AL SERVIZIO DI MADRE TERESA: MEMORIE DI UN VOLONTARIO RIBELLE

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blankDI MICHAEL DICKINSON
Counterpunch

Se due celebrità muoiono a pochi giorni di distanza, è inevitabile che i media riservino una maggiore attenzione ad una piuttosto che all’altra. Nella stessa settimana, di dieci anni fa, morivano due donne molto famose: una principessa ed una suora.

L’attenzione dei media sulla morte di Madre Teresa di Calcutta è stata sicuramente grandissima. Tuttavia, sarebbe stata persino più grande se la stampa non si fosse freneticamente gettata poi sull’improvviso shock destato dalla morte della Principessa del Galles a causa di un incidente stradale. La morte di Madre Teresa è stata pertanto sminuita da quella di Lady Diana.

Il tempo cambia la prospettiva delle cose, in particolare una ricorrenza e, adesso, con gli occhi senza lacrime, le prime pagine del Time mostrano non più il delizioso volto di Lady D. bensì il viso rugoso di Madre Teresa. Perché? Un nuovo libro, in uscita questa settimana, Mother Teresa: Come Be My Light (Doubleday), contiene alcune lettere private della candidata Santa, secondo cui ella avrebbe trascorso gli ultimi giorni della sua vita spirituale nell’oscurità, dubitando sull’esistenza del Paradiso e di Dio.

Nel 1979, verso i tent’anni, ho fatto un viaggio da Londra a Calcutta per lavorare come volontario dell’organizzazione fondata da Madre Teresa, le Missionarie della Carità. Ho lavorato con i confratelli dell’ordine presso le loro strutture di Nabo Jibon, nell’area di Howrah. Sono stato lì alcuni mesi e, in quell’occasione, ho perso le ultime vestigia di qualunque fede avessi mai riposto nella Chiesa Cattolica.

Di seguito, alcune righe tratte dal mio diario durante quei giorni:


Madre Teresa ha vinto il Premio Nobel per la Pace! “Per il suo impegno nella battaglia contro la povertà e la sofferenza, minacce anch’esse per la pace nel mondo”. Dinanzi ad un simile riconoscimento, lei ha semplicemente risposto: “Non ne sono degna”. Cosa che ha destato il nostro unanime piacere, poiché ciò vuol dire che più persone si renderanno maggiormente conto della sua opera e del suo valore.

Ai fratelli è stata concessa una vacanza speciale per raggiungerla e potersi congratulare. Abbiamo lasciato Padre Vinander ed un altro paio di fratelli più anziani a guardia del forte, per così dire, e ci siamo recati alla Casa Madre in Lower Circular Road, a bordo di una vecchia ambulanza e intonando gioiosamente alcuni vecchi canti tra i nostri preferiti quali “He’s got the Whole World in his Hands”, “Michael Row the Boat Ashore” e “My Bonny Lies over the Ocean” .

Al nostro arrivo, troviamo alcuni giornalisti che intervistano Madre Teresa. Abbiamo pertanto dovuto aspettare un po’. La porta del suo ufficio è aperta e possiamo osservare la sua figura, nell’abito blu e bianco, seduta alla scrivania. Il sari cattura la luce e risplende nell’oscurità.

Una Sorella si sporge lievemente per dirle che i Fratelli sono arrivati. L’intervista viene interrotta e lei esce dalla stanza.

Appare talmente piccola ed esile, che potrebbe stare in una mano ed entrare in una tasca. Le rughe del volto sono ancora più accentuate dalla sua espressione. E’ felice di vederci. Dopo qualche parola amichevole in indi, ritorna dai giornalisti.

Malgrado i pochissimi minuti trascorsi insieme, e seppure non si sia personalmente rivolta a me, avverto ancora in modo molto forte la sua presenza. Dopotutto, lei è la ragione per la quale sono qui.

Ci svegliamo all’alba, acqua fredda per sciacquarci il viso. Ci incamminiamo verso la cappella per i canti e le preghiere, mentre il sole che si leva colora di rosa le pareti bianche.

La colazione è per le 6,30: ceci al curry, pane bianco tostato the e latte. Bene! E’ ora di mettersi all’opera! Ad ognuno viene assegnato un compito. I miei sono ormai una routine. Potrei elencarli tranquillamente uno per uno.

Scendiamo le scale a piedi nudi e indossiamo le infradito di gomma. Alcuni fratelli indossano la mascherina da chirurgo (io la mia l’ho tolta dopo un paio di giorni… poco uso e mi impediva di sentire gli odori!). John non usa né le scarpe né la mascherina ed è la persona con cui divido il primo compito (raccogliere le bottiglie e le padelle di plastica che abbiamo utilizzato durante la notte. Qualche volta il contenuto si è rovesciato sul pavimento). Successivamente, dopo una rassettata veloce, svuotiamo i contenitori, li disinfettiamo e li mettiamo ad asciugare.

Dopodiché iniziamo con le latrine vere e proprie. Circa sette, in cunicoli senza porta. Escrementi e rifiuti di ogni forma e consistenza devono essere levati. Si passa poi a lavare e pulire con estrema accuratezza. E’ aberrante, ma qualcuno deve pur farlo e John ed io abbiamo dato la nostra disponibilità come volontari anche per i lavori più duri. Dopo avere pulito il pavimento, usciamo e gettiamo i contenuti nel canalino situato all’esterno che conduce al serbatoio sterilizzato all’altra estremità del giardino.

Il lavoro successivo consiste nel lavare i pazienti, lavoro da espletare nella stanza umida e buia attigua alle latrine. Arrivano a gruppi di tre o quattro, nudi. Si insaponano il corpo solitamente deperito, mentre noi li sciacquiamo con il tubo o li bagniamo con getti di acqua fredda. Portiamo avanti e indietro i più anziani che si accucciano sul pavimento a causa delle abluzioni. Alcuni uomini non ce la fanno a lavarsi da soli la schiena o i piedi ed hanno bisogno di una mano. Ma la maggior parte ci riesce e lo fa senza un lamento.

Sopportano qualsiasi cosa, non importa quanto fastidiosa. Dopo essersi lavati, per esempio, chiedono di radersi ma non ci fidiamo a farglielo fare da soli. Sono pertanto il barbiere incaricato per chi lo desideri, ma l’unico rasoio disponibile è un vecchio Permatic, con la lama spuntata. Mi scuso per i tagli causati. Ma essi, con un silenzio stoico, si prendono tutto o continuano tranquillamente a conversare con i propri vicini.

“Paziente” è il termine giusto? Sebbene questo non sia propriamente un ospedale, si, credo di poterli chiamare pazienti. Fratello Zachary, il padre un po’ più severo incaricato dei lavori della mattina, mi ha rimproverato un paio di volte per aver dato abiti puliti troppo spesso. Dice che li sporcano apposta e che devo distribuire un abito pulito a persona ogni settimana. Ma i pazienti molto spesso sanno come prendermi e, dopo una rapida occhiata per controllare se Padre Zachary è in giro, glielo do.

Il giovedì è il giorno della lavanderia. Dei calderoni enormi vengono riposti nel cortile e riempiti di acqua calda presa da una sorta di boiler scaldato a legna. Gli abiti sporchi vengono fatti bollire, mescolati e messi ad asciugare.

La maggior parte dei pazienti qui sono mutilati, claudicanti, paralizzati o malati di TBC in fase avanzata. Questo, per loro, è semplicemente un luogo dove morire con un po’ più di dignità , più di quanta ne avrebbero per strada. Il nome dell’istituto, “Istituto per i malati ed i bisognosi moribondi” , certo, non è di buon auspicio.

Il mio primo giorno qui ho visto un uomo morire. Barcollava, era nudo e stava camminando dal bagno alla veranda dove stavo spazzando. Il suo corpo scarno, gli occhi incavati, rivolti al cielo, bianchi denti in fuori, rigidamente stretti in una smorfia. Si capiva che sarebbe morto di lì a poco. Persino Padre Zachary era lì, inerme, incapace di qualunque gesto, a guardare quell’essere pronto ad andarsene.

Sembra così facile e semplice morire per lui, la sua anima sembra uscirgli dagli occhi e volare via, libera finalmente da quell’esistenza miserabile e dolorosa. Sono sorpreso del mio sangue freddo mentre aiuto a trasportare il corpo nel giardino per la sepoltura. Non è più una persona, sembra più una crisalide abbandonata.

Un’altra mansione che – piuttosto riluttante – mi tocca svolgere su richiesta è la pulizia delle orecchie. Un batuffolo di cotone viene avvolto intorno ad un cerino e poi introdotto nell’orecchio, passato tutt’intorno per togliere il cerume. Il paziente si mette seduto e pazientemente aspetta mentre io svolgo il mio compito, talvolta con grande trepidazioni al ritmo di qualche urlo se spingo troppo forte. Altre volte, la vittima di turno preferisce finire il lavoro per me.

Altri tipi di lavori mi girano intorno (bendatura delle ferite, iniezioni, consulenze mediche), ma sono ben felice con le mansioni assegnatemi, le quali culminano nell’evacuazione dai cortili di tutti i pazienti, il lavaggio dei pavimenti con acqua e disinfettante, mentre la radio trasmette musica pop Indiana.

Dietro il crocifisso sull’altare vive un geco. Esce fuori durante le preghiere della mattina, attratto forse dal ritmo dei canti di noi fratelli e, allegramente, va per il muro banchettando a base della moltitudine di zanzare che trova sulla via. Ormai, non vi è mattina che si dimentichi di fare la sua apparizione ed è diventato il mio centro di attrazione segreto durante le letture dei salmi. Considero la lucertola la mia creatura di Cristo vendicatrice, colei che offre un giusto Giorno del Giudizio alle nostre nemiche zanzare.

Chissà se c’è qualcun altro che osserva il processo che clandestinamente sta avendo luogo sul muro? Probabilmente no. Sarebbe imbarazzante chiederlo, si capirebbe che non sono attento come dovrei – la Messa, questo automatismo prosaico fatto di domande/risposte, invocazioni, imparati dai ragazzi, molti dei quali nemmeno conoscono il significato delle parole che la loro bocca pronuncia in quella sorta di cantilena… Le sei del mattino, per amor di Dio!

Cosa ci faccio qui? In ginocchio, nella cappella di una casa di cura a Calcutta, osservando un rettile su un muro… Sono un disadattato, girono dopo giorno sempre più cosciente della cosa.

Un uomo che sembra “ustionato” giace su un materasso coperto di plastica nella veranda del giardino. La sua pelle è nera, completamente priva di peli. Le ciglia sono lì lì per cadere. Di tanto in tanto lo giro, poiché non va bene che resti sempre nella stessa posizione. La pelle viene via e mi resta sulle dita. Non è conscio, ma è in uno stato delirante. Pare che le sue condizioni siano dovute ad alcune medicine prescritte dall’ospedale. Una sorta di reazione allergica, senza antidoto.

Una raffica di attività ieri in cortile. I cancelli di ferro si aprono per far entrare un risciò che trasporta un fratello ed un bambino magrissimo, sudicio, con i capelli talmente lunghi al punto che non si riesce a distinguere se si tratta di un maschio o una femmina. Sicuramente la prima opzione, visto che le donne non sono ammesse all’istituto. Mi chiedo quale sia il problema, mentre osservo la creaturina sulla barella che viene trasportata dentro.

La mia domanda trova risposta la mattina successiva quando mi viene assegnato il compito di somministrargli una supposta nell’ano, infestato da malattie veneree.

E’ stato trovato a Howrah Station, insieme ad altri bambini, che, se solo hanno la disgrazia di essere un po’ più graziosi, subiscono abusi da parte di vagabondi che si sono accasati da quelle parti. Sembra grave, e spero vivamente che la glicerina di antibiotico che gli sto somministrando possa servire a qualcosa.

Mi preparo a conoscere i pazienti. Uno è l’immagine esatta dell’uomo-cane del Tempio d’oro di Amritsar. Le stesse sopracciglia unite su uno sguardo fiero. La stessa identica espressione su una dentatura ben pronunciata. Solo, il ragazzo è completamente nudo. Non capisce l’utilità dei vestiti e non ne indossa. Preferisce andarsene in giro a carponi, sulle proprie mani. E’ innocuo, ma come tutti i cani, diventa ostinato se non gli si fa fare quello che vuole. Per fortuna non teme l’acqua. Gliene ho gettata un po’ addosso e sembra divertirsi.

Un altro uomo che devo lavare ha un enorme paio di testicoli che gli pendono fin sopra le ginocchia, della dimensione quasi di un pallone. Si pensa ad una forma di elefantiasi. Sembra un po’ svitato e borbotta frasi sconnesse in Indi. Non capisco quello che dice. Sembra avercela con la Regina Vittoria, questo nome lo ripete spesso, accompagnato da ammiccamenti maliziosi

Una creatura patetica, con dentro agli occhi una espressione di panico, stringe la mano in un pugno serrato. Riesco a fargliela aprire, mentre lo avvolgo in un sari pulito, quando scopro un biglietto sgualcito da cinque rupie.

“Queste persone sono delle ladre!” urla. “Sono un Bramino! Non devo stare quei tra questi poveracci!”

Il trattamento giornaliero dell’allettato consiste nell’aprire e richiudere una cavità profonda sotto la natica sinistra con un batuffolo di cotone imbevuto di iodio. Sembra una cosa insensata, non vi sono infezioni o ferite. Il trattamento è terminato tempo fa, la ferita non sembra essere altro che una cavità nella carne. Si sottopone al trattamento allegramente, supino, tirando boccate da un bidi – il piccolo sigaro indiano molto in voga tra i poveri.

Il che non piace a Padre Zachary, il quale disapprova i pazienti che fumano. Ma ne ho scoperta una scorta nel magazzino e li dò ai “viziosi” quando Padre Zachary non è in giro.

Un altro compito che ritengo inutile, persino dannoso, è il cambio delle bende sul braccio di un anziano e saggio signore. Una serie di ferite gli coprono il gomito destro, quasi a scoprire la carne viva. Il mio compito consiste nell’ungere le ferite con un balsamo e ricoprirle con delle bende. Ma sono convinto che il fatto di togliere le bende ogni giorno per poi rimetterle non aiuti di certo il rimarginarsi delle ferite. L’unguento, inizialmente utilizzato come protezione contro eventuali infezioni, agisce adesso a malapena come blocco. Il gomito, secondo me, dovrebbe essere lasciato scoperto per consentire alla pelle di respirare.

Nessuno dei fratelli ha ricevuto una adeguata formazione medica, e i materiali a disposizione per lavorare non sono un granché. Come i rasoi Permatic che uso per la barba, gli aghi per le iniezioni sono usati e ben lungi dal rispetto di qualsiasi norma igienica. Le medicine consistono in pillole e pozioni inviate dalle organizzazioni umanitarie o dall’esercito americano. Un paradosso, se si pensa al Vaticano, il cui benessere potrebbe fare miracoli, non solo qui ma in tutto il mondo.

Se c’è tempo, darò una mano a smaltire la fila di persone malate di scabbia. Molte di loro non sono interni, e vengono da fuori per farsi curare con la lozione bianca. La scabbia si sparge ovunque, sulle braccia, sulle gambe, sul dorso, sui genitali. Ma la lozione sembra funzionare: ho notato dei miglioramenti in coloro sui quali è stata passata più di una volta.

L’uomo ustionato è deceduto. Vedo dal balcone un gruppo di parenti ed amici che corre a riprendersi il corpo durante un blackout. La fioca luce emanata dalle torce si riflette sui muri. Urlano ed imprecano, tirando pugni all’Istituto. Mi viene in mente la scena di Frankenstein in cui gli abitanti del villaggio si avventano contro il castello perché vogliono uccidere il mostro. Cosa si aspettavano? Un miracolo?

Un medico francese visita una volta ogni due settimane i pazienti più gravi, raccomandandosi per il loro trasferimento – in caso di amputazione o interventi di urgenza – presso strutture ospedaliere più adeguate.

Arriva senza preavviso, e i fratelli sono sempre lieti di riceverlo. Ne hanno gran rispetto ed agiscono rispettando alla lettera ogni sua indicazione. Va e viene, è un modello di esperienza ed efficienza, esatto, preciso nell’azione e nella diagnosi. Avrà una quarantina d’anni, moro, barba ben curata, sguardo intellettuale, devo ancora vederlo sorridere una volta. L’ilarità non fa parte evidentemente dei suoi programmi. Indossa una maglietta lunga, marrone a girocollo su dei pantaloni in cotone. Visita i malati presso gli altri centri gestiti dalle sorelle e cliniche per i bisognosi. Vive da solo in un monolocale e parla fluentemente l’Indi. Ne ho una certa soggezione.

Prima di rientrare la sera alle nove, ci riuniamo nella Cappella. Innanzitutto ci raccogliamo in silenzio per analizzare e riflettere sugli avvenimenti della giornata, le emozioni e per fare una sorta di autoesame sulle nostre capacità. Mentalmente cerchiamo di scacciare ogni preoccupazione per prepararci ad un sonno ristoratore, custode di nuove forza per affrontare il giorno successivo.

Padre Zachary ci offre una lettura prima di andare. La notte scorsa ha raccontato la storia di un ragazzo arrestato per furto, che stava per esser portato in prigione dove vi avrebbe trascorso un lungo periodo. Come ultima richiesta, aveva detto che voleva abbracciare la sua povera mamma. Gli concedono il permesso. Le si è avvicina con tenerezza, le poggia le labbra sul viso e, con fare quasi selvaggio, le da un morso sul naso. Improvvisamente le urla contro, mentre lo portano via, che lei è la responsabile dei suoi guai, che gli ha avvelenato la vita facendolo diventare un ladro. Sogni…!

Ricevo all’improvviso una lettera di mio padre, con la quale mi chiede se ho problemi di soldi, ed un assegno! Soldi! Gli sono grato in modo disgustoso.

Giovedì, mio giorno di riposo, vado a Calcutta a cambiare l’assegno. Dopo essere stato per un bel po’ di tempo in una libreria, ne esco con in mano l’Opera Competa di Shakespeare.

Sulla strada di ritorno verso l’istituto, mentre passo di fronte ad un albergo costoso solitamente frequentato da occidentali, un ragazzino a bassa voce:

“Eroina! Cocaina! Acidi! Hashish! Erba!”

Torno indietro.

“Hai detto erba?”

“Il nostro oppio è fantastico; e per … “

“L’erba è ok. Dammene un po’ per favore”

Lo seguo chiedendomi se sto facendo la cosa giusta. Posso permettermela ora ma come la metto con la decisione che ho preso di rinunciare ai piaceri della vita…? Ma l’erba è diversa, mi dico. E’ una pianta che cresce naturalmente. E’ persino considerate sacra dai Rastafariani. Mi manca.

Entriamo in un piccolissimo negozio di scarpe e, dopo aver accettato un tè dal proprietario ed un paio di canne della famosa erba di Calcutta, me ne vado con due piccole bustine piene di erba. Roba di qualità e sono contento di averla presa. Nessun problema. Solo uno: come la nascondo all’istituto?

Trovato il nascondiglio ideale, lo scaffale del dormitorio, tra le pagine del mio libro di Walt Whitman Leaves of Grass! Non desterà sospetti e nessuno si aggirerà tra le pagine dello Zio Walt tranne me.

E adesso, mentre tutti si concedono l’ora di siesta del dopo pranzo, mi trovo dove nessuno può trovarmi, nella parte più a zenit dell’edificio, sul tetto, raggiungibile solo da una scala di bambù. Mentre gli altri ronfano, salgo: tiro fuori una sigaretta con il filtro, la giro tra le dita per svuotarla del tabacco. Riempio poi la cartina svuotata con l’erba, la presso, la chiudo, l’accendo all’estremità e via!!! Come un razzo!

Il cielo è un’enorme cupola di blu. Dal mio nido, scorgo il cimitero cristiano dove alcune mucche, lentamente, sembrano delle mietitrici. Le lapidi fuoriescono dal prato come le unghie di giganti sepolti. Un trio di palme al centro, le foglie verdi smeraldo fanno da rifugio a corvi voraci che, di tanto in tanto, piombano giù e portano via I bendaggi scabbiosi dalla discarica nel giardino dell’istituto.

Il mio spirito vola via insieme al fumo. Le urla dei venditori ambulanti, accompagnati dal suono dei campanelli delle biciclette, diventano una sorta di nenia. Sento all’improvviso una certa compassione per il mondo, avverto la fragilità della vita e realizzo il passare del tempo. Gli occhi mi si riempiono di lacrime. La sigaretta finisce. Apro il mio Shakespeare.

Le sistemazioni per la notte organizzate dai fratelli sono un po’ strane. I volontari occidentali, protetti da zanzariere, dormono sui materassi provvisti di deliziose coperte e teli amorevolmente donati dalle signore americane. E, sebbene molti pazienti, di sotto, non abbiano letti sui quali stare, hanno tutti dei materassi – se così puoi chiamare quei sacchi pieni di bozzi e sottili. Ma i giovanotti indiani, stacanovisti e gioiosi, non hanno niente. Dopo l’ultimo incontro serale per le preghiere, essi si prendono le coperte e vanno a cercarsi un posto sul pavimento, su un tavolo del refettorio o sul tetto di una terrazza sotto le stelle.

E’ previsto un periodo di prova pari a tre anni prima di prendere i voti e diventare un fratello a pieno titolo. Impresa ardua, ma almeno qui hai assicurati tre pasti al giorno e lavori in amicizia con colleghi della tua età e religione.

Il ragazzo con la gonorrea sta meglio! E’ trascorsa qualche settimana da che gli ho somministrato la supposta e non lo vedo da allora. Oggi l’ho visto che giocava a scacchi, i capelli tagliati, lievemente ingrassato, sorridente, urlante e che camminava sui suoi piedi. Tutta un’altra cosa rispetto al relitto che era arrivato qui. Triste a dirsi, ma adesso che sta meglio uscirà e tornerà alla stazione, in balia di un circolo vizioso senza fine.

Questa mattina c’è un funerale per un paziente deceduto di recente, il quale era cattolico. Potrebbe essere il tipo intontito che ho visto aggirarsi nei corridoi l’altro giorno, oppure l’anziano corpo nudo irrigidito che John ed io abbiamo portato all’ossario un paio di mattine fa. Non so cosa fanno con gli altri, ma trattandosi di un Cristiano, questo corpo è degno di sepoltura in una bara di legno, che aiuterò a trasportare. Seguiamo Padre Vinander all’esterno della cancellata, fino al cimitero cristiano, e mettiamo la bara in una tomba appena scavata. Padre V dice due parole e terminiamo la sepoltura.

Al ritorno dal cimitero, ci accompagna un chiassoso suono di cembali, flauti e tamburi. Una folla di gente in strada. Dopo lo stupore iniziale, realizziamo che non si tratta di celebrazioni per il nostro funerale ma di un gruppo di donne alte che indossano sari neri e dal trucco vistoso, intente a suonare, cantare suscitando l’ammirazione dei passanti.

Osservo che, a parte l’altezza, le mani ed i piedi delle donne sembrano più grandi della media, così come i loro visi, e, malgrado il trucco, si intravede una lieve ombra di barba incolta. Il cuoco dell’istituto, mi dà una gomitata e mima due grandi seni sul petto, ed un pene tra le gambe che “Zac” … taglia.

“Uomo-donna! Donna-uomo!” esclama, senza contegno.

Si tratta degli Hijras – una casta di eunuchi e di travestiti, devoti a Bahuchara, Dea della Fertilità. Sono considerati come “né donne né uomini” ed ostentano una femminilità esagerata

Verso l’ora di pranzo, da una vetrata all’angolo, vedo un gruppo di fratelli e pazienti che sorridono. Che succede? Il centro dell’attenzione è un bambino di tre o quattro anni con un sorriso raggiante, in braccio alla madre, e un’altra donna al loro fianco. Il bambino è un raggio di luce in quel cortile così scuro. Mi ritrovo a mia volta a sorridere fino a quando non mi accorgo di uno dei suoi pollici avvolti in una benda vecchia e sporca. Diverse settimane fa si è chiuso il pollice in una porta e la madre glielo ha bendato. Si vede che ora pensa sia venuto il momento di togliere la fasciatura e ha deciso quindi di portare il bambino qui.

“E togliamola!” grida Padre Zachary mentre inizia a sciogliere un groviglio di nodi. Il bambino impaurito guarda la madre ed inizia a dimenarsi mentre la mamma cerca di tenerlo fermo. Il suo frignio diventa un grido, un urlo, sempre più forte, mentre gli si fanno intorno sempre più voci che cercano di placarlo. Non ce la posso fare… Devo andare. E volo sul tetto con la mia erba. Il mio unico calmante.

Il cimitero cattolico si è trasformato. Le tombe sotto di me sono ora uno spargimento di rombi colorati e splendenti. Poiché domani è il giorno dei morti, amici e parenti sono venuti e hanno dipinto i mucchi di terra con colori vivaci, rosa, turchese, giallo…

Candele poste al di sopra, ghirlande di fiori rosso e arancione. Ogni tomba sembra una torta di compleanno. Una vacca sonnecchiante vagabonda tra di esse, mangiando qua e là. Questa è la bellezza. Alla vista di un simile panorama il mio cuore torna ad essere felice. E’ poesia per me. Certo, accentuata dal fumo aromatico della mia sigaretta. Anche se per poco, ho trovato la pace.

Ho smesso di andare alle preghiere del mattino. John mi ha detto che non è obbligatorio per i volontari prendervi parte ma, adesso, ho deciso di essere più onesto verso me stesso. Ed ho scelto di non andare. Se non fossi stato obbligato ad alzarmi prima del sorgere del sole, e mormorare nenie sulle ginocchia fasciate, la mia scelta sarebbe stata diversa. Rimanendo a letto, almeno, non sarò tacciato di ipocrisia, un peccato che credo sempre di più sia uno dei peggiori. Anche John, di tanto in tanto, resta a dormire ma, più spesso, si reca alla cappella, per “salvare le apparenze”. Io non lo faccio più. Riservo la mia “apparenza” per la colazione.

Il nostro lavoro nel cortile questa mattina viene improvvisamente interrotto da Padre Zachary il quale chiama a raccolta i fratelli per riunirsi di fronte ad una piccola teca in vetro che mai avevo visto prima posta sul muro dell’ingresso. Contiene una statua della Vergine Maria. Padre Zac accende una candela e la pone ai suoi piedi. I fratelli intonano un inno, si fanno il segno della croce e ritornano a lavoro.

Ma Gesù voleva davvero che sua madre fosse venerata come una Dea o fosse una statua posta sopra un altare da adorare dopo la sua morte?

Nessuna religione sembra immune dal peccato della idolatria. Cosa avrebbe pensato Budda sulle milioni di immagini incise che vorrebbero essere una sua rappresentazione? Gli Ebrei hanno il loro Muro del Pianto, i Musulmani hanno la Kaba alla Mecca, intorno alla quale girare, un feticcio pagano inventato ancora prima di Allah.

La religione viene tramandata di generazione in generazione, un’eredità accettata indiscutibilmente come un tesoro. I rituali vengono imparati ed assimilati, una sorta di lavaggio del cervello. E ci vorrebbe davvero un animo coraggioso e temerario per reagire e mostrare i propri dubbi al riguardo, senza sapere che molti altri hanno gli stessi sentimenti.

Grande eccitazione!

Madre Teresa ha accettato l’invito a visitare l’istituto per una festa del ringraziamento per farle le nostre congratulazioni per il Premio Nobel della Pace. Arriverà la settimana prossima! Una specie di ovazione ha accolto la notizia comunicataci la settimana scorsa nella Cappella, al termine della Messa. Da allora, c’è stato un susseguirsi di pulizie e imbiancature. I fratelli hanno ripassato canti, salmi e discorsi. Grandi calderoni di acqua sono stati fatti bollire perché i pazienti possano apparire nel massimo del loro splendore.

Anche i volontari sono stati persuasi a dare un contributo. Gunter ha suggerito il pezzo di Simon and Garfunkel Sound of Silence e ci siamo esercitati ogni sera prima di andare a letto, anche se è difficile sincronizzare I tempi ed abbiamo anche pensato che il pezzo è troppo triste per un’occasione del genere.

Per le presunte migliorie in onore della imminente visita di Madre Teresa sono stati fatti anche degli errori madornali. I kilt che i fratelli usano per inginocchiarsi nella cappella sono stati scartati e il pavimento è stato ricoperto con un tappeto rosso, decorato con fiori gialli. Non solo è un cazzotto in occhio, ma anche dannoso per il corpo. Dopo qualche minuto che sei inginocchiato, inizi a sentire una sensazione di bruciore e, una volta in piedi, le ginocchia sono ricoperte da macchie dolorose che ci mettono un po’ a sparire e quando ciò accade è di nuovo l’ora di rimettersi in ginocchio per un’altra messa o per le preghiere. L’intero pavimento è stato trasformato in una specie di penitenza!

Il giorno del ringraziamento di Madre Teresa!

L’edificio è tutto agghindato ed in perfetto ordine, così come i suoi “inquilini”. Le due ambulanze procedono su Belilious Road e girano entrando dai cancelli aperti. La strada all’esterno è in fermento, tutti si sono riversati fuori a guardare. La maggior parte dei fratelli ha formato una sorta di comitato di benvenuto ed io mi posiziono sul balcone, al primo piano, dal quale posso vedere tutto molto bene.

Un gruppo di giovani sorelle nei loro sari bianchi e blu scendono dalla prima ambulanza. Si aprono poi le porte della seconda, dalla quale scende Madre Teresa. Scoppia l’applauso. La folla si spinge in avanti e le si mette intorno per guardare. La donnina corre il rischio di essere calpestata. C’è una grande confusione. Alcuni si gettano persino a terra per baciarle i piedi. Lei sorride, fa cenno di rialzarsi. Procede verso la veranda. Piccola ma tenace, capace di grande carisma ed energia.

Cori di festa accompagnano l’ascesa verso la cappella dove, come prima cosa del programma, avrà luogo una Messa di ringraziamento.

Decido di vedere Madre Teresa più da vicino, la donna che mi ha condotto fino in India. Scivolo dentro la cappella vuota e mi metto proprio dietro la porta. Il cuore in fibrillazione. Il tappeto rosso risplende minaccioso.

Il vociare aumenta sempre di più man mano che la folla si avvicina e si ferma appena fuori alla porta. Molti sono Indù e, malgrado stimino e apprezzino Maria Teresa per la sua caritatevole devozione per i poveri ed i bisognosi, la sua religione è tabù per loro. La cappella sembra essere custode di un Dio alieno.

Sono tutti in piedi. Lei entra, da sola.

Sono di nuovo colpito dalla sua piccola statura, non mi arriva nemmeno alla spalla. Mi inchino e sorrido.

Gira la testa per una frazione di secondo. Per un istante i nostri occhi si incontrano e nei suoi ritrovo, piuttosto che rassicurazione, cortesia e compassione per il fatto di essere diventata famosa, un misto tra sbigottimento, indignazione e ripugnanza.

Finisce tutto in un istante. Entra nella cappella, si inginocchia su quell’orripilante tappeto, unisce le mani in preghiera e osserva profondamente il crocifisso sull’altare. Ferito e confusa dallo sguardo che abbiamo condiviso decido di andare e vado a fumarmi una canna sul tetto. Spero che il geco non rovini le fattezze dell’Istituto con la sua improvvisazione giornaliera durante la celebrazione.

Nel salire, noto un sacco di riso soffiato nella cucina annessa e ne butto qualche manciata nel giardino. I corvi, stupiti, ci si fondano sopra. E’ festa per tutti, anche per le creature di Nostro Signore.

Ho deciso di partire. La verità è che non sono fatto per questo posto e questo posto non è fatto per me. Tutto si riduce ad una mera questione religiosa ed io non ci credo più. La trovo falsa e sbagliata e non penso di essere tagliato per tutto ciò.

Mentre mi preparo la canna, mi chiedo come interpretare lo sguardo che Madre Teresa mi ha lanciato. Forse era semplicemente sorpresa di non essere la prima ad entrare nella Cappella o forse aveva guardato nella mia anima e riconosciuto in me l’eretico che sono. Forse persino una specie di nemico satanico. Ma le ferite si dissolvono come il fumo che, dalla sigaretta, arriva su nel cielo. Ogni boccata mi riempie di bontà e perdono.

Più tardi scendo e mi unisco alla festa. Bevande di colore nero, verde e arancione vengono servite in tazze di plastica insieme a piatti di cibo indiano. Madre Teresa, seduta su un palco come una regina, ascolta educatamente poesie, discorsi e canti in suo onore

Con grande sollievo da parte nostra, John, Gunter ed io non veniamo chiamati a cantare The Sound of Silence, causa mancanza di tempo.

Qualche paziente confuso si affaccia dalle scale per vedere che sta succedendo, compreso l’uomo-lupo. C’è anche “Regina Vittoria”.

Improvvisamente finisce tutto. Madre Teresa, da dietro il vetro, saluta vigorosamente mentre l’ambulanza abbandona l’edificio passando attraverso uno stuolo di fan, quasi come fosse un idolo della musica pop, una specie di santa superstar dei giorni nostri.

Me ne vado senza salutare. Non mi sono mai piaciuti gli addii, soprattutto quando si parte. Malgrado le mie proteste, John e Gunter insistono per venirmi a salutare.

Mentre scendiamo le scale di Howrah Station ci imbattiamo in un ragazzino che giace a terra, seminconsciente, ed una folla di passanti intorno. Gunter mi dice che andranno a dare un’occhiata una volta che si saranno assicurati di avermi visto sul treno. La stazione è un ammasso di povertà e degrado, un mulino di sporcizia e squallore. Spiantati e squattrinati, iniziano i nuovi adepti con i loro riti da gang metropolitane. Eppure abbondano sorrisi e chiacchiere. Manifesti pubblicitari di film con gli attori più famosi. Di marche di tè, insieme alle sigarette. Puoi anche morire, e nessuno se ne preoccuperebbe.

Se avessi saputo all’epoca che Madre Teresa nutriva tali dubbi sull’esistenza del Paradiso e di Dio, l’avrei invitata nel mio nido a farsi una canna insieme a me. L’avrei aiutata a stare meglio. Qualche anno fa ho letto di una suora in un isola della Grecia che era stata arrestata perché coltivava cannabis nel giardino della sua cella. In sua difesa, sosteneva la suora, che il fumo l’aiutava nelle preghiere e la faceva sentire più vicina a Dio. Ben detto Sorella! Questo è il mio prototipo di santità!

Michael Dickinson, le cui opere d’arte adornano le copertine di Dime’s Worth of Difference, Serpents in the Garden e Grand Theft Pentagon, vive a Istanbul. Può essere contattato tramite il suo sito web: http://yabanji.tripod.com/ o all’indirizzo: [email protected]

Titolo originale: “Working for Mother Teresa: Memoirs of a Rebellious Volunteer”

Fonte: http://www.counterpunch.org/
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05.09.2007

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CRISTINA POMPEI

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