DI REMI KANAZI
Dissident Voice
Potrebbe esserci stato un tempo in cui tutte le strade portavano a Roma, ma per il popolo palestinese, tutte le strade portano ad un checkpoint. Il più recente dei checkpoint con cui i Palestinesi hanno dovuto fare i conti non era presidiato da Israele, ma piuttosto da quell’apparente mediatore del processo di pace Israelo-Palestinese che è il Quartetto composto dagli Stati Uniti, la Russia, l’Unione Europea e le Nazioni Unite.
Il presidente Palestinese Mahmoud Abbas si è presentato a quest’ultimo
checkpoint in rappresentanza del popolo Palestinese nella speranza di poter riuscire ad attraversarlo e di trovare dall’altra parte un’estensione del processo di pace. Per quale ragione ad Abbas non è stato permesso di
attraversarlo? Perchè per la prima volta sin dai tempi della traversata di
Yasser Arafat, si è rifiutato di lasciarsi alle spalle gli interessi del
popolo Palestinese.Abbas deve ancora imparare pienamente una lezione fondamentale: più
l’animale da circo si dimostra intenzionato a saltare attraverso i cerchi
del domatore, e più numerosi saranno i cerchi nei quali il domatore chiederà all’animale di saltare. Mettere da parte le necessità dei Palestinesi non equivale ad essere flessibili. Dimostrarsi accondiscendenti nei confronti
delle richieste presentate dal Quartetto può anche permettere la conquista
dei titoli di testa in Occidente, ma tutto questo non renderà la vita più
facile per i 3.8 milioni di Palestinesi che vivono nei territori occupati.
Gli 86 milioni di dollari che gli USA hanno previsto di trasferire ad Abbas
non rappresenta altro se non una bustarella per indurre Abbas a vendere la propria gente. La formazione di un governo di unità nazionale composto da Hamas e da Fatah, conosciuto come l’accordo della Mecca, è stato il passo giusto per il popolo Palestinese e la giusta decisione da parte di Abbas.
Il primo obiettivo del governo di unità nazionale sarà quello di porre fine
alla lotta di fazione fra Hamas e Fatah. Il secondo obiettivo sarà quello di
porre fine alla politica della fame, che è stata imposta sul popolo
Palestinese dall’Occidente e da Israele a seguito della travolgente elezione
di Hamas nelle elezioni parlamentari dell’anno scorso. Il governo
Palestinese non può funzionare propriamente se manca delle risorse
necessarie a soddisfare i salari della popolazione Palestinese e delle loro
malnutrite famiglie. Data la retorica Statunitense e il suo iniziale rigetto
del governo di unità nazionale, non c’è ragione per credere che ci sarà un
significativo miglioramento economico nei territori occupati. Quindi, il
fermento continuerà ad essere lo status quo e, unità o meno, i territori
occupati continueranno a cadere in pezzi.
Anche se Abbas viene visto come un’alternativa moderata ad Hamas, il Primo Ministro israeliano Ehud Olmert non lo ritiene degno di molta fiducia.
Olmert vede Abbas come qualcuno a cui volgere la propria attenzione solo
quando gli Stati Uniti ne hanno bisogno. Sfortunatamente, l’unica volta in
cui la amministrazione Bush lo ritiene necessario allo scopo di ringiovanire
il processo di pace Israelo-Palestinese è quando una fresca debacle incita
un accresciuto dibattito sulla guerra in Iraq [come per esempio il
formidabile fallimento di Bush nel vendere al popolo Americano un aumento nel numero delle truppe schierate in Iraq]. Gli altri partecipanti del Quartetto hanno fatto ben poco per esercitare la loro influenza sugli Stati Uniti o su Israele. Indipendentemente, il Primo Ministro Britannico, Tony Blair, ha asserito che esistono delle componenti “sensibili” in Hamas con i quali l’Occidente può discutere. Convincere gli Stati Uniti che in Hamas esistono forze moderate non è semplicemente un compito arduo; è una missione che Blair non ha alcuna intenzione di intraprendere. Questa mancanza di spina dorsale è un problema che plagia l’Unione Europea, le Nazioni Unite tanto quanto gli Stati Europei e quelli Arabi in generale.
Quest’ultima fiammata del processo di pace non è stata nient’altro se non la possibilità per la Segretaria di Stato Condoleeza Rice di farsi scattare
qualche foto opportunistica e per riaffermare ufficialmente che i
Palestinesi “non ricorreranno ai loro metodi terroristici”. Quello che
ancora manca nei discorsi della Rice e di Olmert tanto quanto negli organi
di stampa che hanno seguito gli eventi di questa settimana sono le
responsabilità di Israele durante la prima fase della Roadmap. La fase uno
della Roadmap richiede al popolo Palestinese il riconoscimento di Israele e
la rinuncia alla violenza. Ma richiede anche ad Israele di congelare
qualunque espanzione dei propri insediamenti, compresa la attività che è
“necessaria” per la crescita naturale. Israele, tuttavia, ha fatto
praticamente l’opposto di questo: ha accellerato l’attività degli
insediamenti e si è rifiutata di smantellare i suoi avamposti illegali.
Inoltre, anche dopo il drammatico calo della violenza Palestinese – e il
marcato aumento della violenza Israeliana – Israele non ha fatto niente per migliorare le condizioni di movimento in tutta la Ciscgiordania e continua ad usare la punizione collettiva contro il popolo dei territori occupati.
Secondo la legge internazionale e innumerevoli risoluzioni delle Nazioni
Unite, le condizioni della fase uno della Roadmap non sono un prerequisito
legale per porre fine alla occupazione Israeliana. L’occupazione non è una
struttura a cui Israele ha alcun diritto. Mettere fine alla occupazione non
dipende dal riconoscimento ufficiale di Israele e del suo diritto ad
esistere da parte dei Palestinesi, e non dipende neanche dalla rinuncia
verbale del popolo Palestinese alla violenza.
Anche se si guardasse ai termini delle richieste del Quartetto, in linea di
principio Hamas ha rispettato le tre condizioni che sono state presentate.
Sin dal 2005, il gruppo si è attenuto ad un auto imposto cessate il fuoco e
in diverse occasioni ha indicato le possibilità per raggiungere una hudna
[armistizio] di lunga durata. Anche se Hamas non ha verbalmente
“riconosciuto Israele”, ha ammesso l’esistenza di Israele e non ne ha
cercato la distruzione, un punto che è rinforzato dalle loro richieste per
un armistizio di lunga durata. Terzo, Hamas ha affermato ripetutamente di
essere disposta a negoziare con Israele attraverso un interlocutore quale il
Presidente Abbas. Entrambi i partiti, Hamas e Fatah, basano la propria
piattaforma politica sulla soluzione dei due stati – la via che è
riconosciuta a livello internazionale per porre fine al conflitto Israelo –
Palestinese. Hamas non è la stessa organizzazione del 1988 e trattarla come se ancora lo fosse serve solo all’agenda di coloro che non hanno alcun interesse per la pace e preferiscono il dominio e la continuazione dello status quo.
L’assedio di un popolo ha il solo effetto di provocare l’erosione della
moderazione, fomenta l’odio e trascina i Palestinesi e gli Israeliani
indietro nel tempo, verso frangenti del passato alquanto oscuri. Questo
potrebbe essere il piano della amministrazione Israeliana e sicuramente
trova d’accordo molti nella amministrazione Statunitense, ma non fa niente
per la pace, e si limita ad offuscare le prospettive di un futuro che deve
essere fondato sulla fine della occupazione, la fine delle sanzioni
economiche e l’inizio di una reconciliazione fondata sulla giustizia per
entrambi i popoli.
Remi Kanazi è il co-fondatore del sito web di ambito politico
www.PoeticInjustice.net. È l’editore del libro di poesie di prossima uscita, Poets for Palestine; per maggiori informazioni visitate Poetic Injustice. Gli si può scrivere all’indirizzo di posta elettronica – [email protected].
Remi Kanazi
Fonte: http://www.dissidentvoice.org
Link: http://www.dissidentvoice.org/Feb07/Kanazi24.htm
24.02.2007
Traduzione a cura di Melektro per www.radioforpeace.info e
www.comedonchisciotte.org