NATO E VIRUS, IL FRENO A MANO DI TRUMP

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Fulvio Scaglione

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Il Coronavirus scardina gli equilibri politici, mette in discussione le alleanze più consolidate e prende a picconate l’economia. In Europa e negli Usa. Perché, allora, la Nato è così poco coinvolta? Non vi aspettereste anche voi di vedere, nei cieli ora disertati dai voli civili, stormi di C130 impegnati a distribuire sostegno ai Paesi più colpiti?  Certo, la Spagna ha apertamente e direttamente chiesto aiuto all’Alleanza Atlantica (invocando 450 mila respiratori, 500 mila test rapidi per la diagnostica del virus e un milione e mezzo di mascherine). Diversi altri Paesi, in forma più discreta e limitata, si sono fatti avanti: l’Italia con il ministero degli Interni (assistenza alla Protezione civile, è stata la richiesta), la Slovenia, l’Albania, l’Ucraina… Ma tutto sommato poca roba. Non è strano? Non è curioso che l’Alleanza Atlantica, che nei suoi video di autopromozione dice di essere “nata per fronteggiare le crisi”, sia oggi così poco presente?

Intanto fughiamo un possibile dubbio. C’entra un’alleanza militare con un’emergenza civile come quella del Covid19? C’entra eccome. La Nato, infatti, dispone dell’Euro-Atlantic Disaster Response Coordination Centre (EADRCC), che viene definito “un meccanismo di risposta alle emergenze civili nell’area euro-atlantica”. D’altra parte, questa “risposta” è inserita nel più vasto dispositivo di rafforzamento delle strutture civili dei trenta Paesi membri previsto dall’articolo 3 del Patto atlantico. L’EADRCC, a sua volta dispone di diverse “agenzie” interne per intervenire concretamente, in solido, con materiali di prima necessità e forniture mediche, oltre che con trasporti via terra, aria e acqua. Considerato che il budget Nato si misura in miliardi di euro (1,5 per il settore militare, oltre 250 milioni per il settore civile, più tante altre centinaia di milioni per quelle che sono definite military capabilities), si direbbe che le risorse da impiegare contro la pandemia non manchino. Anche se dai vertici dell’Alleanza farebbero notare che finora solo sette Paesi (Stati Uniti, Bulgaria, Lettonia, Lituania, Polonia, Regno Unito e Romania) sono allineati all’obiettivo (che tutti dovrebbero raggiungere entro il 2024) di investire il 2% del proprio Pil in spese per la Difesa, come era stato stabilito nel 2015.

Detto questo, si torna al principio. Non sarebbe stato lecito attendersi interventi più significativi di così? Certo, chi visita il sito della Nato  trova un sacco di notizie confortanti. Aiuti che volano dall’Olanda al Montenegro, dall’Estonia alla Spagna e all’Italia, dalla Polonia agli Usa, dall’Ungheria e dalla Slovenia alla Bosnia Erzegovina. Quel che non è chiaro, però, è quale parte abbia la Nato in questi scambi. Se nove medici militari polacchi volano a Chicago su un aereo civile, diventa difficile attribuire all’Alleanza un ruolo fondamentale. Certo, si tratta di aiuti che Paesi membri dell’Alleanza forniscono ad altri Paesi membri. Nulla, però, che non potrebbe accadere anche senza la Nato e la sua, per essere ottimisti, mediazione.

Anche i media nostrani più atlantisti sono a mal partito nell’affrontare la questione. Il trucco è sempre quello: attribuire alla Nato tutto ciò che un Paese membro fa per un altro Paese membro. In conto Nato vanno iniziative come questa: “L’esercito americano ha inviato un’unità mobile di stabilizzazione, arrivata il 22 marzo, che fornisce 10 posti letto e può supportare un totale di 40 pazienti per un periodo di 24 ore; altre forniture sanitarie come letti, sedie a rotelle, apparecchiature elettroniche e altro sono state trasportate in Lombardia dalla base statunitense di Camp Darby a Livorno il 25 marzo”. Ottima cosa ma, appunto: Camp Darby (il più grande arsenale Usa fuori dagli Usa) è una base dell’esercito americano, non della Nato. Una base così americana da aver avuto in uso, fino al 2014, un tratto del litorale toscano ribattezzato, appunto, American Beach.

Volendo, il contributo Usa alla lotta contro il virus potrebbe essere massiccio, perché le forze armate americane dispongono, in Italia, non solo dei capaci magazzini di Camp Darby ma anche del Medical War Reserve del 31° Stormo acquartierato nella base di Aviano, in Friuli-Venezia Giulia. E in ogni caso, come ricordato da Donald Trump nel memorandum dedicato alla crisi sanitaria nel nostro Paese, il Pentagono è pronto a mobilitare i 30 mila tra soldati e impiegati dell’esercito (pari a un terzo di tutte le nostre forze armate) che sono di stanza qui da noi. Ma di nuovo: americani, non Nato.

Non resta che chiedersi quale sia la ragione di tanta ritrosia, da parte della Nato, a impegnarsi seriamente sul fronte del Coronavirus. Tra le tante ipotesi, una è questa. Gli Usa, si sa, sono l’azionista di maggioranza della Nato, visto che da soli coprono quasi il 25% del budget totale. Degni di un qualche paragone sono solo Germania (15%), Francia e Regno Unito (11% circa). Il resto è suddiviso tra gli altri ventisei Paesi dell’Alleanza. E da qualche tempo, cioè da quando è presidente Donald Trump, il principale azionista si mostra sempre meno disposto ad accettare un tale squilibrio.

I rimproveri di Trump agli europei, e con particolare accanimento alla Germania, sono ormai proverbiali. È una questione di soldi ma anche di atteggiamento: voi fate i pacifisti, dice Trump, ma poi chiedete a noi di proteggervi e di farvi sentire sicuri. Il bello è che non ha tutti i torti. Nel febbraio di quest’anno il Pew Research Center di Washington ha pubblicato un dettagliato studio sull’immagine della Nato nei Paesi che ne fanno parte. L’Alleanza Atlantica è giudicata in genere in modo positivo (in media, 53% di apprezzamento contro 23% di critica), con una punta positiva in Polonia (82%) e una negativa in Turchia (21%). I problemi sorgono quando si tratta di passare dalla teoria alla pratica.

L’articolo 5 del Patto Atlantico (quello che impegna i Paesi Nato a intervenire qualora uno qualunque degli altri Stati membri sia minacciato o attaccato) è respinto dal 50% degli interpellati e sostenuto solo dal 38%. Quando la domanda è più diretta le cose peggiorano. In caso di attacco militare della Russia, viene chiesto, il tuo Paese dovrebbe prendere le armi o aspettare un intervento degli Usa? Non c’è Paese che non scelga di aspettare. E il più ampio differenziale (il 25% per prendere le armi, il 75% per lasciar fare agli Usa) si registra, guarda caso, proprio in Italia.

Le discordie degli ultimi anni tra Usa ed Europa hanno lasciato il segno e gli osservatori americani più attenti se ne sono accorti. Come gli analisti di Foreign Affairs, per esempio, che si preoccupano per le divisioni tra le due sponde dell’Atlantico e criticano l’atteggiamento di chiusura che ha segnato l’esordio della pandemia. Donald Trump ha subito bloccato i voli dall’Europa, senza nemmeno consultare i tradizionali alleati.  Una trentina di Paesi (tra cui anche Francia e Germania) ha bloccato l’esportazione di materiale sanitario, un provvedimento che ha colpito duro gli Usa che proprio dall’Europa dipendono per le forniture di respiratori, scanner e disinfettante per le mani. Subito dopo Trump, a sua volta, ha ordinato alla 3M di bloccare l’esportazione di mascherine e di indirizzare verso gli Usa tutta la produzione dei suoi stabilimenti europei. Quasi una rissa, insomma.

A pensar male si fa peccato, in genere. Ma qualche volta la si azzecca, ricordava Giulio Andreotti. Ecco, si ha l’impressione che gli Usa di Donald Trump non abbiano spinto al massimo per far intervenire la Nato nella crisi da virus. Per mostrare agli alleati riottosi e polemici che alla fin fine è sempre Washington a dare le carte. E per ricordare a tutti che, in caso di vera emergenza, non c’è Cina o Russia che tenga. È sempre meglio rivolgersi ai vecchi amici.

Fulvio Scaglione

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