DI G.
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Si sta verificando qualcosa di importante in Turchia non so se ve ne siete accorti, e accade in un contesto di certo non facile per chi ci vive e vuole uscir fuori dalla situazione attuale, nel mentre l’Europa sta a guardare imbarazzata e in continua alternanza di sentimenti per paura che il famigerato sportello migranti venga aperto a tradimento. Invece di trovare il coraggio, per una volta, di fare la cosa giusta schierandosi con un popolo, una buona parte di esso, meritevole di profonda attenzione.
A questo punto tento di spiegare cosa sta accadendo partendo dal punto di vista di un cittadino “onorario” come il sottoscritto; onorario in quanto paese d’adozione, sposato, fate voi. Un po’ il caso dei parenti che non possiamo scegliere e ce li teniamo così come sono, anche la patria segue lo stesso iter d’accettazione: non puoi decidere dove nascere. Però puoi stabilire dove vivere, con chi condividere la tua esistenza, e buona pace dei parenti.
La Turchia l’ho scelta, Istanbul, la costa egea, la sua storia, la natura lussureggiante sono stati un pugno nello stomaco venti lunghi anni fa, quando ancora non c’era Erdoğan: anzi c’era ma in carcere per “incitazione all’odio su base religiosa”, quando faceva parte del partito del benessere, sciolto mesi prima per incostituzionalità e minaccia per il secolarismo turco, cardine ideologico della Repubblica Turca; è bene ricordarle queste cose che non sono quisquilie e che aiutano a creare la base discorsiva di quanto segue.
Tornando al mio flirt, il vero galeotto è stata la gente, il popolo, orgoglioso di essere turco, una nazione: finalmente! Per me orfano di quella patria, italiana, tristemente non pervenuta, tranne durante i campionati del mondo di calcio, nel qual caso ci sentiamo uniti, è stato come rinascere. In buona sostanza l’Italia era il parente che salutavo, lasciando la cultura di provincia, per fidanzarmi e abbracciare quel paese dove in ogni dove è presente la statua del suo fondatore Mustafa Kemal Atatürk, con sotto scritto “felice colui che dice di essere turco”.
Non mi dilungo nel tessere le lodi della mezzaluna, sarei fazioso, e poi basta visitare Istanbul per capire di quali emozioni stia parlando: con questo non sto affermando non vi siano difetti, problemi, storture, brutture, ci mancherebbe. Esistono, fanno parte del paese; io voglio parlarvi delle fondamenta.
Sono di parte dicevo, ciò non toglie che l’obiettività non mi fa difetto. Ci tengo molto ad applicare questo esercizio intellettuale, che ritengo fondamentale per ogni analisi equilibrata, ma riconosco umanamente troppo spesso difficile.
Gli anni passano, l’amore cresce, gli investimenti emotivi anche, fino al 2013 anno di Gezi Parkı.
Lì un misto di rabbia, odio e immenso orgoglio (di essere cittadino turco) determinerà l’inizio del mio divorzio mentale dal bicchiere mezzo pieno.
Anche qui non voglio approfondire troppo gli eventi in questione, sappiate solo che furono qualcosa di inenarrabile a parole, bisognava viverli. Un popolo che si desta davanti all’arroganza distruttiva del becero consumismo (demolire lo storico parco di Gezi a favore di un centro commerciale) come Davide contro Golia, dato che l’uomo della strada benché unito a tanti altri, non disponeva di TOMA (i blindati dotati di cannoni ad acqua) e proiettili di gomma.
Ragazzi che si organizzano in modo incredibile, tramite Twitter e altri social (finalmente utili a qualcosa) mettono su proteste di un’intelligenza e civiltà invidiabili, non reagendo mai e sottolineo mai alle mila provocazioni della polizia, che non vedeva l’ora di applicare i feroci ordini repressivi impartiti.
Mamme scese in piazza con i figli e tanto, tanto altro materiale che andrebbe studiato nei libri di scuola, datemi fiducia almeno in questo.
Vittoria di Pirro che sia stata, al momento Gezi Parkı è lì e il centro commerciale no, al costo enorme di tanti feriti e 8 morti. In Italia inimmaginabile una protesta del genere, durata mesi e vorrei poter dire ancora presente oggi pur se in modalità differenti.
Fino al giorno prima Erdoğan era un leader come altri, con un certo seguito e alla ricerca di sempre più potere, nulla di nuovo per me abituato a vedere da anni poltrone governative dotate di colla super forte.
Ma Gezi rappresentò il bivio, e il re divenne nudo. La violenta reazione ad opera della polizia, che seguiva specifiche indicazioni, dimostrò quanto quest’uomo non si fermasse davanti a nulla pur di arrivare dove è oggi. Inoltre mettendo in chiaro un altro lato preoccupante, o con lui o contro di lui, e in tutto ciò di politica ve n’è ben poca.
Pieno di orgoglio e di costernazione per gli eroi civili, come molti altri attesi le elezioni, convinto che il popolo tutto non potesse non tener conto di ciò che avvenne: il G8 di Genova al confronto fu una passeggiata nei boschi per intenderci.
D’accordo, l’alternativa all’uomo forte si trovava all’opposizione, e non era altro che il CHP, lo storico partito kemalista, molto seguito e votato ma capitanato da Kılıçdaroğlu, leader oramai vetusto, inadeguato e anch’esso incollato ben bene allo scranno. Il punto era che qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di un despota pericoloso.
Invece nulla, elezioni vinte da AKP e Erdoğan sempre più in ascesa.
Sintetizzando all’estremo, tra tradimenti, volta faccia, giornalisti e giudici arrestati, processi scandalo verso la famiglia del nuovo sultano archiviati non si sa bene come e perché, ad ogni appuntamento politico la vittoria è la sua.
Ma come? E tutta quella gente cresciuta sotto l’egida di Atatürk, il “padre di tutti i turchi”, dove è finita?
Spesso gli amici e parenti italiani, tutto d’un tratto esperti turcologi, mi chiedevano (chiedono tutt’ora) come fosse stato possibile che…
Inutile ricordargli che in Italia la situazione a tratti forse era ed è peggiore da anni: si tende sempre a sentire il puzzo nelle case degli altri.
Tuttavia in cuor mio l’obiezione la muovevo per primo.
D’altronde in democrazia il 51% vince e decide, il 49% va a casa e incassa la sconfitta.
Però la questione è ben più grave di semplici numeri, anzi sono proprio i numeri a spaventare, perché circa 41 milioni di turchi amano Erdoğan, mentre 39 milioni lo odiano. Non so se riesco a rendere bene l’idea, qui non abbiamo una semplice alternanza politica, una sconfitta politica accettabile del tipo “cazzo ancora Berlusconi, vabbè vediamo che fa semmai alla prossima D’Alema” (mi spiace per i tristi esempi ma questo abbiamo avuto: per fortuna oggi Gentiloni ci governa, dopo Renzi, Monti…), no qui da una parte c’è venerazione (non proprio, ma di certo un buon 25/30%) e dall’altra acredine vera e propria, la qual cosa non depone a nulla di buono, e l’aria respirabile è quella della polvere da sparo.
Questa è la democrazia, imperfetta ma è il meglio che abbiamo.
Veniamo ad oggi.
Mentre scrivo si è tenuto un referendum di importanza epocale: in soldoni Erdoğan vuole la repubblica presidenziale e con poteri praticamente infiniti al presidente, cioè vestire una dittatura col mantello democratico, ossimoro pericoloso.
Dicevo del mio “divorzio”.
Quando ti svegli dall’innamoramento e inizi a vedere con lucidità ciò che ti contorna, decodifichi i messaggi che gli occhi trasmettono al cervello in modo sorprendentemente nuovo. Ecco che la donna con il velo, fino a ieri nulla più di un folclore locale al pari della signora calabrese tinta di nero e rosario in mano, si trasforma nel nemico: elettore di Erdoğan.
Si, quest’uomo che con invidiabile sfacciataggine accusa l’opposizione di ciò, è riuscito nella pericolosa missione di dividere e fomentare l’odio tra persone della stessa nazione. La Turchia è il paese laico per eccellenza, dove i simboli religiosi fino a pochi anni fa erano vietati negli uffici pubblici, scuole, università, per cui una donna con il velo non poteva lavorare alle “poste”.
Questa disposizione, stabilita dalla mente illuminata del padre fondatore, portò molte persone ad abbandonare l’approccio religioso cosiddetto praticante, cioè a mettere delle distanze tra culto e vita pubblica, che doveva rimanere un fatto puramente personale e all’interno delle mura domestiche, per strada, o moschea che fosse. Ed era il quadro della Turchia fino all’anno 2013.
Poi il divieto cessò e crebbe in modo imbarazzante la presenza delle signore “turban” e relativi mariti, che per far affari con ditte filo erdoganiane non ci misero un secondo ad applicare i nuovi costumi.
Quindi ricapitolando, finisce il folclore e inizia la dimostrazione palese di un voto politico, e il condizionamento e la trasformazione graduale di un intero paese verso l’annullamento di Atatürk e la sua voluta modernità. Dettaglio non di poco conto, quel “turban” che vota Erdoğan, contemporaneamente manifesta spudoratamente l’accettazione della violenza e dei morti che gravano sulla testa del sultano. Inaccettabile.
Questa non è la Turchia che conoscevo, non mi sta più bene. Fine di un amore.
Poi, come l’amante ferito, vuoi vedere fino in fondo al barile, forse non te ne vuoi fare ancora una ragione, ti chiedi se veramente buona parte della popolazione stia buttando nel cesso la democrazia, le linee guida del secolarismo; più che altro vuoi capire quale sia la motivazione vera.
Ebbene, la risposta non è la religione fine a se stessa. E chiunque voglia portarla su tali basi non ha capito nulla di questo paese o è in mala fede.
Al turco medio della religione importa molto poco. Non nego che in Anatolia, nei paesi sperduti e in tutte quelle situazioni socialmente difficili Allah venga pregato con assiduità e fanatismo, d’altronde è tipico appunto di una certa povertà e disperazione. Fatevi un giro nelle province italiane povere per scorgere scenari analoghi: parlo di fanatismo, lo specifico, non di estrazione.
Erdoğan utilizza il collante religioso, oltre qualche sacco di riso e carbone, proprio per portarsi a casa il consenso politico in quelle località.
Gli altri, gli evoluti, gli imprenditori, i professionisti e tutto l’indotto, dall’operaio all’ambulante, lo hanno votato perché ha promesso soldi. E i soldi in Turchia sono arrivati, a valanghe, trasformandola in una nazione a crescita di PIL spaventoso, sebbene le vere ricchezze in mano a pochi.
Certo non si sa bene la provenienza di tale abbondanza frusciante, e non è questo l’articolo dove approfondire, ma occorre notare che tranne opere ingenti di cementificazione, palazzinari (o meglio grattaciellari) divenuti miliardari, tunnel sotto il Bosforo che sfidano le leggi dell’ingegneria, e edilizia in generale, quindi spesa interna e indotto imponente, la Turchia non ha industrie pesanti, e ogni lavorazione è per conto terzi (FIAT in primis storicamente presente), attraendo investitori stranieri per produrre a costi inferiori: non a caso viene definita la Cina d’Europa.
Questo significa export relativo, e import impressionante in particolare per le fonti energetiche, e quando esiste una bilancia commerciale del genere, la presunta ricchezza pro capite conosciuta negli ultimi anni è destinata inesorabilmente a finire. O non può durare per sempre. Difatti la disoccupazione sta aumentando, i licenziamenti pure e gli stipendi riconosciuti fino a ieri non possono più essere garantiti.
Uno degli export importanti era il turismo, inutile dire della sua dipartita proprio dopo i fatti di Gezi, i vari attentati, Siria, rapporti in crisi con la Russia, quasi-golpe compreso.
D’altronde a Erdoğan del turismo importa poco, la visione da sultano lo porta su ben altre mire.
Il paradosso è che gli stessi operatori turistici, nonostante ad esempio recentemente il noto portale booking.com sia stato bloccato (perché danneggiava le agenzie locali!), continuano a fare il tifo per lui: booking era una risorsa importante, e molti albergatori stanno maledicendo il gesto sconsiderato del governo, però chiedendo loro cosa avrebbero votato al referendum rispondevano con un devastante “evet” (si). Valli a capire.
Ecco, proviamo a capirli appunto e tiriamo una riga.
Erdoğan scambia i soldi e la “presunta” ricchezza e benessere del paese, con una crescente delega dei poteri decisionali nelle sue mani.
Nessuno si pone domande sulla qualità dei soldi, sulla loro durata, o se stanno vivendo una semplice e a noi ben nota bolla speculativa: l’importante è che la BMW ora la si possa comprare. Visione miope basata sul presente.
Eccoci qui finalmente, i soldi, maledetti, devastanti soldi per acquistare, a fronte dei quali prostituire anima, parenti e padri fondatori.
Da un certo punto di vista sarebbe stato preferibile la motivazione religiosa, stupida che fosse almeno odorava di ideale, affrancato dal vil danaro.
Invece non esiste dio più grande e venerabile del soldo, ed anche il più pericoloso.
Ma non basta questo, le lire non rappresentano l’unica motivazione, benchè preponderante. C’è il nazionalismo, non solo dei poveri, quello nella sua forma più vuota, coloro i quali desiderano il papà forte, autoritario e vogliono vedere la propria patria imporsi sulle altre. Ricordo una conversazione avuta con un tizio che parla italiano, aveva lavorato anni fa nel settore moda per Dolce&Gabbana in Italia pensate un po’, ed era rientrato a casa dopo la perdita del fratello per dare una mano al padre nell’attività di vendita (oli lubrificanti). Sulla carta quindi una persona evoluta, cosmopolita, ma quando affrontammo l’argomento politica fu intransigente, “mi farei tagliare la gamba per Erdoğan!”. E tra le varie motivazioni l’orgoglio per il fatto che la Turchia produca i “missili”. Rasentiamo l’assurdo lo so, ma il distinto signore non è l’unico a pensarla così.
La Turchia è un paese fortemente spaccato culturalmente e socialmente; in Anatolia ad esempio c’è sempre stata molta povertà e ignoranza. L’analfabetismo è ancora una realtà diffusa. Ed è qui che si intravede l’errore epocale e madornale che ha portato questa gente a osannare Erdoğan.
Nei decenni precedenti i vari governi succedutesi, anche quelli kemalisti che portano in se le logiche ataturkiane e il patrimonio intellettuale del paese, si son guardati bene nell’investire in infrastrutture e scolarizzazione nelle aree più remote del suolo turco. Nessun obiettivo pro cultura a favore della regione anatolica. Tutto concentrato tra Istanbul, Ankara, Izmir e poche altre città importanti: un po’ poco se si pensa all’estensione territoriale della Turchia, tre volte l’Italia.
In più nessuno sforzo nell’affrontare la questione curda con lungimiranza, concessioni politiche laddove possibile e concreta integrazione.
Fin troppo facile quindi è stato per il sultano dare risposta al buco sociale, ottenendone il suo maggior bacino elettorale con cui sbaraglia puntualmente ogni esame politico.
Tali imperdonabili disattenzioni hanno ritorto il coltello proprio contro quella intellighenzia che meriterebbe di governare un paese moderno; invece ora abbiamo figuri politici che urlano ai propri elettori (non è una metafora, i comizi politici, le interviste avvengono esattamente così, come un pastore farebbe fischiando al proprio gregge: ha dell’assurdo ma è una realtà che sembra trasportarci ai tempi mussoliniani, balconi compresi), e la modalità evidentemente premia, galvanizza, seduce i suoi adepti.
Referendum 16 aprile 2017, lo spoglio dice 51% SI, 49% NO, Erdoğan vince ancora.
Ma stavolta c’è un ma. Si perché questa vittoria di misura risibile richiede importanti approfondimenti.
– La campagna elettorale prodotta da mesi è stata massiccia nella misura in cui pochi possono averne idea: tutte le televisioni statali hanno bombardato nell’unica direzione pro AKP. Per decreto governativo, approfittando della discrezionalità data dallo stato d’emergenza (inspiegabilmente protratto di 3 mesi in 3 mesi: una bombetta e via altri 3 mesi), la par conditio è stata abolita!
– L’opposizione e i promotori del NO in pratica hanno dovuto accontentarsi di 3 canali televisivi privati, sostanzialmente di partito quindi senza nessuna possibilità di arrivare agli indecisi di altri schieramenti.
– Invasione di cartelloni stradali in ogni dove e città, a favore del SI.
– Minacce concrete a chi avesse voluto osare di appendere pubblicità contraria.
– Minacce nelle regioni anatoliche di portare via investimenti e sviluppo, posti di lavori conseguenti, in caso non avvessero votato SI (difatti ancora è lì che Erdoğan ha preso il grosso dei voti).
– L’opposizione (CHP e HDP il parito filo curdo) ora sta contestando un terzo dei voti, sembra palesemente contraffatti e irregolari (ultima ora dell’OSCE che da ragione all’opposizione).
– Il presidente turco a differenza delle altre prove, ha perso grandi città come Istanbul, Antalya e la capitale roccaforte Ankara, mostrando fratture all’interno dello stesso partito AKP.
E’ chiaro ora che nonostante quanto sopra esposto quel misero 1% significhi ben altro da una vittoria (tra l’altro ancora da dimostrare) e che qualcosa è cambiato e non poco, il giocattolo probabilmente inizia a rompersi.
Tra le mie riflessioni da bar c’è quella che mi vede comprendere un 50% di persone “ingenue” (utilizzare il termine “stupide” potrebbe sembrare appropriato ma spesso ingiusto, oltre non elegante) in ogni paese, ci sta confessiamocelo senza peli sulla lingua; in ogni famiglia e nazione i numeri son questi, in alcuni casi peggio. L’ingenuità spesso legata ai fattori chimerici di cui sopra fa parte del genere umano, è insita nell’uomo, altrimenti in USA non avrebbero eletto Trump come capo della più grande potenza distruttiva al mondo.
Poi però ci si sveglia, e tolto lo zoccolo duro che “ingenuo” rimane, il resto non può imboccare la strada della regressione.
E ci sono delle occasioni, come questo referendum, che si trasformano in esame, un test per verificare quanto questo 50% sia effettivamente “ingenuo”, perché bisogna dare una seconda chance a tutti.
Allora come e perché affermo che abbia vinto il NO?
Perché nonostante il dio danaro, i missili e il desiderio di un nuovo impero ottomano, i turchi sono anche altro, e in grado di sorprenderti continuamente. Un popolo dalle tinte forti, pieno di contraddizioni, ma allo stesso tempo coraggioso e passionale, in grado di pensare al bene collettivo non solo individuale; e nonostante gli sforzi demolitori di Erdoğan certi valori non sono rimasti scritti solo nelle innumerevoli statue di Atatürk sparse per il paese, ma radicati ancora in fondo all’anima di moltissimi, roba non in vendita.
Due esempi tra tanti per rendere l’idea.
Poche ore fa, una donna medico della mutua, militante del partito kemalista, dopo aver speso mesi nel condurre porta a porta la campagna di sensibilizzazione del NO, si è vista annullare tutti gli sforzi e i sacrifici dalla commissione turca vigilante sulla corretta applicazione della legge elettorale (YSK), che invece di rifiutare schede non valide, cambia la regola il giorno stesso per ammetterle (2,5 milioni di schede senza i dovuti timbri), abusando tra l’altro dei propri poteri che appunto sarebbero squisitamente di vigilanza: tale contravvenzione è l’oggetto della contestazione dell’opposizione e dell’OSCE.
Il medico ha deciso di licenziarsi dal lavoro statale per protesta e si recherà a piedi da Istanbul a Ankara, sede dell’agenzia YSK.
Per l’altro esempio guardate il video.
Lo descrivo per chi ovviamente non conosce il turco, e sia perché il link domani potrebbe non funzionare più.
La scena è questa, siamo a Istanbul 2 giorni prima del referendum, su un “motor”, un piccolo battello che fa avanti e indietro nel Bosforo collegando Asia e Europa. Squilla il cellulare di un ragazzo, ma non è una suoneria normale, è l’inno di Izmir, ricordo della prima guerra mondiale, occasione nella quale Atatürk sconfisse inglesi, francesi, greci e italiani rispedendoli a casa, insieme alle loro ambizioni colonialiste.
Un signore si schernisce chiedendo di spegnerla “tu chi sei il salvatore della patria ora?”, la tensione sale e gli altri presenti iniziano a stigmatizzare l’osservazione del tizio, invitandolo a calmarsi. Nulla, lui insiste. Ad un certo punto una donna inizia a cantare l’inno e, cazzo, pian piano gli altri le vanno in coro. Roba da pelle d’oca.
Ecco signori, questo accade in Turchia, nella quotidianità, ovvero nella realtà, ancora oggi e quando si supera un determinato limite oltre il quale non si può più andare. Ecco cosa mi fece innamorare 20 anni fa. Ecco perchè ha vinto e vincerà sempre il NO!
G.
Fonte: www.comedonchisciotte.org
17.04.2017
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