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blankDI MASSIMO GIANNINI
La Repubblica

Nota: Questo articolo è stato rimosso dal sito di Repubblica

Dopo il caso Bear Stearns Paulson e Bernanke parlano di SuperFed. E la Banca centrale europea può diventare il controllore unico? “Ora non ci sono le condizioni dice Lorenzo Bini Smaghi ma urge rimuovere gli ostacoli legislativi alla cooperazione tra le autorità”

Tra le macerie dello tsunami dei subprime ingrassa il temibile virus della sfiducia e cresce l’inevitabile conta delle «vittime». L’America prova a correre ai ripari, l’Europa sta alla finestra. È scienza o incoscienza? A Washington si discute di SuperFed, a Francoforte c’è qualcuno che ragiona di SuperBce? Se provate a girare la domanda ai banchieri centrali al lavoro nel grattacielo dell’Eurotower, la risposta che arriva sembra rassicurante: «Il piano Paulson e la parziale “autoriforma” della Federal Reserve – dice Lorenzo Bini Smaghi, membro italiano del board – vanno nella direzione che la Banca centrale europea va auspicando da tempo». Accentramento e rafforzamento delle funzioni di vigilanza, allargamento dei controlli sui soggetti bancari e finanziari, armonizzazione delle regole sui ratios e sugli standard patrimoniali. «Di più, in questo momento, non si può fare».

Il ragionamento di Bini Smaghi parte da una premessa. Il cuore della crisi dei mercati, stavolta, è al di là dell’Atlantico. E sono gli Stati Uniti a dover cambiare strada, prima ancora che l’Europa. Lo ha capito il segretario al Tesoro Paulson: il suo documento di 200 pagine sulla riforma della vigilanza americana, anche se arriva tardi e non sarà mai approvato dal Congresso prima delle elezioni di novembre, segna una radicale riscrittura della filosofia che in questi ultimi trent’anni ha ispirato la politica mercatistica americana. Lo ha capito Ben Bernanke: la trasformazione di Jp Morgan nella ciambella di salvataggio della Bear Stearns, poiché pubblicizza una perdita privata accollandone il costo ai contribuenti, segna la fine del pensiero unico darwiniano che per quasi un secolo ha regolato il boom finanziario americano. «Con le mosse annunciate in questi ultimi giorni aggiunge Bini Smaghi l’America prova a riaccendere il faro della vigilanza anche sulle banche d’affari. Così colmerebbe una sua lacuna…».

I banchieri centrali europei sono giustamente convinti che l’epicentro di questo terremoto planetario nasca dalle cartolarizzazioni. Dai titolisalsiccia nei quali le banche americane «insaccano» i crediti ad alto rischio sui mutui, li ricollocano sul mercato o li parcheggiano fuori bilancio, lontani dagli occhi «indiscreti» della vigilanza bancaria. Da quelli che George Soros definisce «strumenti finanziari esoterici», come i «Credit default swap», che secondo lo stesso Soros ammontano a qualcosa come 45 mila miliardi di dollari. E anche se nessuno lo dice, i banchieri centrali europei pensano che questo Far West di prodotti finanziari sia l’effetto di una strategia da «todos caballeros» che la Federal Reserve ha seguito in tutti questi anni. All’Eurotower tutti ricordano le modifiche al «Glass Steagall Act», volute a tutti i costi da Alan Greenspan negli anni ’80. Con quella riforma del 1933, subito dopo la Grande Depressione, si fissò il principio della separazione tra le banche commerciali, le banche di investimento e le assicurazioni. Cinquant’anni dopo, fu proprio Greenspan a picconare quelle norme, in un’audizione al Congresso del 6 ottobre 1987: «Le nostre banche sono bloccate da una legge di 50 anni fa, e i loro prodotti sono sempre meno competitivi…». Cominciò così un’offensiva che dieci anni dopo, l’11 febbraio 1999, lo indusse a ripetere all’House Committee on Banking and Financial Services: «Noi siamo favorevoli da molti anni ad eliminare le barriere che impediscono l’integrazione delle attività bancarie, finanziarie e assicurative…». Eliminare le barriere, secondo il pugnace Alan, significava ridurre i controlli, soprattutto su quelle che lui stesso definiva «le affiliate delle banche». Il Congresso americano, di lì a poco, cedette alle pressioni. Le barriere dello Steagall Act crollarono. Così è cominciato tutto. Lì si è aperta la faglia, che ci ha portato al terremoto di oggi. I conflitti di interesse, le cartolarizzazioni, i titolisalsiccia, i subprime, le insolvenze immobiliari, quelle delle carte di credito, quelle sui crediti al consumo. E poca o nessuna vigilanza.

La graduale trasformazione della Banca centrale americana in un formidabile «booster» per la crescita, attraverso una gestione sempre troppo prociclica dei tassi di interesse, ha fatto il resto. E nel panico di oggi, per evitare un Big Crash mondiale, Bernanke è costretto a trasformare la Fed in una Gepi, salvando una banca d’affari con i soldi dello Stato. Una forma di neoassistenzialismo che rischia di imprimere un’ulteriore deformazione al sistema. Nell’ottica europea, se in questo turmoil c’è un peccato originale, lo ha commesso la Fed. E tocca agli americani espiarlo per primi. La Banca centrale europea ha seguito e segue una filosofia diversa, come lo stesso Bini Smaghi ripete attingendo al suo intervento di venerdì scorso alla Harvard Law School di New York: «Come possono le banche centrali gestire al meglio la politica monetaria in una fase di turbolenza finanziaria? Il primo target che dovrebbero fissare, tra le loro priorità, è quello della stabilità dei prezzi. Avendo un obiettivo principale, si evita la confusione e la sovrapposizione con obiettivi secondari, e si lanciano messaggi più chiari ai mercati. La credibilità della Bce nell’impegno contro l’inflazione è la migliore garanzia per mantenere i tassi di interesse sul livelli bassi nel medio periodo, per sostenere la crescita e l’occupazione e per rassicurare i mercati».

Non solo. Secondo Bini Smaghi, tenere salda la barra del timone sulla lotta all’inflazione serve anche a non snaturare il ruolo della Bce. «Il rischio maggiore per una banca centrale, in una fase di turbolenza, è che essa sia sottoposta a pressioni indebite per assumere responsabilità che non le competono, e in particolare per risolvere problemi di solvibilità degli operatori. Al contrario, una banca centrale dovrebbe avere la sola responsabilità di garantire un adeguato funzionamento del mercato monetario e di stabilire i propri target attraverso precise chiavi operative. Questo è quello che la Bce ha fatto finora, intervenendo con operazioni di rifinanziamento con un occhio sulla stabilizzazione del tasso overnight. Le banche commerciali non lo hanno compreso fino in fondo. Ma questo è quello che la Bce continuerà a fare…». Come dire: non aspettatevi che Francoforte intervenga per salvare una banca, se anche nell’Eurozona si verificasse un caso Bear Stearns o un caso Northern Rock. «Questo alla Banca centrale europea non potete proprio chiederlo: non è il suo mestiere e non deve diventarlo».

Ma di qui a pensare che l’inferno dei reprobi sia solo l’America e l’Europa viva nel paradiso dei giusti ce ne corre. «Certo osserva ancora Bini Smaghi anche noi dobbiamo stringere le maglie della vigilanza, rendere più approfonditi e stringenti i controlli, e migliorare il grado di armonizzazione normativa tra le diverse autorità nazionali». E questo, per l’Europa, è un problema altrettanto grande di quanto non lo sia quello dei derivati per l’America. La Bce ha poteri assoluti sulla politica monetaria, ma non ne ha affatto sulla politica bancaria. Il rapporto del Financial Stability Forum presieduto da Mario Draghi ha indicato a febbraio qualche linea guida: più trasparenza nei bilanci, più scambio di informazioni tra i regolatori, più poteri ispettivi per le autorità. Ma questi, di fronte alla complessità del meltdown finanziario in corso, sono pannicelli caldi. Il ministro del Tesoro uscente, Tommaso PadoaSchioppa, ha un’idea più ambiziosa: «Servirebbe un unico organismo di vigilanza a livello europeo». E questa è stata la proposta italiana all’Ecofin di Brdo di venerdì scorso, per aggirare un problema che ci rende diversi (e stavolta in negativo) dagli Stati Uniti: abbiamo un’unica moneta, un solo sistema di pagamenti, un solo organismo che ha in mano la leva dei tassi di interesse, ma non abbiamo una banca centrale deputata al controllo centralizzato delle attività creditizie e al coordinamento della vigilanza con gli altri regolatori di mercato. I 27 Paesi Ue contano 52 autorità, ciascuna delle quali ha regole diverse e spesso non dialoga con le altre, mentre negli Usa se ne contano oltre 100, e la Fed ne ha appena assunto un implicito coordinamento.

Torna la domanda di partenza: può nascere in Europa una SuperBce? «Allo stato attuale non ci sono le condizioni», è la risposta che arriva da Francoforte. Manca il consenso politico, come dimostra il blando appello agli istituti di credito a pubblicare l’esposizione ai rischi e le perdite lanciato dall’Ecofin in Slovenia tre giorni fa. E mancano anche le condizioni «tecniche», come dimostrano le resistenze di alcune singole banche centrali a rinunciare alla propria sovranità nazionale in materia di vigilanza sul credito. «Quello che invece possiamo e dobbiamo fare chiarisce Bini Smaghi è uniformare almeno i criteri della vigilanza, fissando regole uguali per tutte le singole banche centrali. È quello che in gergo chiamiamo il “rulebook”: almeno su questo c’è un buon grado di consenso…». Se la SuperBce non è ancora all’ordine del giorno, questo non significa che Trichet e la sua squadra facciano i cinesi, aspettando la prossima crisi sdraiati sulla riva del fiume: «Nel contesto europeo secondo Bini Smaghi la chiave per ricreare un clima di fiducia tra gli operatori e tra i mercati passa attraverso il rafforzamento della cooperazione tra i supervisori. Soprattutto quei Paesi in cui ci sono ancora ostacoli legislativi per i supervisori nel fornire informazioni alla Bce su singole banche o specifiche istituzioni finanziarie dovrebbero rimuoverli al più presto».

Oggi più che mai, insomma, la crisi chiama in causa non solo i banchieri centrali, ma anche i leader politici. Come dice ancora George Soros, «abbiamo bisogno di un Pensiero Nuovo, non solo di una riorganizzazione delle autorità». All’Europa non bastano vaghe road map regolatorie, soprattutto se «non vincolanti» per gli stati nazionali. Il mercato se possibile, il governo se necessario. È una bella sfida, liberale ma non liberista.

Massimo Giannini
Fonte: http://www.repubblica.it/
07.04.2008

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