemente è soggetta soltanto alle imprevedibili scelte di chi guida l’auto.

Pertanto, la congettura “160-170 km/h” era un formidabile e irreparabile errore in partenza. Questo grave errore nella pianificazione fu causato dalla fretta? Difficile dirlo ma sarebbe necessario indagare se fu la fretta a collocare l’attentato nel mentre si eleggeva il presidente della repubblica in Parlamento.

Pregiudizi e Indagini Inconcludenti

Il personale di Stay Behind (c.d. Gladio) era sottoposto a un addestramento accurato, vasto e di ottima qualità. Tale addestramento includeva la pratica e la teoria degli esplosivi. Come mai il sedicente gladiatore non ha fatto cenno alle questioni elementari che abbiamo appena illustrato?

Vedremo che mostrerà imprecisioni ulteriori e più gravi.

L’Autrice e, a suo dire, taluni magistrati requirenti – sulla base delle dichiarazioni del preesunto gladiatore – non di meno sostengono che vi sia stata un’altra manina oltre quella della mafia che ha avuto parte nell’attentato.

Ne è convinto pure il magistrato Giuseppe Ayala, citato dalla Limiti [testo evidenziato giallo].

Secondo un magistrato molto informato, Giuseppe Ayala, il coinvolgimento nelle stragi del1992 dei «Centri occulti di potere» è addirittura «certificato». Due circostanze inoppugnabili, «ossia la cancellazione delle annotazioni contenute nel computer di Falcone e la scomparsa dell’agenda di Borsellino», sono lì a provarlo: «Né l’una né l’altra, infatti, possono ragionevolmente essere attribuite a uomini di Cosa nostra».

Tale affermazione si scontra, per esempio, con la convinzione di Giovanni Falcone, [leggi qui] secondo il quale nel tribunale di Palermo vi era un traditore da individuare. Dato quindi per scontato il “concorso esterno” nel caso di Giulio Andreotti, non si capisce perché non si volle subito sospettare e indagare un concorso vero e proprio da parte di magistrati palermitani che avrebbero avuto la massima e la più agevole disponibilità delle prove da inquinare. Ancora una volta affiora un velo ideologico che devia i ragionamenti, offrendo oggi il destro a ulteriore confusione [leggi qui].

Esaminiamo un altro brano del libro per capire che forse le indagini – come la stessa Autrice ammette – non ebbero bisogno dei complotti di Nato, Cia, massoneria, P2 e via fumigando per arrivare all’incertezza di oggi. [testo evidenziato giallo]

[…] subito dopo la strage, tra le 18 e le 18.30, vennero trovati alla distanza di una sessantina di metri dal centro del cunicolo, in un punto compreso tra il punto dello scoppio e la stradella che conduce al Passaggio della lepre, strani oggetti: un sacchetto di carta bianco che conteneva una torcia a pile, un tubetto di alluminio con del mastice di marca Arexons e due guanti in lattice, evidentemente usati. Chi li aveva utilizzati? E per fare cosa?

I giudici scrivono considerazioni molto interessanti: innanzitutto, notano che quelle cose non possono essere state lasciate lì dal giorno in cui tutto fu predisposto e ultimato, l’8 maggio, perché «Sicuramente le intemperie, frequenti in quel periodo sulla zona, avrebbero determinato la lacerazione del contenitore, che, lo si deve ricordare, era di carta».

• […] Dunque, non potevano essere strumenti impiegati dai killer della mafia. […] perché si sarebbe trattato di una macroscopica distrazione, inconcepibile a fronte dell’emergere dalla descrizione di tutte le operazioni che si sono via via susseguite nel corso dei preparativi, di una meticolosa e puntuale cura nell’evitare che potessero restare tracce delle azioni compiute».

Giustissimo. Domanda: come mai – se quei reperti erano così recenti – nessuno rilevò le impronte digitali e il Dna sui guanti di lattice?

Paradosso: la manina misteriosa c’era davvero

Verso le ultime pagine del libro finalmente affiora un indizio che da solo vale tutte le pagine precedenti ma che l’Autrice non sembra in grado di valutare nella sua reale portata. Il fatto che riferisce è ben più importante di tutte le congetture e le imprecisioni del c.d. gladiatore, che tuttavia non ha ancora finito di fumigare, come vedremo. Leggiamo questo importante brano.[testo evidenziato giallo]

[…]alcuni testimoni hanno denunciato che il giorno precedente, […] era stato notato un furgone Ducato bianco e alcune persone che apparentemente erano concentrate a eseguire dei lavori. Fu anche deviato il corso delle automobili di passaggio, furono usati birilli per spartire il traffico. Lo hanno spiegato i testimoni indicati con i numeri d’ordine 26 e 27, e il loro racconto si riferisce a ciò che videro il 22 maggio 1992, intorno alle ore 12,32 ma il punto è che per Brusca e compagnia non c’è alcuna necessità di lavorare lungo la corsia, il loro lavoro si era concentrato a livello dell’imbocco del cunicolo, al di sotto del livello stradale. E poi loro erano pronti già da tempo. Per di più fu subito accertato che in quei giorni non erano in corso lavori di nessun genere, «né in forma diretta né in regime di subappalto – si legge in un documento della Procura di Caltanissetta – da parte dell’Anas, dell’Enel, della Sip e della Sirti tale da rendere necessario l’impiego di uomini e mezzi rilevati [invece] dalle persone escusse». Dunque, si deve escludere qualsiasi attività di manutenzione stradale, ordinaria o straordinaria, e i giudici d’appello ammettono di non essere stati capaci di «fornire del ritrovamento di quel materiale alcuna interpretazione degna di rilievo giuridico, per cui l’episodio non può assumere alcuna valenza né a favore né a carico degli odierni imputati».

Tanto importante è questo episodio, quanto superficiale e scontata appare l’indagine che si limita a escludere la possibilità di un cantiere «dell’Anas, dell’Enel, della Sip e della Sirti». Nulla si dice circa un’attività di ricerca e di riconoscimento del furgone e delle persone che lo utilizzarono. Ricerca che invece sarebbe dovuta essere sistematica, prolungata, accurata e volta in ogni direzione. Avrebbero dovuto bloccare la Sicilia, censire i furgoni Ducato uno per uno, esigere dagli americani le foto dei satelliti che tengono sotto controllo la “loro” Sicilia. Invece nulla di nulla; si limitarono forse solo a telefonare alle ditte: “Che avevate un cantiere? Ah, no? Va bene, grazie lo stesso”.

Questo è un dato di fatto che rende verosimile una interferenza dopo l’8 maggio, quando l’esplosivo è nel cunicolo, e prima del 23 maggio, giorno dell’attentato.

Che cosa è successo?

Riassumiamo gli elementi sin qui acquisiti e aggiungiamo taluni altri, certificati dall’inchiesta.

  1. Afferma il c.d. gradiatore: «[…]quei poveri scemi piazzati nella casetta sopra la curva dell’autostrada credono davvero di aver compiuto un attentato con tutti i crismi della professionalità degna dei migliori artificieri militari operanti in un teatro di guerra… ma alla fine assomigliano molto alla mia bimba… non si sono accorti che altri, ben più all’altezza di tali situazioni, hanno fatto tutto con grande capacità, lasciando a loro solo l’effimera illusione di essere veri criminali[…]»
  2. La velocità presunta dai mafiosi è di 170 km/h (47 metri al secondo), è grossolanamente errata.
  3. Il tempo di reazione di Brusca col telecomando è di 0,63 secondi.
  4. Questo tempo di reazione determina uno scoppio anticipato o ritardato tale che, quantunque la velocità fosse solo di 100 km/h, l’auto si sarebbe trovata a 13 metri dall’esplosione, determinando il fallimento dell’impresa.
  5. Qualcuno lavorò – con certezza – sul fornello esplosivo il 22 maggio, intorno alle 12,30
  6. La quantità e la qualità di esplosivo, determinate dalla perizia scientifica, sono coerenti con gli effetti ottenuti e con le dichiarazioni dei vari imputati/pentiti/testimoni.
  7. Attenzione: Falcone scambiò in corsa il mazzo di chiavi, circa 300 metri prima del fornello esplosivo, lasciando la macchina in folle – a una velocità iniziale intorno ai 120 km/h (33 metri/secondo) – così determinando un moto decelerato che nei primi 3 secondi abbassa la velocità a 80-90 km/h
  8. Questa decelerazione e il tempo di reazione di Brusca, pari a 0,63 secondi, avrebbero dovuto determinare la posizione di Falcone a 10-12 metri dal muro esplosivo. Essa invece è meno di sei metri ne viene investita: segno evidente che l’impulso esplosivo è stato dato con un tempo di reazione maggiore di 0,1 e minore di 02 secondi, dinamicamente ed efficacemente adattato alla tendenziale decrescenza della velocità.
  9. Il tempismo con cui l’auto di Falcone è comunque coinvolta nell’esplosione presume un tempo di reazione ASSOLUTAMENTE NON coerente con quello di 0,63 secondi più volte sperimentato da Brusca.
  10. Questo tempismo – quantunque sfuggito all’analisi della Limiti – è quindi un indizio molto, davvero molto forte che l’impulso esplosivo non sia in realtà partito da Brusca.

Gli esperti che hanno presumibilmente lavorato sul fornello esplosivo il 22 maggio 1992, alle 12.30, si erano resi conto dell’errore grossolano di Brusca nel presumere una velocità di 160-170 km/h.

Costoro hanno quindi deciso di rimediare, ma non di certo potenziando la quantità di esplosivo, come sostenuto dall’Autrice. Quand’anche raddoppiata la quantità di esplosivo, gli errori sullo spazio/tempo non avrebbero dato scampo.

Le capacità potenziali di un tiratore/killer possono essere di una raffinatezza inimmaginabile, con un tempo di reazione prossimo a 0,1 secondo, se vi sono stati addestramento e formazione peculiari, tali che Brusca non possedeva affatto. Il suo tempo di reazione – come abbiamo più volte ripetuto – era di 0,63 secondi, certificato da lui medesimo.

Insomma Brusca è, come tanti del suo genere, un volgare sicario e null’altro di più, capace di sparare alle spalle a bruciapelo, su una vittima inerme. Nulla di più.

D’altro canto, lo ripeto, la quantità di esplosivo è certificata.

L’unica spiegazione che rimane pertanto per spiegare la puntualità dell’auto di Giovanni Falcone è che sia stato manipolato l’innesco, l’unica possibile operazione da potersi fare in pieno giorno, alle 12,30 da quanti – rimasti ignoti – gravitavano intorno al furgone bianco, nei pressi del fornello esplosivo.

Forse quegli individui del furgone erano già intervenuti in precedenza per evitare scoppi fortuiti (evento possibile con un circuito di quel genere, esposto alle onde radio) ma non furono notati poiché l’esplosione avvenne numerosi giorni dopo e mancò dunque nei testimoni – a differenza di quelli del giorno priuma – la possibilità di correlare i due eventi.

Questi individui il 22 maggio possono avere fatto i seguenti passi:

  1. Tagliare i fili del circuito predisposto dai mafiosi
  2. Introdurre un altro innesco con esplosivo fortemente detonante (nitroglicerina?).

Il giorno successivo, 23 maggio, erano sul lato della montagna, a una quota più alta di quella dei mafiosi, con ottiche molto potenti, in grado di seguire con chiarezza e costanza il moto delle auto.

Il killer ha quindi dato l’impulso radio, prima puntando l’auto di Falcone, poi “sparando” l’impulso con tempestività, grazie al suo ottimo addestramento da killer/tiratore professionista, in grado di elaborare lo spazio/tempo con lucidità, continuità e freddezza, operando col minore margine di errore possibile, mentre i dati di movimento del convoglio mutavano in continuazione a causa della sostituzione delle chiavi operata in corsa da Falcone e della conseguente decelerazione del velivolo.

Giustiziamo ora un altro dettaglio messo maliziosamente in evidenza dal c.d. gladiatore: la presenza nel cielo della strage di un velivolo, piper o elicottero che fosse. Oggi non si può escludere che fosse un volo non autorizzato e tuttavia innocente, il cui pilota, resosi conto dell’attentato, non ha voluto esporsi alle pesanti sanzioni sulla sua condotta che sarebbero conseguite alla sua testimonianza.

Se invece il velivolo aveva a bordo dei delinquenti interessati alla strage, solo chi non ha alcuna dimestichezza col volo di un piper o di un elicottero può presumere che da bordo di un tale mezzo si possa sparare un impulso radio con l’accuratezza indispensabile tale da attivare tempestivamente un telecomando. È un dato di fatto sperimentale che da quei velivoli è impossibile l’apprezzamento delle distanze e la gestione dello spazio/tempo per un attentato come quello a Falcone.

Domanda: come mai il c.d. gladiatore, dotato di un addestramento militare raffinato ed esteso alla dimestichezza col volo, su aereo e su elicottero, così come agli esplosivi e agli inneschi, come mai costui offre delle informazioni deformate, intossicate, devianti e – per quanto concerne il velivolo – in sintonia con le tesi di Totò Riina?

Allora, diradati i fumi, solo il doppio innesco s’adatta al racconto della “doppia canna”, offerto all’autrice dal “gladiatore”, indipendentemente dal fatto che costui sia o meno quello che dice di essere e abbia detto effettivamente quanto a sua conoscenza.

Troppi anni sono tuttavia inutilmente trascorsi per poter sperare di arrivare alla prova definitiva.

I “misteri d’Italia” sono spesso l’esito d’una procedura investigativa più attenta alle sollecitazioni giornalistiche, non sempre disinteressate, che all’oggettività dei fatti e al rispetto delle procedure.

Si trascurano in tal modo elementi importanti, avvinghiandosi a dettagli marginali.

Quando, a distanza di molti anni, ci si avvede di incongruenze investigative, si evocano misteri, depistaggi e strutture parallele, solo per fare velo a mera incapacità, negligenza e, altrettanto spesso, amore per il quieto vivere in vista di altri incarichi.

Giovanni Brusca non è innocente, ma le responsabilità delle Istituzioni e del giornalismo italiani non appaiono meno lievi.

Ribadiamo quindi che è necessario rintracciare quel c.d. gladiatore che dice e non dice e, quando dice, confonde. L’Autrice deve/può nascondersi dietro il segreto professionale.

Non di meno il c.d. gladiatore, se davvero è tale, appartiene ai servizi segreti e, come si sa, la legge guarda con attenzione alla collaborazione fra giornalisti e servizi, tanto più se l’Autrice (come conferma la sua lettera, leggi qui) è acritica col c.d. gladiatore, gli scopi del quale sono comunque da approfondire, visto che le sue parole non appaiono aderenti alla verità.

Il c.d. gladiatore – se ancora esiste – è facile trovarlo. Se un magistrato è interessato, siamo pronti a spiegargli come fare. A meno che tutti i magistrati, proprio tutti, gradiscano questo libro così com’è; in tal caso sarebbe un’altra storia.

Piero Laporta
Fonte: www.pierolaporta.it
Link: http://www.pierolaporta.it/capaciditutto-2/
13.05.2013

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