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La Redazione

 

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SERVE UNA TERAPIA D'URTO O LE BORSE RISCHIANO LA CHIUSURA

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A cura di God
Il 18 Settembre 2008
29 Views

DI MASSIMO GIANNINI
La Repubblica

Il racconto di un trader: ormai il sistema è al collasso. “Sta accadendo qualcosa di inimmaginabile, mai visto prima”

“FORSE non avete capito cosa sta succedendo. Qui il problema non è Wall Street che perde il 4%. Qui siamo a un passo dal collasso totale dei mercati, dalla crisi del sistema finanziario globale”.

Il noto trader milanese consulta le carte, snocciola le cifre, riordina i fatti, e in cima alla giornata più drammatica e indecifrabile di questo Settembre Nero dei mercati avanza l’ipotesi più funesta: “Non si può escludere nulla. Nemmeno che da un momento all’altro si decida la chiusura delle principali Borse mondiali…”.

Benvenuti nel Nuovo ’29. Evocata, temuta, ma in fondo mai presa sul serio, la “crisi di sistema” del capitalismo finanziario globale si materializza nelle parole dell’operatore che la sta vivendo in presa diretta, minuto per minuto. È anonimo, e non può essere diversamente, perché quello che dice è talmente preoccupante da non poter essere “firmato” da chi, ogni giorno, compra e vende titoli per milioni di euro. “In questo momento – spiega – ogni parola può creare altro panico, ed è meglio evitare…”.

A seguito: Capitalismo di Stato, di Federico Rampini (La Repubblica) Ma se quello che racconta è vero – e a giudicare dall’andamento degli scambi sui mercati e dalle mosse delle autorità politiche e monetarie non possiamo dubitarne – il panico è già abbondantemente giustificato. “Sta accadendo qualcosa di inedito, che non abbiamo mai visto prima. Dall’America si sta diffondendo una crisi di fiducia senza precedenti, tra banche e banche e tra banche e clienti. Una crisi che colpisce in prima battuta quelle che un tempo avremmo chiamato le “Big Five”, cioè le grandi “investment banks” : Bear Stearns, Lehman Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs. Le prime due ce le siamo già giocate, la terza prova a salvarla Bank of America, ma ora il punto è che stanno finendo nel mirino anche le altre due”.

Non a caso, i titoli Morgan e Goldman, a New York, sono letteralmente crollati, lasciando sul campo oltre il 40% del proprio valore. “Ma quello è solo il sintomo, la febbre – spiega l’operatore – perché la malattia è molto più grave. E la malattia è questa: dopo il crac della Lehman gli investitori istituzionali, e soprattutto gli hedge funds, stanno chiudendo le proprie posizioni presso le grandi banche d’investimento americane, perché non si fidano più della loro solvibilità. Questo sa cosa significa? Significa il collasso dei mercati azionari e obbligazionari mondiali, il “meltdown” totale di tutti gli scambi finanziari del pianeta”.

Non è un’esagerazione. È la pura realtà, che deriva da un dato di fatto che ci porta a riflettere sulle distorsioni del modello capitalistico “drogato” da Greenspan e cavalcato da Bush: “Queste grandi “investment banks” muovono ogni giorno trilioni di miliardi di dollari. Hanno in custodia, in regime di sostanziale monopolio, la quasi totalità dei titoli posseduti dagli investitori istituzionali e dagli hedge funds di tutto il mondo.

Ora, se questi ultimi cominciano a ritirarli, perché temono il default delle stesse banche d’affari, non si rischia solo qualche altro “fallimento eccellente”, ma si blocca tutto il meccanismo che regge i mercati finanziari. Glielo spiego con un esempio: le banche d’affari sono il “motore” del sistema finanziario globale. I loro clienti, investitori istituzionali ed hedge funds, sono l’olio che fa girare quel motore. Nel momento in cui l’olio viene a mancare, perché i clienti smettono di versarlo, il motore fonde, e la macchina è da buttare”.

Questa è la posta in gioco. “Con un’aggravante. Investitori ed hedge funds chiudono le loro posizioni, e per esempio sulla piazza di Londra stanno cercando di dirottare i propri investimenti sulle grandi banche “retail”, che al momento sembrano più sicure: Deutsche Bank, Santander, Bnp. Ma ormai non funziona più neanche questo, perché i mercati, terrorizzati dal fantasma del crac globale, sono totalmente illiquidi. Non si riesce né a comprare né a vendere, perché mancano le controparti.

Per questo la crisi è di sistema, e rischia di travolgere tutto. Non c’è più fiducia. Le mosse di Paulson non convincono nessuno, la gente non crede al salvataggio di Aig, che infatti continua a perdere a rotta di collo, e i “Treasury bond” americani hanno raggiunto un rendimento dello 0,23%, una cosa che non si vedeva da mezzo secolo. Le stesse banche centrali, la Fed e la Bce, non sanno che pesci prendere, perché hanno capito che questo non è un “trend” classico dei cicli borsistici: rialzi e crolli non sono mai stati un problema, figuriamoci, ci siamo abituati, fanno parte del gioco. Il guaio, stavolta, è che è proprio il gioco in sé che si sta rompendo”.

Il trader italiano, di stanza a Piazza Affari, vive ai margini del ciclone finanziario americano. Ma cita altri due indizi, che danno la misura del livello di allarme scattato anche nelle “province” dell’impero del capitale globale: “Primo: stamattina la Banca d’Italia ci ha chiesto di fornirgli entro mezz’ora, e dico entro mezz’ora, le posizioni aperte con Lehman da tutti noi operatori nazionali: una roba mai successa. Secondo: nel pomeriggio abbiamo vissuto momenti di forte tensione, perché neanche la Cassa di compensazione aveva più liquidità sufficiente. Cioè: la Cassa non paga, noi non paghiamo, e così tutto l’ingranaggio va in tilt da un momento all’altro”. Il tema vero è: ci si può ancora salvare da questo Nuovo ’29 che incombe?

L’operatore spera, ma non si avventura: “Parliamoci chiaro: qui, se siamo ancora in tempo, ci sono solo due possibilità per non far fondere tutta la macchina. La prima possibilità è che almeno un paio di grandissime banche commerciali di dimensione mondiale, che so, Hsbc tanto per fare un nome, si comprino le banche d’affari americane a un passo dal tracollo: operazione possibile, anche se molto complicata, che richiederebbe comunque una fortissima “moral suasion” da parte del potere politico. La seconda possibilità è che invece sia proprio la politica americana a fare il passo più estremo, nazionalizzando Morgan e Goldman prima che sia troppo tardi. Operazione complicata e forse impossibile, se non al prezzo di addossare ai contribuenti i costi enormi del doppio salvataggio e snaturare per sempre il modello liberale del capitalismo Usa”.

Altre soluzioni, per il trader milanese, non ne esistono. E oltre tutto bisogna fare presto, perché la velocità con cui questa crisi si sta avvitando su se stessa è impressionante. Per questo, in attesa che qualcuno decida qualcosa, l’operatore ipotizza addirittura il ricorso all’arma fine di mondo: “Se questo è il clima, ci può stare anche che le autorità decidano, da un giorno all’altro di chiudere le Borse. È un’ipotesi estrema, è chiaro, che in Italia è successa solo nel luglio ’81 dopo lo scandalo P2, e in America dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre. Ma ora come ora non mi sento di escludere niente. Qualcosa bisogna pur fare. Bisogna prendere il toro per le corna. Anzi, stavolta bisogna prendere l’orso per la coda, visto che sul mercato, di tori, non ce ne sono più”.

Massimo Giannini
Fonte: http://www.repubblica.it/
Link: http://www.repubblica.it/2008/09/sezioni/economia/borse-7/abisso-hedge/abisso-hedge.html
18.09.2008

CAPITALISMO DI STATO

DI FEDERICO RAMPINI
La Repubblica

Le drammatiche convulsioni dei mercati segnano la fine di un’epoca, e la fine del capitalismo americano come lo avevamo conosciuto. La nazionalizzazione della più grande compagnia assicurativa mondiale, l’American International Group rilevato dalla banca centrale Usa con un’iniezione salvavita di 85 miliardi di dollari, è stata un gesto estremo. Non ha precedenti in un secolo di vita della Federal Reserve. A malincuore l’autorità monetaria ha dovuto allargare a dismisura il proprio campo d’intervento, sobbarcandosi addirittura il controllo diretto di un gigante assicurativo, al termine di dieci giorni che hanno sconvolto le regole del gioco e ridisegnato la geografia dell’economia di mercato. Alle prese con una crisi storica, l’America diventa suo malgrado la patria di un nuovo capitalismo pubblico, dettato da uno stato di necessità. E’ l’epilogo drammatico di un decennio di eccessi della finanza.

Se doveva arginare il panico delle Borse, la nazionalizzazione dell’Aig sembra un fiasco: ieri l’onda di paura non si è placata. Ma attenzione, non si può sapere che cosa sarebbe accaduto in assenza di questo inaudito salvataggio statale. Aig ha 116.000 dipendenti, quasi cinque volte quelli della banca d’affari Lehman lasciata fallire appena 48 ore prima. Aig emette polizze vita e gestisce fondi pensione per decine di milioni di famiglie; l’impatto sociale di una sua bancarotta poteva aprire una falla inquietante nel sistema del Welfare privatistico. Infine e soprattutto, l’Aig si era sciaguratamente “diversificata” in nuovi mestieri finanziari, come l’emissione di complessi contratti di assicurazione contro il rischio-fallimento (Credit Default Swaps).

Nati come strumenti di copertura del rischio, questi titoli “esoterici” sono diventati un immenso business speculativo con diramazioni nel mondo intero. Nell’impossibilità di onorare i suoi debiti, Aig si trovava quindi al centro di una ragnatela di rapporti finanziari con tutte le assicurazioni, banche e istituzioni finanziarie del pianeta, che rischiava di trascinare con sé nel disastro. Ancora più della dimensione sociale, è questo rischio sistemico che ha fatto vacillare la fermezza di Ben Bernanke.

Il banchiere centrale che a marzo aveva dovuto allungare un “aiutino” di 30 miliardi a JP Morgan Chase per farle comprare la Bear Stearns, e che due weekend fa aveva scaricato sul contribuente americano i colossi dei mutui Fannie e Freddie (costo minimo 120 miliardi), domenica scorsa aveva finalmente opposto un secco no alle richieste di salvataggio della Lehman. Il presidente della Fed sentiva di dover scrivere la parola stop, tracciare un limite alla catena di salvataggi. Sentiva montare l’insofferenza contro l’establishment di Wall Street, la cui ingordigia e i cui errori micidiali vengono ora “abbuonati” con la socializzazione delle perdite. Ma i principii severi non hanno retto alla prova dello choc.

Bernanke ha dovuto rinnegare la sua linea del rigore di fronte all’evidenza: era semplicemente inconcepibile affrontare una bancarotta dell’Aig. E tuttavia dopo la nazionalizzazione dell’Aig la reazione dei mercati è stata quell’incubo che Bernanke sperava di evitare. Gli investitori si sono subito chiesti quale sarà il prossimo crac. Morgan Stanley, Goldman Sachs – le due ultime merchant bank sopravvissute alla carneficina – sono finite nel vortice delle speculazioni ribassiste. E se Bernanke scoprisse che anche loro sono “troppo grandi e troppo interconnesse” per lasciarle fallire? Già si affaccia al Congresso di Washington un piano d’intervento eccezionale: la creazione di un maxi-trust federale, finanziato con risorse pubbliche, che nazionalizzi una dopo l’altra tutte le banche che cadranno. L’Iri all’ennesima potenza. Solo il New Deal di Franklin Roosevelt adottò mezzi così radicali, per affrontare le conseguenze della Grande Depressione.

Si può ironizzare sul fatto che queste spregiudicate nazionalizzazioni vengono dalla patria del liberismo e da un’amministrazione repubblicana che venerava lo “Stato minimo”. Oppure ci si può inchinare di fronte a una qualità che caratterizza una certa classe dirigente americana, di cui Bernanke è un perfetto esponente: il pragmatismo. Se siamo di fronte a una crisi di proporzioni storiche, come sostengono Alan Greenspan e Mario Draghi, non serve più a nulla invocare i principii. Perfino la coerenza passa in secondo piano. Quando l’aereo è in picchiata non si chiede al pilota di consultare il manuale d’istruzioni: è il momento in cui la salvezza può dipendere dai riflessi istintivi, dall’intuizione giusta, dalla capacità di navigare a vista. Bernanke e il ministro del Tesoro Henry Paulson procedono a tentoni, con una visibilità nulla sul futuro. Se ce la faranno a uscirne, le nuove regole del gioco le stanno scrivendo loro in queste ore. Altrimenti il giudizio storico sarà pesantissimo.

I “precedenti” non sono di alcun aiuto. Certo l’America fu capace di altrettanto pragmatismo quando sotto Nixon, Carter e Reagan usò denari pubblici per salvare la Lockheed, nazionalizzare temporaneamente la Chrysler, ripianare i buchi di bilancio delle casse di risparmio. Ma nessuna di quelle bancarotte aveva una caratteristica della tempesta attuale: la capacità di destabilizzare l’intera economia globale. Il provvedimento con cui il governo russo ieri ha dovuto chiudere la Borsa di Mosca (un infausto presagio che potrebbe contagiare altri mercati) è emblematico della dimensione nuova di questa crisi.

E’ proprio la dimensione inusitata, quella che fa sorgere un dubbio tremendo: che l’ampiezza della metastasi e la gravità della malattia superi perfino i mezzi della più potente banca centrale e della nazione più ricca del pianeta. Ieri non è sfuggito ai mercati un provvedimento eccezionale: il Tesoro di Washington ha dovuto varare in fretta e furia delle emissioni speciali di titoli per rifinanziare la stessa Federal Reserve. L’autorità monetaria americana – pur essendo per definizione il creditore di ultima istanza, dotato della facoltà di stampar moneta – deve farsi rifinanziare con un nuovo canale di debito pubblico. Dunque ecco il Tesoro che “presta” alla Fed. Ma chi presta al Tesoro? E chi finanzierà il maxi-trust – l’Iri made in Usa – se il Congresso sarà costretto a varare il piano delle nazionalizzazioni bancarie a tappeto?

Certo le famiglie americane dovranno subìre un ridimensionamento del loro tenore di vita, e per generazioni ripianeranno questi debiti con le loro tasse. Intanto i Treasury Bonds (i Bot americani) li abbiamo comprati anche noi, ne sono strapieni i portafogli di tutte le istituzioni finanziarie del mondo: le assicurazioni europee e asiatiche, i fondi comuni italiani, la banca centrale di Pechino. L’effetto-contagio è appena agli inizi.

Federico Rampini
Fonte: http://www.repubblica.it/
Link: http://www.repubblica.it/2008/09/sezioni/economia/borse-7/capitalismo-stato/capitalismo-stato.html
18.09.2008

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