DI MARINELLA CORREGGIA
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Bolivia e Libia, due paesi quasi agli
antipodi. Eppure… hanno qualcosa in comune? Sono vittime di un gioco
imperialista analogo? Certo, nel caso della Bolivia non si potrebbero
usare i missili della NATO: sarebbe difficile inventarsi un genocidio
come casus belli, visto che non è morto nessuno nella contesa
del Tipnis (vedi oltre); e poi salvo la destra ultraminoritaria, in
Bolivia e in America Latina nessuno chiede né accetterebbe l’intervento
militare estero, mentre lo chiedeva a gran voce il CNT di Bengasi, nel
silenzio del mondo arabo circostante frastornato dalla primavera. (Alla
destra boliviana le bombe NATO andrebbero anche bene: il giornalista
Juan Carlos Zambrana Marchetti ha visto a Washington una piccola manifestazione
di boliviani con poster che dicevano “Mubarak, Gheddafi e il prossimo
è Morales”).
Ma non c’è sempre bisogno di bombardare
un paese per destabilizzarlo. Un articolo
di Ollantay Itzamnà avanza
qualche ipotesi di somiglianza: anche in Bolivia il “metodo libico”,
cioè il sostegno capitalista e occidentale a “rivoluzioni” interne,
sembra poter trovare qualche riscontro. La marcia degli indigeni delle
terre basse organizzati dalla CIDOB (Confederazione dei popoli indigeni
dell’Oriente boliviano) contro la costruzione di una strada nel parco
del TIPNIS (Territorio indigeno e parco nazionale Isidoro Secure),per
lo schieramento nazionale e internazionale di forze si è trasformata
in qualcosa di diverso dalla difesa di Madre terra contro un “presidente
indio che ha tradito”. In sé chi protesta contro la strada avrebbe
tutte le ragioni obiettive; probabilmente ci sono alternative ben più
sostenibili e lo stesso compatibili con la necessità di lottare contro
la povertà, senza ferire la natura. Ma “dimmi chi ti appoggia e ti
dirò in che direzione vai”. E il governo boliviano, oltre a essersi
scusato ripetutamente perché la polizia ha usato i gas lacrimogeni
contro i manifestanti, fatto certo grave ma avvenuto senza alcun ordine
governativo (e simili scuse si sono mai sentite in Italia o negli USA?),
ha fornito le prove di contatti fra capi indigeni e ONG statunitensi.
Ma veniamo alle analogie fra le due
dinamiche che i potenti del mondo mettono in atto in Libia e ora in
Bolivia.
La demonizzazione linguistico-contenutistica
di Gheddafi e di quello che era l’esercito libico è stata totale
e ha raggiunto picchi incredibili, eppure creduti. C’è stato un concorso
di media internazionali (in prima linea le tivù satellitari
arabe, soprattutto al Jazeera), ma anche di ONG per i diritti umani
(quelle finte, come le libiche che a febbraio spararono la menzogna
dei diecimila morti nella repressione delle “pacifiche proteste”;
e quelle vere, che però non si sono mostrate imparziali), e degli stessi
“movimenti altermondialisti” occidentali. Ebbene, Evo Morales non
è ancora demonizzato (sarebbe obiettivamente arduo! Oltretutto, nemmeno
un morto nella protesta; gli oppositori hanno provato a tirarne fuori
qualcuno dal cappello a cilindro, senza successo). Ma certo molti di
quegli altermondialisti che dall’alto del loro status di globe
trotter (che mantengono, anche in tempi di crisi, grazie al sostegno
che ricevono da fondazioni e governi) l’avevano eletto a simbolo di
“un altro mondo possibile”, della lotta contro un capitalismo predatore
e inquinante (del quale però si sono sempre avvalsi facendo parte degli
“alternativi privilegiati” in Occidente o delle élite del Sud globale),
per Madre Terra e per il buen vivir, e per la giustizia climatica,
ebbene gli hanno tolto l’aureola. Gli scrivono lettere indignate (l’indignazione
è di moda) o addolorate e promuovono su Avaaz (che non accettò alcuna
petizione contro la guerra in Libia) una petizione internazionale che
ha raggiunto in pochi giorni centinaia di migliaia di firme, molte in
occidente, c’è da giurare. Adesso Evo il santo è diventato un fratello
indigeno che ha tradito “il suo stesso popolo” (come Gheddafi –
mai considerato santo – era accusato di uccidere “il suo stesso popolo”).
Evo è “intrecciato” alla
Libia anche da un’altra colpa, benché meno grave di quella di Hugo
Chavez del Venezuela: la Bolivia fa parte di quel gruppo di paesi dell’Alleanza
bolivariana per la nostra America (ALBA) che fin dall’inizio della
crisi libica ha proposto una mediazione di pace purtroppo ignorata dagli
altri stati, e dai movimenti. Sempre i paesi dell’ALBA non hanno riconosciuto
gli attuali padroni della Libia, gli alleati libici della NATO (il CNT
dell’Abdel Jalil il quale dichiara a La Russa che il colonialismo
è stato abbastanza bello mentre Gheddafi era del tutto brutto). Non
solo: i paesi dell’ALBA tramano alle spalle del capitale finanziario
internazionale come tramava la Libia. Anch’essi propongono una politica
finanziaria autogestita regionale, svincolata dal Fondo Monetario Internazionale
(la Libia non aveva debito con esso), e perfino una moneta autonoma
per gli scambi fra di loro (la Libia propose il “dinaro d’oro”
al mondo arabo e agli africani). Anche l’insistenza sulla sovranità
energetica e sul tenere la mano statale sul petrolio e sul gas, praticando
una politica di royalties elevate, mette i paesi dell’ALBA
fra i cattivi, come la Libia. Per non dire della loro molesta abitudine
a parlare di imperialismo e a criticare perfino il santo Obama. Infine
Evo Morales ha l’aggravante di essere davvero scomodo nei negoziati
sul clima, banco di prova della totale indisponibilità dei paesi ricchi
(tuttora grandi emettitori di gas serra, anche se in crisi) a qualunque
cambiamento.
Ovviamente non c’è nulla in comune
fra gli indigeni amazzonici che si oppongono ai progetti del governo
e gli alleati libici della NATO, un Frankenstein formato da un po’
di islamisti senoussiti, un po’ di assistiti dalla CIA, un po’ di
tifosi del colonialismo italiano. Ma “dimmi chi ti appoggia e ti dirò
dove vai”: sia i primi che i secondi hanno avuto rilevanti sostegni
esterni. I boliviani da parte di ONG internazionali e della stessa USAID
(per esempio, spiega il sito Bolivia Rising, i gruppi Citpa,
Cpilap e Cabi, tutti parte del Cidob). I libici armati sono stati protetti
come e più dei bambini inermi dalle bombe della NATO, foraggiati in
armi e denaro dal Qatar e dall’Arabia Saudita, addestrati da Francia,
Gran Bretagna, Usa e Qatar.
Un’altra analogia: tanto i gruppi
indigeni del TIPNIS che gli alleati libici della NATO hanno sempre rifiutato
ogni trattativa, consultazione e tentativo di mediazione. Sanno di avere
il potere costituito dalla loro parte? E anche nella zona considerata
dal progetto, non tutti gli indigeni sono d’accordo: altri gruppi
pensano che l’utilizzo delle risorse naturali del paese sia necessario
per far uscire molte persone dalla povertà assoluta. Oltretutto Morales
ha promesso che qualunque deforestazione sarà punita molto severamente.
E siccome non siamo in Italia, può succedere davvero.
E in effetti proprio questo è
il punto. Come riassume un equilibrato articolo della agenzia stampa
Adista, citando diversi commentatori latinoamericani, la vera questione
di fondo, e non certo solo per il Paese andino è questa: “È
possibile conciliare un modello a bassa crescita economica con la soddisfazione
delle necessità di base di tutta la popolazione?” Insomma: può
un paese povero che tutela Madre Terra uscire dall’economia estrattiva
e al tempo stesso dalla miseria delle masse? È un dibattito centrale.
Ma certo non deve stare nelle mani di privilegiate ONG occidentali che
certo nella loro vita e nel loro lavoro non prescindono affatto dall’economia
estrattiva. Anzi. Da che pulpito!
Materie prime: se la Libia ha il petrolio
più leggero e accessibile del mondo, la Bolivia ha le maggiori riserve
di litio, minerale fondamentale per l’economia futura.
A proposito di Obama. Per celebrare
i sei mesi di guerra NATO in Libia, il Premio Nobel per la pace 2009
ha tenuto all’assemblea dell’ONU un discorsetto in cui vantava l’intervento
in Libia come modello di azione per il futuro relativamente a situazioni
difficili. Un modello riuscito per via di quel mix di “sanzioni collettive,
protezione militare e assistenza umanitaria”: “Ecco come la comunità
internazionale dovrebbe lavorare in questo XXI secolo: varie nazioni
insieme si assumono la responsabilità
e i costi delle sfide globali”; “in effetti,
è proprio l’obiettivo delle Nazioni Unite. Dunque, ogni nazione qui
rappresentata oggi può inorgoglirsi per aver salvato vittime innocenti
aiutando i libici a riprendersi il paese. Era la cosa giusta da fare.”
La cosa giusta: una guerra basata su false accuse di genocidio, che
di corsa hanno partorito una risoluzione ONU (“per la protezione
dei civili e delle aree popolate da civili minacciate di attacco”)
che di corsa ha spinto la NATO a cogliere la bomba al balzo, poche ore
dopo. Dunque se Obama dice che quello giocato nel deserto libico è
un buon modello, perché non adattarlo alle varie geografie, anche a
quelle andine?
I piani di destabilizzazione da parte
degli USA in America latina sono noti e i regali avvelenati dell’agenzia
USAID non sono riservati ai soli oppositori cubani. Adesso i piani Usa
possono anche giovarsi dei social network e di Internet. La destabilizzazione
non ha bisogno sempre di bombe. In Bolivia i media internazionali,
le reti sociali e diverse ONG fanno ricorso a quella che alcuni chiamano
“guerra di quarta generazione”: costruire con informazioni tendenziose
un immaginario collettivo e sensibilità sociali contrarie al governo
di volta in volta nel mirino. Al centro di tutto: i “diritti umani
violati”.
Un’altra similitudine fra Libia e
Bolivia è in… Al Jazeera. La tivù satellitare qatariota ha
giocato un ruolo fondamentale nel favorire la guerra della Nato, avallando
o alimentando le menzogne avanzate dai cosiddetti “ribelli” libici
(tanto da provocare diverse dimissioni). Ebbene Al Jazeera (almeno la
versione inglese) si è interessata molto ai “ribelli” indigeni
del TIPNIS. Anche lì schierandosi apertamente. Contro il governo boliviano.
Marinella Correggia
16.10.2011