DI RATTY RAZOR
Perinde ac Cadaver
PARTE I
Agosto 1944, Hotel Maison Rouge di Strasburgo: in un clima di massimo riserbo e protetti da eccezionali misure di sicurezza, sono riuniti i più noti rappresentanti del potere politico ed economico della Germania nazista. Nel corso della giornata, su treni blindati o in automobili imponenti, erano arrivati i delegati del numero due nella gerarchia hitleriana, Martin Bormann; del ministro degli armamenti, Albert Speer; del comandante militare, ammiraglio Wilhelm Canaris, oltre ai proprietari di quelle industrie che avevano costituito il motore della macchina bellica: il re del carbone Emil Kirdorf, il magnate dell’acciaio Fritz Thyssen, Georg von Schnitzler della IG-Farben, Gustav Krupp, i proprietari della AEG, della Siemens, della VW Werke; inoltre erano presenti i grandi banchieri, come Kurt von Schroeder, i finanzieri, gli imprenditori in campo assicurativo, nonché gli industriali dei bacini del Reno e della Ruhr. All’insaputa di Himmler e di Hitler, che continuavano a credere nella vittoria finale, si erano dati convegno tutti i voltagabbana consapevoli del fatto che la guerra, dalla quale così a lungo avevano tratto profitto, era perduta. Anche se il nazionalsocialismo avesse dovuto continuare – cosa che i convenuti generalmente speravano -, sarebbe stato un nazionalsocialismo senza Hitler. Gli uomini riuniti nella Maison Rouge manifestarono da subito aspirazioni distinte: i funzionari politici del partito miravano alla rinascita del Terzo Reich, in un luogo e con modalità da definirsi; gli industriali e gli imprenditori ricercavano una strada per conservare i loro beni e metterli in salvo dalla confisca che sicuramente sarebbe seguita alla disfatta. La proposta che fu approvata, secondo la presunta ricostruzione dei fatti, era stata avanzata dal delegato personale del vicefuhrer, Martin Bormann, e può essere così sintetizzata: gli imprenditori avrebbero finanziato la fuga dei gerarchi, i quali avrebbero custodito e gestito tutti i capitali trasferiti all’estero. Per i grandi industriali la strada era obbligata: essendo compromessi a causa del finanziamento del nazismo, dal trionfo alleato si potevano aspettare, nella migliore delle ipotesi, il carcere e l’esproprio. Affidarsi ai gerarchi era l’unica cosa possibile. Al convegno della Maison Rouge seguì l’istituzione dell’organizzazione ODESSA (Organisation Der Ehemaligen SS-Angehörigen, Organizzazione degli ex-membri delle SS), che perseguì l’obiettivo non solo di proteggere e mettere in salvo ex-criminali nazifascisti, ma anche di dar vita a un Quarto Reich che realizzasse alfine i sogni incompiuti di Hitler.
Nel verbale dei colloqui di Strasburgo si leggeva, tra l’altro: “La direzione del Partito è consapevole che dopo la sconfitta della Germania alcuni dei suoi capi più noti potrebbero essere portati in giudizio come criminali di guerra. Sono state perciò prese delle misure per inserire i capi meno in vista del Partito in varie aziende tedesche in qualità di esperti e di tecnici. Il Partito è pronto ad anticipare agli industriali grandi somme affinché ciascuno possa dare vita all’estero a una organizzazione segreta per il dopoguerra, ma esige in cambio che le riserve finanziarie siano poste a disposizione all’estero, sì che dopo la sconfitta possa di nuovo sorgere un forte Reich tedesco”. Oltre che per l’organizzazione finanziaria per il futuro, la riunione all’Hotel Maison Rouge servì anche per altre decisioni di ordine pratico. Con l’aiuto dei funzionari della cancelleria nazista, diretta da Bormann, le persone convocate a Strasburgo progettarono minuziosi piani di fuga che i gerarchi avrebbero dovuto rispettare alla lettera. Nella progettazione di questi piani furono considerate le situazioni politiche dei paesi di destinazione e delle eventuali relazioni dei presenti con tali nazioni. Furono delineati tre itinerari principali: il primo partiva da Monaco di Baviera e si collegava a Salisburgo per approdare a Madrid; anche gli altri due percorsi partivano da Monaco e, via Strasburgo o attraverso il Tirolo, giungevano a Genova (il terminale ove operava l’arcivescovo Giuseppe Siri), dove i gerarchi avrebbero potuto imbarcarsi verso l’Egitto, il Libano o la Siria oppure verso Buenos Aires. Ogni particolare era stato previsto: lungo quei percorsi era possibile transitare con relativa facilità e senza eccessivi rischi, grazie alla disponibilità di mezzi di trasporto, case sicure, luoghi in cui munirsi di documentazione e, soprattutto, aiuto di sostenitori lungo tutto il tragitto.
Fra le possibilità, una risultava fondamentale, la relazione sancita previamente con gli alti gradi della Chiesa cattolica. Il fatto che i convenuti abbiano scelto la città di Genova come principale punto di snodo dei canali di fuga, è estremamente significativo. Tale scelta, infatti, implica necessariamente l’esistenza di una preventiva intesa tra i vertici nazisti e la Santa Sede. Una sorta di “concordato” (tanto caro a Pio XII) che avrebbe dovuto prevedere, da parte delle gerarchie ecclesiastiche, impegni di collaborazione, sostegno, concordanza di obiettivi; in altri termini: complicità e favoreggiamento. Secondo i giornalisti Marisa Musu e Ennio Polito, l’udienza segreta che Pio XII concesse al generale Karl Wolff, comandante supremo delle SS e della polizia tedesca in Italia, dieci giorni prima dell’arrivo degli alleati a Roma, era finalizzata al raggiungimento di un accordo bilaterale tra la Santa Sede e gli alti gradi delle gerarchie naziste. Un accordo bilaterale che avrebbe dovuto prevedere un’intesa sulle due maggiori e più urgenti incombenze del momento: garantire il passaggio dei poteri, senza scosse, dai nazisti agli anglo-americani (favorevole al Vaticano che temeva una insurrezione popolare di stampo comunista), e l’aiuto della chiesa alla messa in salvo, a guerra perduta, del maggior numero possibile di gerarchi e criminali nazifascisti (favorevole, naturalmente, ai nazisti). Il canale di fuga organizzato dalla chiesa cattolica (sotto la copertura di istituzioni umanitarie), – la cosiddetta “via dei topi”, o anche “via dei monasteri” – fu, a detta di alcuni storici e dei servizi segreti, il più efficace: secondo le stime, 5000 capi nazisti riuscirono a scappare grazie ai servizi di questa organizzazione. Lungo questa direttrice, e talvolta facendo tappa in Vaticano, i fuggiaschi venivano momentaneamente ospitati in conventi e altri edifici protetti da extraterritorialità, ottenevano salvacondotti della Croce Rossa Internazionale con false identità, denaro, cibo, lettere, alloggi e contatti con funzionari tedeschi e del Vaticano, oltre a impieghi lavorativi nei Paesi sudamericani, ove erano destinati. Spesso i nazifascisti fuggiaschi celavano la loro identità indossando abiti religiosi con l’implicito assenso del Vaticano – quello stesso Vaticano che nel febbraio del 1944 aveva espressamente vietato l’espediente ad alcuni perseguitati dai nazifascisti. La chiesa cattolica si era improvvisamente risvegliata ai suoi doveri “umanitari”: se durante la dominazione nazista non aveva fatto molto per le vittime dei regimi nazifascisti, adesso si dava da fare, per riparare alle passate omissioni, occupandosi attivamente della salvezza dei carnefici. Scrive Michael Phayer: “Permettendo che il Vaticano venisse coinvolto nella ricerca di un rifugio per i colpevoli dell’olocausto, Pio XII commise la più grande scorrettezza del suo pontificato”. Aggiunge Daniel Jonah Goldhagen: “Aiutare criminali a sottrarsi alla giustizia è di per sé un crimine, che prevede la colpa penale di chi vi è coinvolto in prima persona e la responsabilità morale di chi lo approva. E anche la chiesa, dal canto suo, dichiara che: ‘abbiamo una responsabilità nei peccati commessi dagli altri, quando vi cooperiamo… proteggendo coloro che commettono il male”.
Bibliografia:
Daniel Jonah Goldhagen, Una questione morale. La chiesa cattolica e l’olocausto, Mondadori, Milano, 2003. Trad. Alessio Catania.
Marco Aurelio Rivelli, “Dio è con noi!”, Kaos, Milano, 2002.
Michael Phayer, La chiesa cattolica e l’olocausto, Newton & Compton, Roma 2001. Trad. Roberta Continenza.
Simon Wiesenthal, Giustizia, non vendetta, Mondadori, Milano, 1989. Trad. Carlo Mainoldi.
Mark Aarons – John Loftus, Unholy Trinity: The Vatican, The Nazist and the Swiss Banks, St. Martin’s Press, New York, 1998.
Uki Goni, Operazione ODESSA, Garzanti, Milano 2003. Trad. Sergio Minucci.
Jorge Camarasa, Organizzazione ODESSA, Mursia, Milano, 1998. Trad. Giorgio Vincenzo Panetta.
Giovanni Maria Pace, La via dei demoni, Sperling & Kupfer, Milano 2000.
Marisa Musu – Ennio Polito, Roma ribelle, Teti editore, Milano, 1999.
Ratty Razor
Fonte: http://perindeaccadaver.blogspot.com/
Link: http://perindeaccadaver.blogspot.com/2007/01/odessa-e-il-canale-dei-ratti-del.html
21.01.2007
PARTE II – GENOVA
Bibliografia:
Gitta Sereny, In quelle tenebre, Adelphi, Milano, 2005. Trad. Alfonso Bianchi.
Mark Aarons – John Loftus, Unholy Trinity: The Vatican, The Nazist and the Swiss Banks, St. Martin’s Press, New York, 1998.
Uki Goni, Operazione ODESSA, Garzanti, Milano 2003. Trad. Sergio Minucci.
Giovanni Maria Pace, La via dei demoni, Sperling & Kupfer, Milano, 2000.
Ratty Razor
Fonte: http://perindeaccadaver.blogspot.com/
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26.01.2007
PARTE III – ROMA
Per gli ustascia in fuga tutte le strade portavano a San Girolamo, monastero sito in via Tomacelli 132, alle porte della Città del Vaticano, che durante la guerra divenne la residenza dei preti croati che ricevevano l’educazione teologica vaticana. L’accesso a San Girolamo era rigidamente controllato. Le guardie ustascia controllavano i documenti dei visitatori, sottoponendoli quindi a perquisizione e a snervanti interrogatori, ivi incluse domande su come avevano saputo della presenza di croati nel monastero. Gli americani riuscirono a infiltrare nel monastero un loro agente, che redasse un elenco dei dieci maggiori criminali di guerra lì residenti. «Tutte le porte d’intercomunicazione tra una stanza e l’altra sono chiuse a chiave, e quelle che non lo sono vengono presidiate da una guardia armata, e per accedere da una stanza all’altra c’è bisogno di una parola d’ordine» riferirono i servizi segreti americani. «Molti dei principali criminali di guerra ustascia e collaborazionisti» vivevano nel monastero, che era «pervaso di cellule di militanti ustascia». Protetti dalla Chiesa cattolica, questi croati si consideravano un governo in esilio. Finanche le loro unità di intelligence rimasero operative. «Sembra che tutta questa attività parta dal Vaticano, passi per il monastero di San Girolamo e finisca a Fermo, il principale campo croato in Italia» riferirono i servizi segreti americani a inizio 1947. Molti dei ministri del gabinetto croato nascosti a San Girolamo erano fuggiti dal campo di prigionia di Afragola. Adesso facevano la spola tra il Vaticano e il monastero diverse volte la settimana, in un’auto con tanto di autista e targa diplomatica. «Parte dal Vaticano e scarica i passeggeri all’interno del monastero» affermarono i servizi segreti americani. «La protezione offerta a questi collaborazionisti croati dimostra al di là di ogni dubbio la correlazione di Draganović al piano del Vaticano di proteggere questi ex nazionalisti ustascia fino a quando non si fosse riusciti a procurare loro i documenti per farli riparare in Sud America. Certamente contando sui loro forti sentimenti anticomunisti, il Vaticano sta tentando in tutti i modi di infiltrare questi uomini in Sud America per controbilanciare il diffondersi dell’ideologia comunista». Poco tempo dopo questo rapporto del 1947, almeno sei dei dieci criminali croati scoperti nel monastero s’imbarcarono a Genova diretti in Argentina.
Gli americani iniziarono a ricostruire un quadro davvero allarmante della complicità del Vaticano. Nel maggio 1946 Pavelic si nascose «vicino Roma, in un edificio sotto giurisdizione del Vaticano». Si tratta di Castel Gandolfo, sede della residenza estiva del papa, dove Pavelic era stato alloggiato insieme a un ex ministro del governo romeno nazista. Gli americani vennero anche a sapere che Pavelic teneva «frequenti incontri con monsignor Montini», il futuro papa Paolo VI. In seguito, gli americani che si occuparono del caso misero per iscritto le loro riflessioni su Pavelic. «Oggi, agli occhi del Vaticano, Pavelic è un cattolico militante, un uomo che ha sbagliato, ma che ha sbagliato lottando per il cattolicesimo. È per questo motivo che il soggetto gode ora della protezione del Vaticano… Si sa che Pavelic è in contatto con il Vaticano, il quale vede in lui il cattolico militante che ieri ha combattuto la Chiesa ortodossa e oggi sta combattendo l’ateismo comunista… Per i suddetti motivi egli riceve protezione dal Vaticano, la cui visione dell’intera “questione Pavelic” è che, poiché lo Stato croato non esiste e poiché non ci si può attendere che il regime di Tito conceda a chiunque un giusto processo, il soggetto non debba essere consegnato all’attuale regime jugoslavo… I passati crimini di Pavelic non possono essere dimenticati, ma egli può essere processato solo da croati che rappresentino un governo cristiano e democratico, sostiene il Vaticano».
Il 27 dicembre 1946 Draganović inviò il suo primo grande contingente in Argentina direttamente da Genova, sul transatlantico di linea Andrea Gritti. Negli anni immediatamente successivi avrebbe trasferito in Argentina praticamente l’intero ex governo croato. «È coadiuvato in questa attività dai suoi numerosi contatti con le ambasciate e legazioni del Sud America in Italia e con la Croce Rossa internazionale» affermarono i servizi segreti americani, aggiungendo che Draganović poteva contare anche sull’«approvazione della Pontificia commissione di assistenza profughi». La fuga in massa dei criminali ustascia era iniziata a fine 1946, allorché Draganović ottenne dal governo di Perón un permesso di sbarco in bianco per 250 croati. Agì tramite il padre francescano Blas Stefanic della Basilica di Bari a Buenos Aires, giunto in città nel 1935. Lavorando insieme a tre altri francescani, divenne ben presto un propagandista anticomunista e una colonna della comunità croata in Argentina. Sul fatto che a dirigere la via di fuga fossero i francescani non ci sono dubbi. Nel compilare le domande di visto presso il consolato Argentino a Roma, di norma i fuggiaschi ustascia indicavano la comunità francescana croata della cittadina di José Ingenieros quale luogo di residenza prescelto. Almeno un famigerato criminale ustascia, padre Vladimir Bilobrk, che incitò i croati a usare falci, zappe e picconi per massacrare i serbi, scrisse semplicemente il nome di Stefanic quale proprio riferimento locale. A Draganović fu ordinato di lasciare il monastero di San Girolamo solo alcuni giorni dopo la morte di Pio XII.
Bibliografia:
Uki Goni, Operazione ODESSA, Garzanti, Milano, 2003. Trad. Sergio Minucci.
Michael Phayer, La chiesa cattolica e l’olocausto, Newton & Compton, Roma, 2001. Trad. Roberta Continenza.
Ratty Razor
Fonte: http://perindeaccadaver.blogspot.com/
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09.03.2007
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