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La Redazione

 

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AL DI LA' DEL PICCO

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A cura di Das schloss
Il 28 Agosto 2008
72 Views

DI MICHAEL KLARE
London Review of Books

Contrariamente allo “shock” petrolifero degli anni Settanta, l’attuale crisi energetica è destinata quasi certamente a durare a lungo. Probabilmente nessuno dei frettolosi rimedi proposti da politici e guru dell’economia – trivellare i mari e le aree naturali protette, dare un giro di vite contro chi specula sulle materie prime, fare pressioni sui membri dell’Opec per incrementare la produzione – riuscirà a portare a qualche risultato. Negli anni 1973-’74 e 1979-’80, ciò che accadde in Medio Oriente portò a una netta riduzione del flusso di petrolio proveniente dal Golfo Persico, e, di conseguenza, a una contrazione delle riserve globali e al rincaro dei costi del carburante, che innescarono la recessione mondiale. Ma quando fu restaurato l’equilibrio in quelle regioni, seppur precario, il petrolio riprese a scorrere e la crisi fu superata. Oggi, però, lo squilibrio tra la domanda e l’offerta è dovuto soprattutto a fattori inerenti allo stesso mercato del petrolio, ed è quindi meno facile da risolvere.

La crisi petrolifera attuale è il prodotto di tre diverse evoluzioni: l’inaspettato innalzamento della domanda, dovuto in particolar modo ai paesi asiatici; il rallentamento nella crescita dell’offerta mondiale; e lo spostamento del “centro di gravità” della produzione dal Nord al Sud del mondo. La situazione, però, è peggiorata a partire dal 1994, quando il governo di Jiang Zemin decise di fare della produzione e del possesso di automobili una delle “colonne” dell’economia cinese; e a partire dal 2001, con la National Energy Policy [Politica energetica nazionale, ndt] dell’amministrazione Bush, che sostenne la continua produzione e il continuo consumo di petrolio invece che lo sviluppo di fonti alternative di energia. Entrambe queste linee politiche hanno fatto sì che la domanda mondiale di petrolio si impennasse proprio quando la capacità dell’industria di aumentare l’offerta stava cominciando a dare segni di cedimento.Secondo la Statistical Review of Word Energy [Rivista statistica annuale sullo stato delle riserve e dei consumi di energia a livello mondiale, ndt], pubblicata ogni anno a giugno da BP [1], il consumo di petrolio è balzato da 69,5 milioni di barili al giorno alla fine del 1995, a 85,2 milioni di barili alla fine del 2007. Questo enorme aumento è stato causato in parte dall’incremento del consumo di carburante negli Stati Uniti (dove i mastodontici Suv sono diventati una moda), ma è soprattutto il risultato di un’impennata della domanda da parte delle nazioni del mondo in via di sviluppo che stanno vedendo un rapido processo di industrializzazione. Dei 15,7 milioni di barili in più, 4,6 milioni sono andati alla Cina, e 2,7 milioni agli altri stati dell’Asia, compresa l’India.

E questa tendenza probabilmente non si fermerà. Nel suo Medium-Term Oil Market Report [Rapporto di medio periodo sul mercato del petrolio, ndt], l’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie) prevede che il consumo mondiale salirà dagli 86,9 milioni di barili del 2008 ai 94,1 milioni del 2013. Ci si attende che quasi tutto questo incremento provenga da paesi non appartenenti all’Ocse, con l’Asia che consumerà la fetta più grande. Secondo il rapporto, la Cina, da sola, sarà causa di un terzo dell’incremento del consumo mondiale nei prossimi cinque anni. In Europa e Giappone per il contenimento della domanda sono stati fatti alcuni progressi, che sono stati tuttavia largamente compensati dall’aumento dei consumi in altre parti del mondo. E i crescenti segnali che provengono dall’industria, incapace di tenere il passo dell’innalzamento della domanda, stanno rendendo i prezzi ancora più elevati.

La causa primaria del rallentamento nella crescita della produzione è che molti giacimenti vasti e di facile sfruttamento sono già stati sostanzialmente esauriti, mentre quelli che ancora devono essere sfruttati in genere sono situati in luoghi lontani e si possono iniziare a utilizzare con maggiori difficoltà (per ragioni sia politiche, sia tecniche e sia ambientali). Sono parecchi i metodi sviluppati dall’industria petrolifera, come l’uso dell’Enhanced Oil Recovery [Recupero potenziato del petrolio, ndt], per prolungare la produzione in giacimenti che iniziano a mostrare segni di declino. La trivellazione in mare aperto, intanto, si è spostata in acque più profonde alla ricerca di possibili giacimenti. Ma questi sforzi non possono compensare l’esaurimento dei giacimenti più grandi che hanno alimentato il consumo mondiale per mezzo secolo.

Malgrado esistano decine di migliaia di aree di estrazione nel mondo, quasi la metà del nostro consumo proviene da soli 116 enormi giacimenti. Tutti questi – tranne quattro – sono stati scoperti più di venticinque anni fa, e molti mostrano segni di esaurimento. In maggio, per esempio, la Pemex, compagnia petrolifera di stato del Messico, rese noto che la produzione di Cantarell – l’area petrolifera più grande del paese – aveva subito un calo di quasi il 40 per cento dal 2006. Problemi simili si riscontrano nei giacimenti più grandi della Russia e della Norvegia.

In un rapporto del 2008 dell’Aie, gli analisti hanno ritoccato all’insù le loro stime riguardo al tasso di esaurimento dei giacimenti più vecchi, prevedendo un 5,2 per cento all’anno, con un aumento del 4 per cento rispetto al 2007. Ciò significa che si dovrebbero produrre 3,5 milioni di barili in più da qualche altra parte del mondo soltanto per mantenere stabile il livello di produzione. Entro il 2013, l’industria petrolifera dovrà generare 24,7 milioni di barili in più al giorno per raggiungere il suddetto obiettivo di 94,1 milioni di barili: un compito quasi impossibile.

Come sottolinea l’Aie, nonostante le più grandi compagnie petrolifere siano desiderose di far partire nuovi progetti (e quindi di aumentare i loro introiti provenienti dall’attuale rincaro dei prezzi), le sole possibilità che rimangono sono quelle più costose, più lunghe da realizzare o che hanno bisogno di tecnologie più complesse, le quali richiedono miliardi di dollari che le stesse grandi compagnie sono restìe a investire. Oltre ad alcuni importanti progetti intrapresi alla fine degli anni Novanta e nei primi anni del Duemila, che diventeranno attivi nel 2009 e nel 2010, ne rimangono pochi altri. L’Aie prevede un netto calo del volume di produzione a partire dal 2011 – proprio quando la domanda di Cina, India e degli altri paesi in via di sviluppo comincerà a diventare seria. I più importanti analisti del campo dell’energia e alcuni esponenti dell’industria sono ora d’accordo sul fatto che la produzione di petrolio con metodi convenzionali raggiungerà presto il picco e si avvierà poi a un irreversibile declino – un’opinione, questa, che è stata recentemente sostenuta da un gruppo di geologi petrolchimici, molti dei quali fanno parte dell’Association for the Study of Peak Oil and Gas [2].

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[La produzione petrolifera mondiale nel corso degli anni con indicati i momenti di picco della produzione già raggiunti in alcuni paesi (sino al Messico nel 2004).]

Quando iniziò l’Era del Petrolio verso la fine dell’Ottocento, la produzione era concentrata negli Stati Uniti, nel Messico, in Romania e nell’Impero russo. La situazione rimase invariata fino a ben dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e nel 1955 gli Usa fornivano ancora la metà del petrolio mondiale. Da quel periodo però il centro della produzione cominciò a spostarsi sempre più a sud, verso il Medio oriente, l’Africa, l’Asia centrale e il Sud America. Oggi gli Usa incidono soltanto per il 9,6 per cento sulla produzione totale; il Medio oriente per il 30,1 per cento; l’Africa per il 12,5 per cento e l’America latina per il 12,4 per cento. In tutto, i paesi non appartenenti all’Ocse forniscono oggi circa i tre quarti del petrolio mondiale.

Questo è un cambiamento notevole, poiché la maggior parte dei più importanti stati produttori del mondo in via di sviluppo furono dominati in diverse epoche dalle potenze imperialiste e di quel dominio continuano a portare i segni. Qualcuno di questi paesi, come l’Iraq, ha confini che furono disegnati dalle potenze imperialiste, che così soddisfacevano i loro bisogni ed evitavano di entrare in contatto con le realtà etniche, religiose e linguistiche. Queste regioni sono possibili teatri di violente lotte per l’autonomia o la secessione. Il guadagno che assicura il petrolio spesso inasprisce questi problemi, accrescendo l’attrattiva del separatismo (specie se i giacimenti si trovano sul territorio etnico coinvolto nella lotta, come in Cabinda in Angola o nel Kurdistan in Iraq) o del colpo di stato (che permetterebbe di mettere le mani sugli introiti petroliferi).

Tutto ciò significa che le nazioni che consumano più petrolio dipendono più che mai dal rifornimento di paesi inclini alla rivolta, alla lotta fra etnie, al separatismo, al sabotaggio e al colpo di stato, spesso provocato dalla lusinga della ricchezza che proviene dal petrolio. Gli attacchi alle piattaforme di trivellazione, agli oleodotti, alle raffinerie, alle piattaforme di carico, alle navi cisterna e alle altre infrastrutture vulnerabili sono la causa delle temporanee riduzioni del rifornimento mondiale e portano a un’impennata dei prezzi: l’esplosione di alcune raffinerie in Iraq, gli attacchi dei ribelli in Nigeria e il sabotaggio degli oleodotti in Messico negli ultimi tempi hanno tutti avuto queste conseguenze. Questo sarebbe già un male anche se l’industria possedesse una solida capacità di fare scorta, per permettere di far fronte a un momentaneo calo della produzione; le scorte dei più importanti produttori non sono però più così consistenti, come quelle dell’Arabia Saudita, che vi fece ricorso nel 1990 per evitare una crisi petrolifera dopo che l’Iraq invase il Kuwait. E sebbene le impennate dei prezzi non durino a lungo, la loro frequenza sembra essere crescente, e ciò porta gli speculatori finanziari ad acquistare i titoli delle materie prime a prezzi sempre più elevati sperando di ricavarne profitti ancora maggiori.

Fino al 1994 la Cina produceva pochissime auto (nel 1990 ne produceva soltanto 42 mila all’anno) e scoraggiava l’importazione di veicoli stranieri. Ma dopo che la Commissione di pianificazione statale di Jiang Zemin annunciò che la produzione automobilistica doveva diventare una delle “colonne” dello sviluppo economico nazionale – e per far questo le aziende straniere furono invitate a fornire i capitali e le conoscenze – la Cina divenne presto il destinatario principale, tra le nazioni del mondo in via di sviluppo, degli investimenti diretti degli altri paesi. Già nel 1998 la produzione automobilistica era balzata a 500 mila auto all’anno; nel 2002 raggiungeva il milione; una anno più tardi i due milioni.

I benefici economici sono stati consistenti. Come racconta Kelly Sims Gallagher in China Shifts Gears[La Cina cambia marcia, ndt] (2006), fino al 2003 l’industria cinese dell’automobile – che comprende auto, moto, motori e componenti – impiegava 1,6 milioni di operai e incideva sul totale dei profitti dell’industria manifatturiera per il 6 per cento. La crescente disponibilità, per la fiorente classe media cinese, di automobili dal prezzo relativamente accessibile ha inoltre soddisfatto un desiderio a lungo represso. Secondo una recente stima del governo statunitense, si prevede che in Cina il numero delle automobili possedute da privati salga dai 27 milioni del 2004 ai 400 milioni del 2030.

Questa enorme crescita è la causa principale dell’incremento nel consumo di petrolio da parte della Cina. Fino al 1993 in Cina si consumava meno petrolio che in qualsiasi altra potenza mondiale; il fabbisogno veniva soddisfatto dalla produzione nazionale. Quell’anno, secondo Bp, la Cina produsse e consumò 2,9 milioni di barili al giorno, a fronte dei 17,2 milioni di barili degli Stati Uniti e dei 5,5 milioni del Giappone. Alla fine del 2003 aveva superato il Giappone e si avviava a diventare il secondo consumatore mondiale. Oggi la Cina consuma il 9,2 per cento del petrolio mondiale, ma non è stata in grado di incrementare la produzione nazionale al di sopra del livello degli anni Novanta. Nonostante i tentativi di sviluppare nuove aree petrolifere in mare aperto e nella regione occidentale dello Xinjiang, la Cina produce soltanto 3,7 milioni di barili al giorno, con un aumento di soltanto 800 mila barili rispetto alla produzione del 1993. Ciò significa che la voce “importazioni” è passata dallo zero all’attuale livello che si attesta attorno ai 3,7 milioni di barili al giorno; ed è questo aumento, più grande di quello di ogni altro paese negli ultimi dieci anni, ad aver fornito un contributo considerevole alla crescita della domanda mondiale.

È chiaro che i leader cinesi hanno commesso un errore strategico scegliendo di favorire l’industria automobilistica. Perché non sviluppare, invece, il sistema di collegamento metropolitano, i collegamenti ferroviari con le periferie e tra città e città, e i treni ad alta velocità? Visto l’affollamento delle città e l’espansione nel continente, la Cina avrebbe fatto meglio a dotarsi di una fitta rete ferroviaria. Il governo di Pechino ora sta finalmente cominciando a migliorare il sistema ferroviario nazionale, ma si è anche impegnato per la realizzazione di un enorme programma di lavori pubblici, che prevede la costruzione di altre strade; inoltre continua a tenere il prezzo della benzina e del gasolio al di sotto del livello di mercato, incentivando ancor di più le vendite di automobili e di carburante. Vista l’incapacità della produzione nazionale di soddisfare l’aumento della domanda, la fedeltà della Cina all’automobile la renderà un pozzo senza fondo pronto ad assorbire petrolio estero, e questo ne sfinirà l’economia, turbando al contempo i mercati internazionali.

Uno dei provvedimenti più importanti del presidente Bush fu la creazione del National Energy Policy Development Group (Nepdg) [3], con a capo Dick Cheney. Molti commentatori presunsero che il Nepdg potesse prendere in considerazione i segnali, che via via si accumulavano, i quali indicavano che la produzione del petrolio stava per raggiungere il picco: uno dei primi e fondamentali studi, Hubbert’s Peak: The Impending World Oil Shortage[Il picco di Hubbert: l’imminente carenza di petrolio nel mondo, ndt] di Kenneth Deffeyes, fu pubblicato nel 2001 ed ebbe una vasta diffusione (M. King Hubbert fu un geologo petrolchimico che sviluppò per primo l’equazione che prevede il picco). Molti ambientalisti sostengono inoltre che una nuova linea politica riguardo alle fonti di energia debba sottolineare l’importanza dello sviluppo di alternative ai combustibili fossili, visti i crescenti segnali di riscaldamento globale. Ma Cheney, ex amministratore delegato di Halliburton e fedele alleato di molti industriali del petrolio, aveva in mente altro; benché abbia avuto incontri con i senior executive delle più grandi aziende statunitensi del settore dell’energia, non ebbe alcun colloquio con rappresentanti delle organizzazioni ambientaliste.

La relazione finale della task-force di Cheney, il National Energy Policy (Nep), pubblicata il 16 maggio 2001, contiene 105 consigli, ma su soltanto uno di questi tutti o quasi i notiziari hanno concentrato la propria attenzione: l’invito a trivellare nella zona dell’Arctic National Wildlife Refuge [4]. Gli ambientalisti levarono gli scudi, e il Congresso deve ancora dare il via libera. Ma l’eccessivo risalto dato al progetto di trivellazione dell’Artico ha avuto la spiacevole conseguenza di deviare l’attenzione dalle implicazioni più profonde della relazione: il suo impegno alla perpetuazione dell’Era del Petrolio con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo.

Cheney fu sul punto di rivelare il suo obiettivo quando il 30 aprile 2001 disse ai cronisti, due settimane prima dell’annuncio della Nep: «La conservazione può essere un segno di virtù personale, ma non basta per edificare su basi solide e vaste una linea politica sull’energia». Il petrolio e gli altri combustibili fossili – disse – rimarranno la principale fonte di energia degli Usa «negli anni a venire». La Nep invitò poi, per realizzare i suoi obiettivi, ad aumentare le trivellazioni non solo nell’Artico ma anche in altre aree naturalistiche protette, in terreni pubblici dell’ovest del paese, e fuori dalla superficie del continente. Ma soprattutto, la relazione affermava apertamente che gli Usa sarebbero diventati più, non meno, dipendenti dalle importazioni, ed esortava il Presidente ad assumere un ruolo più attivo per assicurare l’accesso degli Usa alle riserve energetiche straniere. Di tutti i consigli contenuti nella relazione, circa un terzo sono mirati a rafforzare la partecipazione degli Stati Uniti al mercato petrolifero mondiale.

Bush sostiene che la Nep dà grandi sovvenzioni per lo sviluppo dell’energia eolica, di quella solare e di altre energie alternative. Ed è vero che la sua amministrazione ha assegnato modesti fondi per lo sviluppo di queste tecnologie. Ma si tratta comunque di interventi insignificanti se confrontati con il sostegno dato per incrementare le operazioni di trivellazione sul suolo nazionale e la ricerca di petrolio in terra straniera, una ricerca di cui si può intuire la portata considerando le ripetute visite di Bush, Cheney, Condoleeza Rice e altri politici di spicco nelle capitali dei più importanti stati produttori di petrolio, tra cui l’Angola, l’Azerbaijan, il Kazakistan e l’Arabia Saudita.

C’è inoltre la questione riguardo a quanto la decisione dell’amministrazione Bush di andare in guerra contro l’Iraq sia stata provocata dal desiderio di mettere le mani sul petrolio iracheno (o se sia stata piuttosto volta ad assicurare il dominio degli Usa sul Golfo Persico). Fino a poco tempo fa, l’opinione secondo cui quella in Iraq sarebbe una guerra per il petrolio è stata largamente sostenuta da chi critica la guerra; durante l’ultimo anno, però, si è levata la voce fuori dal coro della classe dirigente di Washington da parte di Alan Greenspan, che ha dichiarato: «Mi rattrista pensare che sia politicamente sconveniente riconoscere ciò che tutti sanno: la guerra in Iraq è soprattutto una guerra per il petrolio». Ma qualunque sia l’obiettivo originario, l’ingente presenza delle forze statunitensi nel mondo arabo e la persistente instabilità dell’Iraq hanno significativamente contribuito alla proliferazione di gruppi terroristici in quelle aree, molti dei quali hanno attaccato gli oleodotti, le raffinerie e le piattaforme di carico, causando sempre più interruzioni ai rifornimenti di petrolio.

Durante tutto l’arco del loro governo, Bush e Cheney hanno lavorato per impedire l’adozione di provvedimenti per la tutela ambientale (come, ad esempio, un più severo standard di riduzione del consumo di carburante per i veicoli), per contrastare lo sviluppo di fonti alternative di energia e di trasporto, e per sostenere alti livelli di consumo di petrolio. Di conseguenza, secondo Bp, il consumo degli Usa è aumentato di un milione di barili al giorno durante la presidenza Bush, mentre la produzione ricavata dai giacimenti nazionali è diminuita quasi della stessa quantità, facendo impennare le importazioni nette di quasi due milioni di barili. Finché i consumatori statunitensi e cinesi non inizieranno una cura dimagrante, e finché non si cominceranno a sviluppare fonti alternative al petrolio, la crisi mondiale dell’energia non potrà che peggiorare.

NOTE

[1] BP p.l.c., nota in precedenza con il nome di British Petroleum, terza azienda mondiale del settore dell’energia, è una multinazionale del petrolio con sede a Londra.

[2] L’ASPO (Association for the Study of Peak Oil and Gas – Associazione per lo studio del picco del petrolio e del gas) è un’associazione formata da diversi scienziati e ricercatori di università e istituzioni europee, fondata dal geologo inglese Colin Campbell con lo scopo di divulgare, appoggiare e analizzare gli studi intorno al “picco di petrolio” e le teorie di Marion King Hubbert riguardo il “picco” e l’esaurimento delle fonti fossili.

[3] Letteralmente “Task force per lo sviluppo della politica energetica nazionale”, aveva il compito di «sviluppare una politica energetica nazionale finalizzata a aiutare il settore privato, e, se necessario, anche lo Stato e i governi locali, promuovere una produzione e una distribuzione di energia per il futuro che sia affidabile, sostenibile e sicura per l’ambiente».

[4] L’Artic National Wildlife Refuge (“Rifugio Nazionale della Fauna Artica”), situato nella parte nord orientale dell’Alaska, oltre il circolo polare artico, è un Parco Nazionale Statunitense, privo quasi completamente di segni di civilizzazione, ricco di lagune e fiumi, e popolato da una ricca fauna (orsi polari, grizzly, caribù, bovi muschiati, volpi, foche, ecc). Secondo alcuni ricercatori, l’estrazione di petrolio nella zona sarà possibile solo per alcuni mesi in quanto i giacimenti di petrolio sono molto modesti; come risultato è ipotizzabile invece il solito scempio dell’ambiente. È possibile saperne di più al seguente indirizzo http://www.savearcticrefuge.org/.

Michael Klare insegna “peace and world security studies” [studi sulla pace e sulla sicurezza mondiale] all’Hampshire College. Il suo libro “Rising Powers, Shrinking Placet: The New Geopolitica of Energy” è in uscita a settembre.

Titolo originale: “Past Its Peak

Fonte: http://www.lrb.co.uk/
Link
14.08.2008

Traduzione a cura DI PAOLO YOGURT per www.comedonchisciotte.org

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