DI ALCESTE
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Il mio impegno antifascista dei bei giorni non si concretò mai nell’antifascismo verbale. Men che mai nell’antifascismo militante contro i fascisti, che ho sempre considerato una parte residuale della politica: al pari dei comunisti.
C’erano milioni di persone che si richiamavano al comunismo e al fascismo, ma solo a chiacchiere. Che il fascista o il comunista fossero segnati antropologicamente dalle rispettive ideologie fu vero sin agli anni Cinquanta. Si può dire, col senno di poi, che tali marchi erano cicatrici, e cicatrici di ferite fisiche e spirituali, destinate, però, a scomparire col volgere d’una generazione.
E così fu, nonostante le P38.
Quando nacqui alla fine dei Sessanta comunismo e fascismo erano già morenti: non informavano più le nostre vite. Il fascista e il comunista si ritrovavano a Fregene a ingozzarsi di panini e frittate; i loro figli erano già attenti ai primi ritrovati tecnologici. A vestirsi con gusto ricercato. Il ricco era ricco e il povero lo invidiava. Il busto di Mussolini serviva ad appendere l’ombrello e Lenin, in attesa del Che, era ormai un poster.
Alla memoria, tuttavia, credevo.
I partigiani, le Fosse Ardeatine, il 16 ottobre 1943, via Tasso, il 5 giugno 1944 erano, per me, circa mille anni fa, date importanti.
Mi piaceva ricordare certe figure, alcuni morti.
Promuovevo dibattiti, anniversari, riscoprivo martiri.
La Resistenza e le sue costellazioni, anche in tale accezione, erano, però, già un guscio vuoto negli anni Ottanta. La gente dimenticava, certo, ma era soprattutto il protervo formalismo degli antifascisti – duri a comprendere la nuova realtà – il vero ostacolo a una condivisione serena del passato.
Anche qui la sinistra si dava come dividuum: da una parte celebrava stancamente, ma a tutti i costi, con quell’aria di superiorità morale che strapperebbe gli schiaffi a un santo, dall’altra monetizzava un sentimento che avrebbe dovuto essere generale.
Si era ridotto tutto a manfrina, a sovvenzione, a parassitismo.
Le iniziative individuali, nuove e meritorie, venivano soffocate dalla burocrazia dei buoni tanto che ogni celebrazione era imposta, e non accettata nella sua intima umanità.
E infatti gli Italiani se ne fregavano altamente.
Più se ne fregavano più la bontà assumeva i contorni del dispotismo.
L’antifascismo, insomma, si fece prima istituzione, poi legge, e perciò coercizione.
Si moltiplicarono aedi, trombettieri e gendarmi.
In tale oligarchia dei buoni si distingueva, netta, la comunità ebraica. Gli Ebrei, almeno quelli di Roma, si lamentavano, sempre e comunque, in modo invasivo.
Bastava non citare una virgola e si metteva subito in moto quell’impasto urtante di vittimismo e arroganza che fa tanto chutzpah e che, una volta, fece saltare la mosca al naso persino a Sandro Pertini, il Presidente “sei condanne e due evasioni”: “Ma che vogliono questi qua?“.
Gli Ebrei sono antipatici, sono difficili da trattare, ma sono vittime.
Vittime più vittime degli altri, però, e, quindi, ancora più antipatici.
È il prezzo da pagare all’imposizione della bontà.
L’antifascismo pretende di essere celebrato a forza.
La Shoah di essere divinizzata come religione laica di Stato.
Risultato: cerimonie di cartapesta in cui tutti fingono una parte.
Le parole del Presidente della Lazio Claudio Lotito: “Andiamo a fare la sceneggiata” (a seguito dell’episodio dell’Anna Frank giallorossa) sono la ovvia e naturale risultante di una serie di errori storici e psicologici nonché una epitome esatta del sentimento popolare.
Un umor nero nascosto ai sondaggi, come sempre accade quando è la propaganda e non la morbida ragionevolezza a dettare la linea grigia del bene e del male.
I rabbini fanno gli offesi, Lotito va in pellegrinaggio, le polizie e la magistratura indagano, intellettuali e parlamentari sgranano il rosario dell’indignazione, ma la situazione è questa qua: di Anna Frank non importa nulla a nessuno.
I giocatori di serie A col Diario in mano sono una tetra barzelletta, forse più di Carlo Tavecchio, presidente della FGCI, che, con quel bel volto limpido e chiaro, va a cospargersi il capo di cenere al Ghetto.
E tutto questo perché non si è voluto considerare un periodo tragico della propria storia sub specie aeternitatis, ma solo come rivalsa; e quando tale strategia cominciò a fallire rovinosamente (e a concretare un crescente rifiuto) la si volle militarizzata, per legge.
È stato messo in circolo il veleno per eccellenza, quello del rancore e del sordo risentimento.
Le coordinate ideologiche del dopoguerra sono svanite del tutto.
Praterie vaste e brumose ci attendono, pronte per disperderci definitivamente; o per inscenare nuovi carnai.
Meglio così.
Alceste
Fonte: http://alcesteilblog.blogspot.it
Link: http://alcesteilblog.blogspot.it/2017/10/qualcosa-su-anna-frank.html
25.10.207