FONTE: Geopoliticamente
Gli interessi della speculazione
dietro gli oracoli della finanza mondiale
Moody’s, Standard & Poor’s
e Fitch continuano ad abbassare la valutazione del debito dei Paesi
in crisi, mettendo a rischio non solo stabilità dell’Eurozona ma
la sua stessa esistenza.
L’ultimo assalto è avvenuto perché
gli Stati europei avevano osato pensare a una partecipazione volontaria
delle istituzioni finanziarie private (banche, assicurazioni, fondi
di gestione, eccetera) al salvataggio della Grecia, il cui fallimento
è dato quasi per certo. Una soluzione alla quale le tre Parche del
rating hanno imposto il loro veto con un’ecatombe di declassamenti (qui i rapporti esplicativi), alimentando così
il clima di nervosismo dei mercati finanziari.
Che le agenzie di rating siano venute
meno ai loro compiti di fornire un’informazione corretta è ormai
un sospetto molto diffuso. Benché il rating sia un servizio
importante fornito agli investitori, in realtà nel tempo è diventato
un meccanismo poco trasparente e monopolizzato dalle tre grandi società
che oggi si accaparrano il 95% del mercato. Il settore è oggi uno dei
più segreti e sconosciuti al mondo, ma anche uno dei più redditizi,
se pensiamo che negli ultimi tempi i profitti delle agenzie si
sono spinti fino al 50% del loro giro d’affari (1,3 miliardi di euro
per S&P’s nel 2010).
Anche se le agenzie rispondono che
fanno il loro lavoro e che il mercato non ha bisogno di loro per farsi
un’opinione, due
studi (uno del FMI, l’altro
della BCE) dimostrano la loro responsabilità diretta nell’attuale
instabilità finanziaria. In entrambi casi la conclusione è che i ripetuti
downgrading hanno un effetto diretto sugli investitori, che chiedono
automaticamente dei tassi di interesse più alti in ragione del premio
di rischio. Spesso queste agenzie seguono le paure del mercato, ma talvolta
le anticipano, creando delle previsioni che si autoavverano. Mobilitando
diverse decine di miliardi di euro per mettere interi Paesi (Grecia,
Irlanda e Portogallo) al riparo da un fallimento peraltro non ancora
scongiurato. In un mercato integrato come quello dell’euro, questi
declassamenti hanno un effetto destabilizzante sull’insieme degli
altri Paesi, compresi quelli dell’esclusivo club della tripla A.
Da un punto di vista storico, i dati
devono far riflettere. Per anni le agenzie hanno sistematicamente ignorato
i problemi strutturali legati alla bolla immobiliare USA e alle economie
periferiche europee, nonostante da tempo mostrassero segni inquietanti. Questa lunga analisi del Sole 24 ore ricostruisce
nel dettaglio il caso greco. Ai primi di dicembre 2009 un report di
Moody’s scriveva ancora che i “timori degli investitori sulla
Grecia erano malposti”. Solo dopo che il governo di Atene ha ammesso
di aver mentito sulla portata del debito greco, è cominciato il ciclo
di declassamenti. Un allarme più tempestivo avrebbe potuto ridurre
il flusso di denaro investito verso Atene ed evitare così il super
haircut del 50% deciso il 26 ottobre a Bruxelles, che oggi costerà
100 miliardi di euro di perdite nei bilanci della maggiori banche del
mondo.
Sulla Grecia Moody’s si è difesa
dicendo che la sua estrema prudenza è stata determinata dalla convinzione
che l’ingresso di Atene nella zona euro avrebbe evitato per sempre
qualsiasi ipotesi di bancarotta. In compenso l’agenzia ha percepito
cifre varianti da 330.000 a 540.000 dollari ogni anno per dare il
rating al debito pubblico ellenico.
E poi ci sono gli altri casi consegnati
agli annali. Lehman Brothers, che ha mantenuto la tripla A fino al giorno
stesso del fallimento. Enron, anch’essa tripla A fino ad un secondo
prima del collasso. Il downgrading degli Stati Uniti, dovuto
a un errore di 2.000 miliardi di dollari nelle stime di riduzione del
debito e motivato da affermazioni politicamente molto orientate alle
critiche del Tea Party. Il downgrading della nuova Tunisia, proprio
il giorno dopo la cacciata di Ben Alì. In ultimo gli Eurobond, affondati
prima ancora di vedere la luce (se mai la vedranno) perché marchiati
da un voto basato sulla più bassa valutazione del credito tra quella
dei Paesi partecipanti – se fossero garantiti per il 27% dalla Germania,
per il 20% dalla Francia e per il 2% dalla Grecia, il rating sarebbe
CC, quello della Grecia.
Gli infortuni delle agenzie hanno contribuito
ad innescare quel disastro finanziario del 2008, costato finora ben
7.700 miliardi di dollari di finanziamenti della Federal Reserve
allo 0,1% di interesse alle grandi banche americane, secondo quanto
ricostruito da Bloomberg. Dopo aver affondato l’economia americana,
ora pare che le agenzie vogliano la pelle dell’euro, unendo così
in un unico tragico destino le due sponde dell’Atlantico
La questione del controllo delle società
di rating si lega strettamente a quella del (presunto) anonimato dei
cosiddetti “mercati”. A prima vista, infatti, la speculazione appare
un fenomeno fisiologico, insito alla natura stessa della finanza e dovuto
all’azione congiunta della generalità degli investitori; in realtà
dietro le quinte si celano nomi e volti. Sempre gli stessi.
Questo articolo del Fatto quotidiano ricostruisce l’azionariato delle tre sorelle del rating. Ufficialmente S&P’s e Moody’s sono imprese ad azionariato diffuso: in teoria le azioni sono in mano “ai mercati”; in concreto salta all’occhio come Capital World Investors, State Street Corporation e Vanguard Capital controllano, da soli, il 20% circa delle agenzie in questione – e dunque, una buona fetta del mercato del rating (79%) in mano alle due società. I tre fondi citati detengono, in parti quasi uguali, all’incirca 5.000 miliardi di dollari di AUM (assets under management: il valore di mercato delle attività che una società d’investimento gestisce per conto di investitori). E dire che qui in Italia chiunque raggiunga il 2% in una banca deve segnalarlo alle autorità di vigilanza. Apprendiamo dunque che esse sono di proprietà di alcuni tra i maggiori fondi d’investimento al mondo: gli stessi grandi investitori che non esitano ad attaccare Stati e imprese quando le voci di possibili downgrade cominciano a diffondersi.
Senza scadere in teorie cospirazioniste o similari, appare evidente come, a livello internazionale, i gradi di separazione tra i vari attori della finanza siano davvero pochi.
Alcuni scienziati (non economisti), attraverso un’analisi meramente quantitativa fondata sull’esame delle interrelazioni tra i vari enti
finanziari, hanno sostenuto in un controverso che il mondo intero sarebbe controllato da un ridottissimo numero di fondi. Una conclusione contestata dall’economista Yves Smith, che ha obiettato i risultati della ricerca, trascurandone tuttavia i pregi. Ad ogni modo, basta dare un’occhiata in giro sul web per rendersi conto di come nel capitale sociale di banche (tre su tutte: Bank of America, Citigroup e JP Morgan) o imprese di una certa rilevanza si annidino sempre gli stessi azionisti: Fidelity, Capital World, State Street Corporation, Vanguard, Invesco, AllianceBernstein, BlackRock, Neuberger Berman, Bank of New York Mellon Corporation, Northern
Fund.
È vero che molte di queste connessioni sono diluite in azionariati diffusi, ma se un fondo come Vanguard detiene anche solo il 2% del capitale di un’impresa italiana e una quota analoga o maggiore in quello di un’azienda americana che opera nello stesso settore è difficile pensare che le sue strategie d’investimento si manterranno neutrali nei confronti della prima. E quale migliore strumento del rating per influenzarne quotazione e redditività?
Tale sospetto trova conferma nella
tempistica, chiaramente studiata a tavolino, con cui i giudizi vengono
pubblicati. Si veda il timing con cui è arrivata la bocciatura della
Francia e degli altri Stati (Italia compresa) da parte di S&P’s,
ossia il giorno dopo le comunicazioni della BCE, diramate proprio allo scopo di
placare gli umori.
Ecco spiegata la potenza delle tre
agenzie.
A questo punto non è difficile
intuire perché la cricca del rating pare accanirsi tanto con l’Italia.
Non potendo centrare l’obiettivo dichiarato da Obama di raddoppiare la crescita
dell’export entro i prossimi quattro anni, un eventuale default dell’Italia
rappresenterebbe un’occasione di ripresa per l’economia americana
in virtù del banchetto di privatizzazioni e svendite di asset che ne
conseguirebbe. Se guardiamo le aziende, Eni è il quinto gruppo petrolifero
al mondo per giro d’affari; Finmeccanica è il settimo nel settore
della difesa. Il che si traduce ogni anno in lauti flussi di dividendi.
In più ci sono le oltre 2400 tonnellate d’oro che fanno delle riserve
auree italiane le quarte al mondo per dimensioni, sulle quali la speculazione
ha messo gli occhi già da tempo.
La tavola è già imbandita,
e gli avvoltoi già in volo.
19.01.2012