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La Redazione

 

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ASPETTANDO LA RIBELLIONE

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A cura di Das schloss
Il 16 Ottobre 2006
170 Views
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DI FRED REED
Iraqi Solidarity Campaign

Qualcuno si domanda: quando cominceranno gli ammutinamenti tra le truppe in Iraq?

Recentemente, tramite e-mail, ho parlato della guerra con Jim Coyne, un amico del reggimento aereo che prestò servizio per due anni come artigliere in Vietnam e che poi intraprese la carriera giornalistica. Gli domandai: “Realmente loro (intendo i corpi ufficiali, gli ufficiali dell’esercito) credono ai discorsi ottimistici che si sentono? Veramente non sanno cosa sta accadendo?”

La risposta di Jim: “ Io credo veramente che non lo sappiano; e che non lo vogliano sapere. Come me, tu sai benissimo che questa è gente rivolta alla missione; gente che dice sempre di poter fare tutto; non accetta il fallimento, e tutte le sue sfaccettature, tra le possibili opzioni. E, infatti, in un mondo di missioni e di tattica le nostre truppe non falliscono spesso. Però, in un mondo di strategie politico militari come il Medioriente e l’Iraq, semplicemente non possiamo vincere.”
“Di nuovo, come in Vietnam, gli ufficiali in carriera salutano e marciano verso il suono della guerra. Alla fine comunque, e non manca molto, dai malumori comincerà la rivolta, prima lentamente (come fu per il 101esimo reggimento alla fine del 1968 “Nossignore, non saliremo su quella collina di nuovo”) e poi velocemente ( come accadde nel 1973 “Vaff****lo str**zi”).
E quel giorno i Media, seguendo il vento, porteranno gli eventi ad una crescita esponenziale fuori controllo.”

E così penso anch’io.

Ci sono due versioni nettamente diverse sull’Iraq. La prima ha come fonte gli ufficiali: sostiene che l’esercito sta facendo progressi e che gli insorti stanno perdendo terreno.
Sostiene anche che il popolo iracheno ci ama e accoglierà i benefici che noi gli porteremo, che i crescenti attacchi degli insorti sono segni di disperazione e che la situazione sembra messa male solo perchè i Media enfatizzano il negativo.
Gli ufficiali vedono la luce e la fine del tunnel. “Il conto dei morti è significativo, “il Cattivo” non può più incassare i colpi che sta subendo. Stiamo andando avanti, stiamo arrivando in cima.”

La seconda versione proviene dai semplici soldati (e da tanti giornalisti, prima che fossero costretti a dire ciò che pensa l’editore). Questi asseriscono che gli iracheni ci odiano, e noi odiamo loro.
Che l’insurrezione sta diventando sempre più forte, che noi non stiamo facendo progressi e che, anzi, stiamo regredendo e le nostre tattiche non funzionano e non vinceranno.

Questa situazione è così frequente nelle guerre recenti da essere, ormai, di routine. I semplici soldati dicono che gli USA stanno perdendo. Gli ufficiali non lo sanno o fanno finta di non saperlo. E questo avrà delle conseguenze.

Quando gli uomini muoiono inutilmente in una guerra che sanno di non poter vincere e che non significa niente per loro, quando realizzeranno che stanno morendo per l’egoismo di politici che, al sicuro a Washington e che evitano il servizio militare, si ribelleranno.
È già successo in passato e succederà ancora. Ma quando? L’anno prossimo, spero.

È importante capire che gli ufficiali e i semplici soldati sono animali profondamente diversi. I soldati prendono parte alla vita di tutti i giorni (fanno benzina, riparano elicotteri…), mentre gli ufficiali sono soprattutto amministratori. La differenza più importante è psicologica: i soldati sono operai e tecnici; non portano che un piccolo carico ideologico. Vogliono rifornire la tanica o finire le esercitazioni e poi andare a prendere una birra e riposarsi.

Ma soprattutto sono realisti: se il nuovo progetto non funziona, se Baghdad si rivela essere un incubo tatticamente irrisolvibile, sentono ben poco la voglia di continuare a fingere.
Ecco perchè agli alti ufficiali, invece, non piace che i giornalisti rimangano soli con le truppe. E non permettono che ciò accada.

La risposta standard dei corpi ufficiali è che le truppe non possono vedere il “grande quadro”
(a meno che, ovviamente, i soldati non vogliano dire ciò che agli ufficiali fa comodo, in quel caso la presenza di giornalisti sul campo acquista un’autorità irresistibile).
Ma il “grande quadro” è formato dai “piccoli quadri”. Se un soldato vede disastri nella sua zona, e sente le stesse cose dai ragazzi di altre regioni che incontra, le sue conclusioni non resteranno senza peso. Presto o tardi, al suo terzo turno, con una moglie ansiosa a casa e sette amici uccisi dalle bombe, lui dirà, nel crudo ma espressivo linguaggio dei soldati: “ma andate aff****lo!”.

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[Tra gli ex soldati, veterani del vietnam o delle guerre del golfo, cresce la protesta contro l’amministrazione Bush. I disertori dell’attuale guerra sono già oltre 5000]

Nonostante questo, gli ufficiali non possono che essere positivi.
Ci sono molte ragioni.
Gli ufficiali in carriera per prima cosa sono politici: non otterrebbero mai una promozione se affermassero che i loro superiori sono degli incapaci. La lealtà di un ufficiale è verso la sua carriera e verso il corpo ufficiali, non certo verso la nazione o le sue truppe. Se vi suona polemico, provate a notare quanto raramente un ufficiale in servizio attivo criticherà la politica. Quando andrà in pensione egli potrebbe scoprire improvvisamente che i giochi politici ebbero come risultato la morte immotivata di truppe. Oh? Ma allora perchè non lo ha detto prima quando avrebbe potuto salvare delle vite?

Tra gli ufficiali c’è una curiosa morale codarda: loro volano verso pericolose missioni a Baghdad ma non diranno mai che le cose non stanno andando bene. Non andranno mai contro il branco.

Inoltre, e lo dico coscienziosamente, gli ufficiali spesso non sono abbastanza adulti. Possono essere (e spesso lo sono) eleganti, competenti, impegnati e fisicamente coraggiosi, e alcuni sono eccessivamente “duri”. Ma hanno un modo di pensare molto semplice, un’avversione per qualsiasi tipo di introspezione, anche basilare, un fare infantile come se fossero dei bambini che giocano ai soldati.

Tanti creduloni entrano nel mondo degli ufficiali.
I soldati, cresciuti su campo, vedono le cose come realmente esse sono. Gli ufficiali, invece, si rifugiano nel loro mondo del comando.

Bisogna notare l’enfasi pesante dei militari, intendendo il corpo ufficiali, nelle cerimonie e nei rituali. Sono “cose da ragazzi” per adulti.
Tremila uomini che costruiscono un grattacielo lo mostrano, fanno il loro lavoro e vanno a casa. Le forze armate vogliono i loro uomini sull’attenti nelle piazze, al centro dell’attenzione, in mostra, con i galloni perfettamente lucidati. Vogliono musiche che siano eccitanti, eleganti saluti, evocativi “Sissignore, sissignore, tre borse piene signore.” Tutto questo viene giustificato come necessario per la disciplina. Non lo è. Un vero sergente non ha difficoltà a mantenere la sua autorità senza tanto spettacolo.

Gli ufficiali mi ricordano dei “Moonies” [ termine per indicare i membri del “Sun Myung Moon’s” Movimento di Unificazione della cristianità nel mondo. Ndt] armati. C’è la stessa sincerità, lo stesso deliberato ottimismo politico. Le cose vanno bene perchè la dottrina dice che è così. Un ufficiale è ideologicamente ottimista come il “Reader’s Digest” [famoso mensile di attualità fondato nel 1922 da Dewitt Wallace e Lila Acheson Wallace,. Ndt], e altrettanto incosciente.
Ecco perchè non imparano, perchè gli USA colpiscono ripetutamente cercando di combattere i calabroni con una pistola per elefanti. “Sissignore, posso farlo signore”. Non è vero, qualche volta è possibile, talvolta no. Non è arroganza, semplicemente è più come credere alla gravità.

E così oggi sentiamo frasi irreali che incarnano il vecchio “urrà!”:
“Non c’è alternativa alla vittoria!” o “Il difficile è presto fatto; l’impossibile prende solo un pò più di tempo” o “La sconfitta non è tra le nostre opzioni”.
In realtà, di tanto in tanto questa è inevitabile.

Penso che Jim abbia ragione. Presto o tardi, un’unità non andrà sulla collina di nuovo. E lì sarà la fine.

Fred Reed
Fonte: http://iraqsolidaritycampaign.blogspot.com/
Link
04.10.2006

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SILVIA GANDOLFO

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