DI CARLO MARTINI
ComeDonChisciotte
Secondo il più recente rapporto dedicato alla diossina del Food Safety and Inspection Service (agenzia appartenente al Dipartimento dell’Agricoltura Usa), “generalmente si crede che la più significativa esposizione ai DLC (composti diossino-simili) tra gli umani venga dall’apporto alimentare di prodotti animali ed ittici” (FSIF, 2009). In particolare, stando al National Center for Environmental Assessment dell’EPA (Lorber M, 2009), il pesce e le uova ne sono gli alimenti con le maggiori concentrazioni. A destare particolare preoccupazione sono le sostanze tossiche liposolubili, responsabili di infertilità, difetti congeniti, ritardi nello sviluppo e disfunzioni endocrine, oltre ad essere considerate fattori di rischio in varie patologie cronico-degenerative tra cui quelle oncologiche: pesticidi come DDT/DDE, clordano, eptacloro e dieldrina, nonchè composti industriali quali PCB e PCDD/PCDF.Se anche la contaminazione ambientale di alcuni dei composti in questione è complessivamente diminuita negli ultimi decenni – grazie alle legislazioni che hanno vietato l’uso commerciale di agent orange, DDT, PCB, dieldrina etc – non mancano certo le novità: presso i paesi occidentali, i cibi animali ed in particolare il pollame sono stati tra i responsabili dell’innalzamento esponenziale (riscontrabile nel latte materno) di eteri difenili polibrominati (PBDE), ritardanti di fiamma dai potenziali effetti cancerogeni, neuro-tossici ed endocrino-distruttori (Schechter, 2008), a cui si aggiungono le naftaline policlorinate, presenti soprattutto nel pesce (Kunisue, 2009).
Quanto al pesce, sia di mare che d’allevamento, è noto anche come fonte universale di metalli pesanti neuro-tossici e cardio-tossici (che finiranno anche nelle carni degli animali d’allevamento nutriti con tali pesci), al punto che – secondo le stime del dottor Michael Greger (Cornell University) – una porzione di tonno contiente l’equivalente in metil-mercurio di un centinaio di vaccinazioni al thimerosal e il consumo di una singola scatoletta alla settimana corrisponde al rilascio causato da quasi una trentina di amalgame dentali (Greger, 2008 & 2009).
Nutrizione vegan
Non sorprende che un recente studio presso la Laval University di Quebec City (Arguin, 2010), dopo aver indagato le concentrazioni plasmatiche di svariati organocloruri su dei gruppi di studio, abbia riscontrato i vegan “significativamente meno inquinati”, nonostante – come suggerito dai ricercatori – con buona probabilità i soggetti in questione abbiano avuto un’ampia esposizione tossica nell’arco della vita, avendo scelto la nutrizione vegan solo in età adulta. I risultati non fanno che confermare quanto già ipotizzato a metà anni ’90 in un’analisi comparativa della State University of New York (Schechter, 1997) che – dopo aver studiato i livelli di diossine, dibenzofurani, PCB e DDE in vari cibi di comune reperibilità – giunse alla conslusione che la dieta vegan era quella con la minor esposizione chimica. Analogamente, anche il dipartimento di salute e sicurezza industriale della Hung Kuang University (Taiwan), riscontrò un minor accumulo serico di PCDD e PDCF tra i vegetariani, persino in una zona situtata molto vicino ad un inceneritore di rifiuti (Chen, 2006). I risultati non cambiando anche scegliendo un altro marker di riferimento, come constatato in una pubblicazione dalla University of Birmingham (Harrad, 2006), che ha trovato minori residui di PCB nelle feci di soggetti vegan.
Analoghi risultati sono stati ottenuti dal Southwestern Medical Center (University of Texas) rispettivamente ai livelli ematici di PBDE nei vegan, con la sorprendente constatazione che più a lungo viene seguita la dieta vegan, più i valori si abbassono nel tempo (Schechter, 2008).
Riguardo ai metalli pesanti, in uno studio nell’ambito dell’infertilità umana curato dal dipartimento di ecologia e bio-diversità dell’università di Hong Kong (Dickman, 1998), i vegan risultavano avere livelli tricologici di mercurio dieci volte più bassi rispetto a chi consumava pesce nella propria dieta, compatibilmente con i risultati dell’Università di Lund (Svezia), in cui una dieta latto-vegetariana ha dimostrato di abbassare significativamente i livelli di mercurio, piombo e cadmio nel gruppo di studio dopo solo 3 mesi dall’adozione della dieta (Srikumar, 1992).
Latte materno e contaminazione chimica
Sin dalla metà del secolo scorso (Laug, 1951) è noto alla comunità medico-scientifica che l’allattamento al seno è un mezzo di trasmissione dalla madre al bambino di contaminanti chimici e – stando ad una pubblicazione di tre decenni fa (Rogan, 1980) – già in quell’anno il 30% delle donne statunitensi presentava valori superiori ai livelli accettabili di alcuni dei composti in questione (standard FDA e WHO).
Ancora una volta, la soluzione più semplice sembra essere la nutrizione vegetariana ed in particolare la nutrizione vegan: in un’analisi pubblicata sul New England Journal of Medicine (Hergenrather, 1981), i ricercatori constatorono che, presso un gruppo di donne vegan del Tennesse, i livelli di svariati composti chimici nel latte materno erano drasticamente inferiori a quelli della media nazionale, al punto che il valore più alto era comunque inferiore al più basso del campione di riferimento. Nella maggior parte dei casi, i valori erano intorno all’1-2% rispetto alla media nazionale. Risultati simili furono ottenuti dal dipartimento di nutrizione e dietetica del King’s College (University of London) – che correllò specificamente il consumo di carni, latticini e pesce al livello di contaminazione del latte materno (Sanders, 1992) – nonchè in una pubblicazione nella Acta Paediatrica Scandinava (Norèn, 1983), dove il latte di donne latto-ovo-vegetariane presentava i minori valori di DDT, DDE e PCB comparato con quelle di donne onnivore e, ancora più marcatamente, con quello di donne che consumavano pesce del Mar Baltico.
Per concludere
Il problema in questione non è certo limitato al fenomeno degli allevamenti industriali, in quanto le contaminazioni ambientali si ripercuotono inevitabilmente in tutta la catena alimentare. Basti pensare che sono state osservate significative percentuali di PBDE in pesci dell’Antartico (Borghesi, 2009) e che – sempre rispetto ai PBDE – in un’analisi comparativa dagli Usa (Shaw, 2008), il salmone proveniente da allevamenti biologici aveva livelli di contaminanti non dissimili e, anzi, leggermente superiori a quelli di un allevamento intensivo industriale.
Ci riserviamo per la prossima occasione di trattare le altre forme di contaminazione (ormonale, virale, batteriologico-fecale e parassitaria) a cui sono soggetti i cibi di origine animale. Per il momento ci limitiamo a constatare come l’uniformità dei risultati nelle più diverse situazioni geografiche porti ad un’unica constatazione possibile: la dieta vegan è uno dei più potenti strumenti esistenti per limitare il proprio contatto con i veleni della società industriale.
Bibliografia
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Altri testi di interesse:
José G Dórea. Vegetarian diets and exposure to organochlorine pollutants, lead, and mercury. American Journal of Clinical Nutrition, Vol. 80, No. 1, 237-238, July 2004
Hall RH. A new threat to public health: organochlorines and food. Nutr Health. 1992;8(1):33-43.
Michael Greger MD, Vegans “Significantly Less Polluted”, VegSource.org
Reed Mangels, Virginia Messina, Mark Messina. The Dietitian’s Guide to Vegetarian Diets: Issues and Applications, Jones & Bartlett Learning; 3 edition (September 24, 2010)