MISERIA UMANA DELLA PUBBLICITA': il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo

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Gruppo MARCUSE

Siamo sottoposti a un bombardamento quotidiano di migliaia di
messaggi pubblicitari che hanno ridotto lo spazio pubblico a un catalogo
pubblicitario. Il budget mondiale del settore supera ormai i 500 miliardi di
euro. Perché tanto denaro, tanto talento, tante energie sono consacrati alla
pubblicità? Perché la crescita infinita è essenziale per l’economia capitalista.

Compito strategico della pubblicità è trasformare la propaganda industriale
in voglia di consumare e così consentire l’attuale bulimia di merci. Fino a
invadere – e stravolgere – alcune sfere vitali della società come i media, la
salute e la stessa democrazia, («l’atto elettorale è un atto di consumo come un
altro», affermano i pubblicitari). Fino a quella devastazione della società e
della natura che è sotto gli occhi di tutti e che ha dato vita ai nuovi
movimenti anti-pubblicitari

e per la decrescita.Il Gruppo MARCUSE (Movimento Autonomo di Riflessione Critica a Uso dei Sopravvissuti dell’Economia), costituito da giovani sociologi, filosofi, psicologi, medici, è attivo in Francia, dove da alcuni anni sono nati, sulla scia del situazionismo, nuove tendenze e nuove sensibilità di critica libertaria. I MARCUSE vi si inscrivono, con una strizzata d’occhi alla Scuola di
Francoforte
.

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Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un capitolo e due estratti dall’introduzione e dalle conclusioni di “Miseria umana della pubblicità”

Il sistema pubblicitario nella società industriale
La
pubblicità, arma del marketing, è l’arte di vendere qualsiasi cosa a chiunque e
con qualsiasi mezzo. Per la precisione, è il marketing nella sua dimensione
comunicazionale. Passando attraverso la scappatoia dei media, essa costituisce
l’archetipo della «comunicazione». La critica alla pubblicità si estende quindi
alla critica contro il marketing e contro la comunicazione: questi tre flagelli
compongono insieme il sistema pubblicitario. Ma questo sistema è stato generato
dal capitalismo industriale, che finanzia i media di massa di cui orienta il
contenuto. Il problema perciò non si riduce all’abbrutimento pubblicitario,
include anche la disinformazione mediatica e la devastazione industriale. Non
bisogna illudersi: la pubblicità è solo la punta dell’iceberg del sistema
pubblicitario, ovvero di quell’oceano glaciale nel quale si sviluppa ed espande
la società consumista con la sua crescita devastante. E se siamo contro tale
sistema e tale società, è perché il nostro stile di vita sta uccidendo il
mondo.

L’effetto principale della pubblicità è la propagazione del
consumismo. Basato sull’iperconsumo, questo stile di vita riposa sul
produttivismo, e dunque implica lo sfruttamento crescente delle persone e delle
risorse naturali. Tutto ciò che consumiamo comporta meno risorse e più scarti,
più nocività e più lavoro depauperante. Il consumismo porta così alla
devastazione del mondo, alla sua trasformazione in deserto materiale e
spirituale: un ambiente dove sarà sempre più difficile vivere e sopravvivere in
modo umano. In questo deserto prospera la miseria fisica e psichica, sociale e
morale. Gli immaginari tendono ad atrofizzarsi, le relazioni sono disumanizzate,
la solidarietà si decompone, le competenze personali diminuiscono, l’autonomia
sparisce, i corpi e le menti vengono standardizzati.

La miseria umana
della pubblicità è, dunque, sia questa vita impoverita che esalta una pubblicità
onnipresente, sia la miseria degli ambienti pubblicitari stessi, che illustrano
in modo caricaturale l’impoverimento morale di cui soffre la società mercantile.
Per questo motivo citeremo abbondantemente i discorsi di vari pubblicitari. Il
cinismo – di cui alcuni menano vanto – fa parte a tal punto del loro «folclore
professionale» che, ad esempio, nessuno osa contestare la descrizione romanzesca
che ne fa Frédéric Beigbeder. Secondo François Biehler, pubblicitario sempre in
servizio, essa è «rigorosamente esatta». Come può giustificare la sua
professione, allora?

«La pubblicità serve anche a rilanciare i consumi».
I pubblicitari stessi non negano che ciò implica una buona parte di
manipolazione. E cosa significa manipolare qualcuno, se non fargli fare qualcosa
che non avrebbe mai fatto spontaneamente, come rinnovare inutilmente merce
futile e nociva? Come diceva Machiavelli, il fine giustifica i mezzi. Biehler
deve quindi ritenere tollerabile questa manipolazione, in quanto si compie in
nome di un fine eminentemente consensuale: «Rilanciare i consumi e far
funzionare l’economia, il che, a priori, non è condannabile».

Ecco che
si tocca l’assioma che viene sotteso nella schiacciante maggioranza dei discorsi
sulla pubblicità: è bene, anzi necessario, stimolare la Crescita, questa Vacca
Sacra invocata in coro da tutti i politici, questo Messia del quale si acclama
il ritorno. Se si accetta il dogma fondante dell’economicismo, pregiudizio che
quasi nessuno contesta malgrado i suoi effetti disastrosi sulle nostre vite,
allora la pubblicità è effettivamente indispensabile, tanto che diventa
difficile metterla in discussione. Se invece la volontà di produrre si
giustifica con il fatto che ne dipende la sopravvivenza materiale, in società
come le nostre, dove regnano spreco e sovrapproduzione, si tratta di un
presupposto irragionevole, irresponsabile e pericoloso. Dobbiamo inziare a
renderci conto che la crescita, divenuta fine a se stessa, invece di
corrispondere ai nostri bisogni è prima di tutto crescita di nocività e di
diseguaglianza.

La pubblicità è indissolubilmente legata alla
devastazione del mondo, di cui è uno dei motori. Essa vi contribuisce
doppiamente: spingendo l’iperconsumo di merce industriale, favorisce lo sviluppo
di un’economia devastatrice; e dissimulandone le conseguenze, frena una presa di
coscienza ogni giorno più urgente se si vuole evitare il peggio. Essa deve
dunque essere oggetto di una critica radicale, cioè di un’analisi che risalga
fino alle sue radici. Solo coloro che identificano saggezza e acquiescenza,
spirito critico e consenso mediatico, possono accontentarsi della denuncia dei
suoi eccessi più flagranti.
Ma soltanto risalendo alle radici si potrà
comprendere la ragione dei suoi abusi così ordinari, in particolare dell’estrema
violenza che fa subire alle donne. Ma nessuno ne esce indenne, come mostrerà
questo manifesto contro la pubblicità e contro «la vita che vi si
rispecchia».

Capitolo 6 – LE RELAZIONI PERICOLOSE

La storia insegna che ciò che può spezzare vecchie catene spesso forgia nuove
schiavitù. L’industria avrebbe potuto risparmiarci i lavori più penosi, ma di
fatto ci ha asservito a un lavoro senza tregua. La pubblicità ha giocato un
ruolo di catalizzatore in questo ribaltamento: inoculandoci l’incessante voglia
di consumare, ci ha trasformati in servi di quella macchina che si supponeva
fosse al nostro servizio. Al tempo stesso, tuttavia, essa non ha fatto altro che
rivelare, aggravandoli, i pericoli inerenti a questo modo di
produzione.

La propaganda industriale non poteva limitarsi alle merci
classiche e rispettare l’indipendenza di quelle tre sfere fondamentali e vitali
che simboleggiano ciò che di positivo si è inventata la modernità: il giornalismo, la democrazia e la medicina. Non meraviglia che essa ne abbia pervertito pericolosamente le logiche interne allorché è riuscita a metterle al servizio dell’accumulazione del capitale. Grazie alla sua azione, i media sono
diventati macchine per far spendere, invece di diffondere il libero pensiero.
Con l’avvento del mondo della comunicazione, essa ha spoliticizzato la politica
e svuotato la democrazia della sua sostanza. Infine, impadronendosi della
farmacopea, ha trasformato la medicina in sistema patogeno. Ma la pubblicità non
avrebbe potuto fare il suo abituale lavoro di becchino se tali istituzioni non
avessero già mostrato delle falle: di fatto, essa ha semplicemente catalizzato
le insufficienze di cui soffrono gli ambiti che essa travolge con tanta facilità.

L’indipendenza illusoria dei media

Prima della metà del XIX secolo, i giornali venivano finanziati dai loro lettori e redattori, in
quanto non si trattava di ricavarne un profitto, ma di formare un contropotere
di fronte all’onnipotenza monarchica. Nel 1836 Émile de Girardin inaugura la
pratica che fonda la stampa di massa moderna: introduce degli annunci a
pagamento alla fine del giornale allo scopo di diminuirne il prezzo di vendita,
quindi di accedere a un numero più ampio di lettori, quindi di attrarre più
pubblicità e così via. Questa pratica si è generalizzata e oggi la maggior parte
dei giornali dipende per il 50% dalla pubblicità, mentre alcuni vivono
esclusivamente di pubblicità, come quei giornali «gratuiti» la cui funzione è
esclusivamente di diffonderla presso un pubblico più vasto.

Ovviamente,
i pubblicitari si felicitano per questa «associazione a scopo di lucro» in cui
la pubblicità è il «partner dominante », in grado di «imporre il proprio
linguaggio» e «parassitizzare» lo spazio dei giornali, ormai ridotti al ruolo di
supporti pubblicitari. La simbiosi è ancora più marcata nelle riviste,
trasformate in negozi virtuali che permettono di fare lo shopping restando
seduti; appare incontenibile nelle riviste aziendali distribuite alla clientela
(da parte di società ferroviarie, linee aeree, ecc.); e diventa infine
caricaturale nei magalogues, espressione di Naomi Klein derivata dalla fusione
dei termini magazine (rivista) e catalogue (catalogo), cui la scrittrice ricorre
per definire quelle «fanzines» con cui le grandi marche americane vendono i loro
«stili di vita» ai propri «fan». Nel 2004 Leroy Merlin fa uscire il suo Du côté
de chez vous, abbinato all’omonimo programma televisivo su TF1. È l’apoteosi di
una sinergia industrial-mediatica particolarmente pericolosa per quanto riguarda
l’informazione.

La convergenza tra pubblicità e informazione è avvenuta
mediante un doppio movimento. Da un lato, i pubblicitari mantengono la
confusione dei generi imitando lo stile e l’impostazione degli articoli
giornalistici. Per lottare contro tale pubblicità clandestina (stretto
equivalente della propaganda nera che opera falsificando le fonti), la legge ha
imposto che le pubblicità vengano presentate come tali; tuttavia esse continuano
a camuffarsi nella forma di «dossier pubblicitari», di «supplementi omaggio», di
«tavole rotonde», ecc.

Ma se la pubblicità scimmiotta l’informazione,
l’informazione non si tira certo indietro. Alcuni sedicenti «giornalisti»
accettano bustarelle per moltiplicare nei loro articoli i riferimenti a quelle
marche che vogliono accrescere la propria notorietà; altri praticano il
«reportage pubblicitario» o il «giornalismo promozionale»: ibridi linguistici
che oscurano la frontiera tra gli spazi promozionali e quelli redazionali.
Il giornalismo diviene così un business come tutti gli altri, tanto che alcune
redazioni si rivolgono ai consulenti di marketing per determinare le aspettative
dei «consumatori d’informazione».
Inevitabilmente la politica viene
considerata come meno fondamentale rispetto alle inchieste sul consumo e su
altri «temi sociali» trasversali. Siamo entrati nell’era dell’infotainment,
l’info-divertimento: l’informazione deve divertire (in inglese entertainment)
piuttosto che istruire. Queste tendenze sono particolarmente marcate nella
televisione.

Tramite la mediazione dei consulenti pubblicitari, gli
inserzionisti organizzano, almeno in parte, i palinsesti della programmazione:
più una trasmissione è seguita, più attira pubblicità e quindi denaro;
viceversa, le trasmissioni meno adescatrici vengono relegate a orari
impossibili. Gli inserzionisti influenzano anche i contenuti, rifiutando che i
loro spot siano abbinati a trasmissioni che suscitano emozioni negative, nel
timore che queste ultime facciano impallidire i loro prodotti.

Quanto
alla carta stampata, gli inserzionisti impongono che gli annunci non siano
inseriti in contesti che contengano critiche dirette alla marca o a ciò che le
viene associato: il Paese d’origine, quello di produzione, ecc. La pubblicità
rafforza così il monopolio di fatto che tende ad avere sull’«informazione» in
materia di prodotti. In questo caso i protagonisti sono i consulenti
pubblicitari (cinghie di trasmissione tra padronato e redazioni) e, ancor più,
le agenzie di vendita di spazi pubblicitari. Grazie ai «piani mediatici» (con i
quali determinano i veicoli pubblicitari appropriati per raggiungere l’obiettivo
prefissato, organizzando poi il bombardamento), sono infatti loro che possono
influenzare e ricattare le redazioni, minacciando di tagliare i viveri. Il
loro potere di pressione è ancora più elevato per il fatto che questo settore è
estremamente concentrato: in Francia cinque agenzie centrali hanno «il controllo
di quattro quinti del volume totale». Poiché la pluralità degli inserzionisti,
ritenuta garante della libertà di stampa, è un aspetto in effetti secondario e
illusorio, l’argomento classico in favore della pubblicità dev’essere rimesso in
discussione.

Fieri di ricevere finanziamenti per la loro missione, che è
quella di analizzare e criticare in piena autonomia, certi giornalisti
rivendicano il legame che li collega alle grandi imprese. «La pubblicità,
strombazza il direttore di ‘Le Monde’, è garante dell’indipendenza del
giornale». Precisiamolo: di fronte ai poteri politici. Ma tale finanziamento
comporta un’altra dipendenza: quella dalle potenze economiche. E se parrebbe
logico, nel caso di un giornale finanziato dallo Stato, che il giornalista si
trattenesse dallo sputare nel piatto in cui mangia, perché le cose dovrebbero
andare diversamente quando il piatto lo fornisce il capitale?
Circa mezzo
secolo fa, il fondatore di «Le Monde» faceva questa dichiarazione: «Mi sembra
pericoloso che la vita del giornale sia assicurata per una porzione eccessiva
dalla pubblicità, perché ciò lo pone alla mercé di un ricatto». Il finanziamento
da parte dei soli lettori è infatti l’unica garanzia di una completa
indipendenza redazionale. È appunto per questa ragione che un giornale come «Le
Canard enchaîné» rifiuta la manna pubblicitaria; non meraviglia dunque che sia
il solo giornale che informa il pubblico sull’influenza nociva di quest’ultima
all’interno dei media.

La giornalista Florence Amalou spiega bene come la
pubblicità possa diventare un mezzo di pressione, o meglio di repressione, nelle
mani degli inserzionisti intenzionati a influenzare una linea editoriale:
rappresaglie pubblicitarie (campagne annullate in seguito ad articoli troppo
critici), boicottaggio dei nuovi titoli che si smarcano dal «pensiero unico» al
servizio del padronato, giornalisti licenziati o messi alle corde dalle agenzie
pubblicitarie, «limatura» o mutilazione dei loro articoli, che possono anche
essere corretti o direttamente cestinati. Altre tecniche sono più dolci e
sornione: richiami di tipo amicale, intimidazioni, connivenze, relazioni
privilegiate con i vertici. Insieme al bastone, quelli che vogliono crearsi un
«terreno mediatico favorevole » sanno anche agitare la carota della
«lubrificazione pubblicitaria»; una volta interiorizzate, queste pressioni
portano a un’autocensura che gli stessi giornalisti non
negano.

Ovviamente queste pratiche sono possibili solo da parte dei
grandi inserzionisti, cosa che mette fortemente in discussione l’affidabilità
dell’informazione che li concerne. E quanto più la stampa permane in una
posizione di fragilità finanziaria, tanto più la pubblicità può comprarne il
silenzio e la compiacenza. Più un inserzionista fa pubblicità, più le redazioni
gli accordano un trattamento di favore. Così, Jean-Marie Messier, l’ex monarca
di Vivendi Universal, è stato servilmente corteggiato dai media quando era al
culmine della sua breve carriera: prime pagine, interviste all’«uomo
dell’avvenire» e ritratti elogiativi si sono moltiplicati nel periodo in cui era
uno dei principali inserzionisti in Francia.

La dipendenza della maggior
parte dei giornali nei confronti degli inserzionisti è ancora più problematica
per il fatto che sono le marche, e non i politici, a essere oggi giuridicamente
intoccabili. Le grandi imprese sono infatti le potenze politiche più nocive in
assoluto, nel senso che sono loro a trasformare il mondo. Le decisioni che
modificano o rischiano di modificare in profondità la vita quotidiana (OGM,
nanotecnologie, flessibilità, ecc.) non vengono prese in seno ad assemblee
nazionali, ma a monte, vale a dire nei consigli di amministrazione e nei
laboratori tecnico-scientifici; le istanze politiche tradizionali avranno
tutt’al più il compito di far ingoiare la pillola.

Beninteso, ci sono
notevoli differenze tra i media e perciò diversi gradi di vassallaggio, ma
guardiamoci bene dal credere che la pubblicità sopraggiunga a pervertirli
dall’esterno. L’interconnessione è totale: i media hanno bisogno della manna
pubblicitaria, quest’ultima ha bisogno del canale mediatico per rivolgersi alle
masse. Ma soprattutto c’è una profonda analogia nel loro modo, pur problematico,
di trasmettere i propri messaggi a masse di destinatari anonimi e atomizzati. E
in effetti, più siamo connessi ai media in modo verticale e impersonale, meno
siamo legati tra noi in modo orizzontale e personale. Un’atomizzazione che
accresce la nostra dipendenza e la nostra vulnerabilità nei confronti dei mass
media, che sono di fatto a doppio taglio: più costituiscono formidabili mezzi
d’informazione «democratica» (accessibili a una larga audience), più favoriscono
la concentrazione oligarchica della parola pubblica, conferendo un immenso
potere di disinformazione a coloro che la detengono. Offrendo «pane e giochi
circensi», gli imperi mediaticoindustriali minacciano la democrazia: la
situazione dell’Italia berlusconiana non fa altro che manifestare in modo
particolarmente acuto la norma che predomina ovunque. Il verme è nella mela. Se
la pubblicità dirotta l’informazione, bisogna anche capire, come ci invita a
fare Christopher Lasch, le insufficienze dell’informazione stessa:
Ciò
che la democrazia esige, è un dibattito pubblico vigoroso, non informazione.
Certo, essa ha anche bisogno di informazione, ma il tipo di informazione di cui
ha bisogno può essere prodotto solo attraverso il dibattito. Non sappiamo quali
cose abbiamo bisogno di sapere finché non abbiamo posto le domande giuste [.].
Quando ci impegniamo in discussioni che catturano interamente la nostra
attenzione e la focalizzano, ci trasformiamo in avidi ricercatori d’informazione
pertinente. Altrimenti assorbiamo passivamente l’informazione, ammesso che lo
facciamo
.

La comunicazione all’assalto della democrazia
Siamo
giunti alla questione politica, e anche qui è la pubblicità che ha aperto dei
varchi. La distinzione che, malgrado l’identità dei loro metodi, sussisteva tra
pubblicità e propaganda si è andata sbiadendo. Due cose le differenziavano:
innanzi tutto il loro ambito di applicazione (commercio/politica); poi il fatto
che la pubblicità costituiva una professione autonoma (in quanto le imprese
affidavano la loro pubblicità ad agenzie esterne), mentre la propaganda veniva
fatta dai politici e dai militanti stessi. Al giorno d’oggi, i pubblicitari
fanno «marketing politico» o «elettorale» e s’incaricano della propaganda dei
partiti. La confusione delle categorie è giunta a un punto tale che i messaggi
di propaganda politica inseriti a pagamento sono talvolta preceduti dalla
menzione «pubblicità», mentre quelli della propaganda commerciale lo sono
dall’indicazione «comunicato», normalmente riservata alle istituzioni
pubbliche.

Negli anni Ottanta i pubblicitari si compiacevano nel
constatare che «la politica è entrata in pubblicità e viceversa». Le prospettive
di arricchimento per la vita civica appaiono esaltanti: «In una società
fondata sul consumo di massa quasi obbligatorio tutto si vende, e di frequente
per ragioni molto lontane da quelle che sono le qualità intrinseche: dall’uomo
politico alla saponetta…». Per i nostri strilloni della democrazia adulterata,
«l’atto elettorale è un atto di consumo come un altro».

Questa
prospettiva, che vede la politica passare dal dominio della convinzione a quello
della seduzione, non incanta più di tanto i cittadini, tanto che in Francia
vengono votate alcune leggi in materia. La pubblicità politica è così bandita da
televisioni e radio, e poi, nel 1990, anche dalle affissioni murali.
Immediatamente, la «comunicazione» si sostituisce alla pubblicità, troppo
chiassosa. La furbata è ben evidente: «comunicare» suona meno unilaterale. Ed è
certamente molto più insidioso. Come spiega un «comunicatore», «il consiglio in
comunicazione non si esprime necessariamente sotto forma pubblicitaria e non è
per forza di cose vistoso». La comunicazione è discreta, ma si tratta sempre di
«influenzare le attitudini e i comportamenti dei diversi tipi di pubblico».
Jean-Pierre Raffarin, ex pubblicitario divenuto primo ministro, incarna questa
convinzione: «La comunicazione pubblicitaria è divenuta per molti la soluzione a
tutti i gravi problemi della società». Tutto sarà sistemato d’ora in avanti a
colpi di comunicazione, modalità in grado di «gestire» i conflitti sociali, di
render possibile il «management» dell’opinione pubblica.

Governare vuol
dire apparire. I consulenti in materia di comunicazione applicano ora tecniche
che si sono provate efficaci nel campo del commercio. Così vengono organizzate
«riunioni Tupperware» per insegnare a piccoli gruppi di politici la demagogia
del sorriso su misura; si ricorre al telemarketing, o alla pubblicità postale,
per fare due chiacchiere con i cittadini; se poi ai politici è vietato comparire
nei jingles pubblicitari delle catene televisive e radiofoniche, non per questo
essi hanno perduto ogni speranza di ficcarcisi in qualche modo. Il ruolo di
comunicatore assume qui tutta l’ampiezza possibile. Si negoziano interventi in
trasmissioni valutate in anticipo sulla base della loro capacità di veicolare il
messaggio. Essendo il tempo per parlare limitato, ci si applica per renderlo
altamente redditizio ricorrendo alle regole pubblicitarie: per «vendere un’idea»
bisogna a) esprimere una promessa e una soltanto, che sia b) confacente al
target, c) semplice, d) credibile, e) durevole, declinabile, f) opportunista. Il
che spiega perché le campagne si concentrino solo su pochi temi e il discorso
sia ridotto a slogan.

Sotto la pressione dell’Auditel, le trasmissioni
politiche si fanno più rare; i comunicatori devono allora far passare i loro
clienti in altre trasmissioni, naturalmente di intrattenimento. Niente viene più
escluso per far parlare di sé, migliorare la propria «immagine» e imprimerla
nella testa degli spettatori. Quando poi, come di norma accade, i partiti di
governo standardizzano i propri programmi per impadronirsi del «centro», tutto
si gioca in termini di «personalità» dei candidati, l’equivalente dell’«immagine
di marca», e non si parla più di politica, ma delle mogli, dei bambini, degli
hobbies. Questo degrado della vita politica raggiunge l’apice in Paesi dominati
da giunte violente che ricorrono spesso e volentieri ai servizi delle agenzie di
«relazioni pubbliche» occidentali, per raffinare la loro «comunicazione» interna
ed esterna o per scegliere la marionetta che avrà le migliori possibilità di
«sedurre» le masse locali. Il Guatemala è tra quelli che ne hanno fatto le
spese: il fondatore dell’industria di public relations ha mobilitato l’opinione
pubblica americana per preparare il rovesciamento, a opera delle élite locali e
della CIA, del suo presidente democratico, che aveva osato proporre una riforma
agraria in questa repubblica delle banane della United Fruit.
La Guerra del
Golfo, altamente spettacolarizzata, ha poi portato al culmine queste
manipolazioni di massa. Un’agenzia di public relations ha organizzato la falsa
testimonianza di un’infermiera, che ha raccontato al Congresso americano di aver
visto soldati iracheni uccidere bambini in fasce: l’intensa emozione da parte
del pubblico convince definitivamente che bisogna andare in guerra. I
comunicatori di Bush padre cominciano anche ad applicare la neolingua, così gli
«interventi chirurgici» rendono i bombardamenti più accettabili, anche se in
realtà non sono molto meno mortiferi. Sottili strategie di marketing politico
per vendere la guerra a un’opinione pubblica reticente.

Per quanto i
media abbiano in seguito riconosciuto di essersi lasciati trasformare in
altoparlanti delle fucine di propaganda alleate, le operazioni d’intossicazione
si sono poi moltiplicate. Al fine di giustificare l’intervento della NATO, le
agenzie di relazioni pubbliche si sono sfiancate per «far coincidere serbi e
nazisti», alimentando così le campagne di disinformazione sull’esistenza di un
genocidio in Kosovo. E i media, gli intellettuali e le opinioni pubbliche si
sono lasciati beffare. In seguito, il Tribunale penale internazionale dell’Aja
ha trovato solo 2.108 corpi e nessuna fossa comune: il famoso «Piano Ferro di
cavallo» sarebbe un’invenzione dei servizi segreti occidentali, e peraltro
l’abbietto Milosevic? è stato perseguito esclusivamente per crimini di guerra.
L’Office of Global Communication anglo-americano ha svolto bene il suo lavoro
anche durante la seconda guerra in Iraq: se le frottole sulle armi di
distruzione di massa non hanno attecchito più di tanto in Europa, il bluff dello
smontaggio della statua di Saddam (organizzato in anticipo dalla coalizione e
dai media) ha comunque procurato un effetto istantaneo di giustificazione della
guerra, recuperando il potenziale emotivo delle immagini sulla caduta del
comunismo.

La prima cosa di cui ci si deve riappropriare è il senso delle
parole. I governi hanno sempre fatto propaganda: in Francia, prima della seconda
guerra mondiale, c’era un ministero che portava questo nome. Il termine è in
seguito divenuto peggiorativo, e non casualmente i propagandisti si sono
acconciati con il grazioso nome di «comunicatori» (o «esperti in relazioni
pubbliche»), ponendo un’aureola di onestà sul carattere manipolatore di un
lavoro difficilmente controllabile.
Pur essendo la situazione già abbastanza
deteriorata, i venditori di comunicazione hanno da poco fondato in Francia la
lobby Démocratie et Communication con l’obiettivo di far cadere le restrizioni
imposte alla pubblicità in campo politico (come il divieto di spot, rimosso in
occasione delle elezioni europee del 2004). Tra costoro Jacques Séguéla, che ama
presentarsi come un «figlio della pubblicità», un «mercenario garantito », un
«camaleonte». Costui ha fatto la pubblicità per François Mitterrand
(«Generazione Mitterrand») e per innumerevoli partiti nel mondo intero,
vantandosi di cambiare campo per essere sempre dalla parte del vincitore. Come
tanti comunicatori francesi, ha sguazzato nella rete dei rapporti
franco-africani, lavorando per quei dittatori che servono così bene, anche loro,
gli interessi della nostra industria nazionale, precisamente quella
petrolifera.

Se si pongono queste evoluzioni in una prospettiva storica,
si può parlare con Jürgen Habermas di «rifeudalizzazione dello spazio pubblico».
Nel Medio Evo, le decisioni politiche erano prese nei segreti arcani del potere:
ciò che veniva concesso al popolo erano sfilate e feste in cui i potenti davano
spettacolo di sé per accrescere il proprio prestigio. Con l’età dei Lumi, si
costituisce una sfera pubblica che non si accontenta di acclamare passivamente
il potere, ma lo contesta e lo discute: sta qui l’origine delle moderne
rivoluzioni politiche. Tuttavia, con la crescente concentrazione economica e con
l’emergere di un nuovo potere politico, quello delle grandi imprese, lo spazio
pubblico ha velocemente ripreso il suo aspetto di scena ludica dove i potenti si
pavoneggiano per ottenere un consenso plebiscitario. I grandi orientamenti
politici non sono più discussi, bensì imposti con tattiche di comunicazione che
ne dissimulano le poste in gioco: è la fabbricazione del consenso, the
manufacturing of consent.

Ci si può indignare del «passaggio dalla
democrazia rappresentativa alla democrazia consumista» annunciato da Séguéla, ma
questo stravolgimento si limita a esacerbare fino al parossismo quelle
insufficienze intrinseche alla democrazia rappresentativa, la quale non esige
affatto l’impegno di ciascuno nella sfera politica, ma il suo esatto contrario.
Poiché il concetto di partecipazione si è ormai ridotto ad andare a votare ogni
cinque anni, non ci si può meravigliare che il potere sia stato confiscato da
professionisti della politica, esperti e altre figure chiave del mondo della
comunicazione. Lo spirito «progressista» ha la sua parte di responsabilità in
questa deriva: ha disdegnato le tradizioni popolari di autogoverno locale e non
ha dato prova di alcuna chiaroveggenza di fronte allo sviluppo industriale e
mediatico, assimilandolo al Progresso e trascurando i suoi effetti nefasti sulle
condizioni concrete del dibattito pubblico e della sovranità popolare.
È
quindi logico, purtroppo, che la politica si sia ridotta sempre più a uno
spettacolo; e la cancrena pubblicitaria non fa che rivelare i limiti di una
concezione poco esigente e troppo mediatizzata (cioè indiretta) della
democrazia. La via per manipolare l’opinione pubblica, mascherando qualsiasi
politica, statale o industriale, dietro il velo dell’interesse generale, è ormai
libera. Nel 2004 Sanofi-Synthélabo ha lanciato una OPA ostile su Aventis: se si
deve credere alla campagna di comunicazione condotta in quest’occasione, solo
l’interesse umanitario a salvare delle vite avrebbe motivato la costituzione di
questo quasi-monopolio farmaceutico.

La creazione industriale di
nuove malattie

Nel Medio Evo, ciarlatani e cavadenti promettevano
già bellezza e salute, per non dire dell’eterna giovinezza, grazie a pozioni
miracolose e a elisir di lunga vita. Si sarebbe potuto sperare che simili
pratiche declinassero con il progresso; al contrario, la pubblicità le ha
esacerbate. Se non vale la pena attardarsi sull’esempio caricaturale dei
cosmetici, ben altra attenzione merita il modo, misconosciuto, con cui
l’industria farmaceutica utilizza il sistema pubblicitario per pervertire la
medicina. In Francia, la vendita e la pubblicità diretta dei medicinali sono
teoricamente limitate: in realtà lo sono sempre meno. Gli industriali del
settore stanno cercando di raggiungere il grande pubblico e lo fanno, come
chiosano ammirati i pubblicitari, «a suon di sotterfugi per raggirare una
regolamentazione restrittiva». Sarebbero tutti soddisfatti se si raggiungesse il
livello degli USA, dove la deregulation liberale ha autorizzato il direct to
consumer. In dieci anni, i budget pubblicitari si sono decuplicati e il giro
d’affari dei medicinali coinvolti si è triplicato…

Non siamo ancora a
questo punto, ma il sistema pubblicitario non è meno attivo in Francia, dove
mira al target che la legge gli consente: il medico che fa le ricette. I medici
sono tampinati da una legione di rappresentanti dei laboratori farmaceutici. Si
parla spesso della carenza di personale medico negli ospedali. Ricordiamo che in
questo caso c’è un rappresentante ogni nove medici! Si parla spesso della «dura
necessità», per poter finanziare la ricerca medica, di far pagare ai Paesi
poveri i diritti di brevetto, che moltiplicano per dieci o anche più il prezzo
dei medicinali. Ricordiamo che i laboratori destinano soltanto dal 9 al 18% del
loro budget alla ricerca, ovvero tre volte meno di ciò che viene destinato al
marketing.

A lungo persuasi di far bene il loro mestiere, cioè di fare
del loro meglio per la salute del paziente, i medici si sono resi conto che
vengono reclutati per fare consumare il più possibile determinati prodotti. Un
sistema pubblicitario efficace mira a fare di chi prescrive le ricette un
braccio affidabile della tenaglia che stritola certi malati. Ecco come si svolge
il lavaggio del cervello, spiegato da chi l’ha subìto in prima persona.
All’inizio dei suoi studi, il futuro medico scopre con piacere tutto un mondo di
regali, di loghi che gli divengono familiari e di sponsor generosi che
sovvenzionano serate e settimane bianche. La contropartita sembra minima, basta
far finta di ascoltarli mentre abbozzano una graziosa «verità scientifica» su un
dato prodotto.

Comunque, «fanno parte della nostra formazione», come
dicono i più vecchi, in generale già ben formattati. Più tardi, lo studente
comincia a conoscere seriamente le patologie. I libri su cui studia raccomandano
certi medicinali in grassetto, gli stessi di cui si ritrova la scintillante
pubblicità nella sovraccoperta o inserita tra le pagine. Libri scritti dal «fior
fiore della medicina», che ha acquisito notorietà grazie alle sovvenzioni di
laboratori legati alle loro specializzazioni gli stessi che producono quei
medicinali. Ma per lo studente quel testo è il riferimento indispensabile, e
siccome la medicina s’impara a memoria, tutto ciò entra a far parte del sistema!
Durante l’internato, volente o nolente, frequenta i laboratori più volte a
settimana (in occasione di «visite di cortesia», di uscite organizzate, di
«riunioni d’informazione», ecc.). Inoltre, il primario può esercitare pressioni
dirette o indirette affinché si orientino le prescrizioni a favore del
laboratorio X, amico del primario.

Lungo tutta la sua vita lavorativa, il
medico sarà corteggiato per il suo stesso bene: riunioni, pranzi, «soggiorni di
formazione» lo arricchiranno di un sapere preconfezionato, abilmente truccato
alla bisogna nelle riviste di riferimento o nei dépliant che vantano le
proprietà del medicinale (che talvolta «dimenticano» di menzionare taluni
effetti secondari).

Quando sono state lanciate le pillole contraccettive
di terza generazione (meglio tollerate delle precedenti, ma considerate a
rischio per un possibile aumento delle malattie cardiovascolari), un laboratorio
spiegava nelle sue schede promozionali come, contrariamente alle pillole
concorrenti, il tasso di colesterolo non fosse aumentato con i suoi prodotti. Un
esame più attento della spiegazione segnalava che questa prova «scientifica» era
stata riscontrata… nella femmina del coniglio. Le cavie sapranno apprezzare.
Quindi, anche se i medici hanno appreso (molto di recente) ad avere uno sguardo
critico, i trucchi del mestiere funzionano sempre. Allorché i rappresentanti
cessano di incentivare i medici, il volume dei medicinali prescritti nella zona
geografica trascurata (sorvegliata con la complicità dei farmacisti e delle
mutue) precipita. Sono dunque i rappresentanti ad acuire il senso critico dei
medici? Sì, nei confronti di malattie che non esistono e che vengono create a
colpi di convegni e articoli «scientifici» ratificati da rinomati professori.
Una creazione particolarmente facile quando la frontiera tra il normale e il
patologico è così sottile. A partire da quali soglie bisogna prendere in
considerazione il tasso di colesterolo o la tensione arteriosa?
La minima
flessione può creare un mercato immenso…

Philippe Pignarre, che ha
lavorato per diciassette anni nell’industria farmaceutica, ci ricorda che
quest’ultima costituisce il «gioiello della corona del capitalismo». I suoi
tassi di profitto sono più alti di quelli di qualsiasi altro settore, banche
comprese. Ma per mantenerli, tenendo conto della scadenza dei brevetti, bisogna
innovare di continuo e spingere con urgenza, a dispetto di ogni prudenza, al
consumo di nuovi prodotti. Pignarre ci spiega in dettaglio le strategie
impiegate: si pubblica uno stesso articolo, sotto firme diverse, per aumentare
la notorietà di una nuova molecola e suggerire ai medici che i suoi vantaggi
sono stati davvero confermati; poi la si può addirittura commercializzare sotto
due nomi diversi per imporla più rapidamente (strategia detta di co-marketing);
infine si fa pressione per farla prescrivere in prima battuta, ecc. Quando le
molecole divengono di pubblico dominio, si procede alla «cosmesi» dei
medicinali, scommettendo sulla celebrità del nome di marca; ad esempio, si fa di
tutto per far dimenticare che la Tachipirina non è altro che paracetamolo. C’è
anche la «strategia di nicchia »: i laboratori propongono il loro medicinale nel
sottodominio limitato di una patologia e in seguito «lavorano per allargare
questa nicchia, preparando i medici al depistaggio e sensibilizzando sia la
stampa che il grande pubblico. Si sono così visti nascere alcune ‘nuove’ turbe
psichiatriche», come certe forme di depressione breve o di schizofrenia
precoce.

Davanti alla difficoltà di trovare nuovi medicinali, i
laboratori si accingono dunque a inventare nuovi pazienti per vendere i loro
vecchi prodotti. A questo fine, essi ricorrono a tutti gli stratagemmi del
sistema pubblicitario, utilizzando le tattiche di comunicazione che si
indirizzano direttamente alle masse per il tramite dei media. Negli Stati Uniti
è così improvvisamente comparsa una nuova malattia: «la turba da fobia sociale».
Tra il 1997 e il 1998 vi si fa riferimento, nei media, una cinquantina di volte
ma, nel 1999, l’epidemia sembra dilagare tanto che vi si fa riferimento più di
un miliardo di volte. Cosa è successo? Niente, se non lo sviluppo di una vivace
strategia di relazioni pubbliche per conto di un laboratorio che cerca nuovi
sbocchi per un antidepressivo, il Paxil, le cui vendite aumentano del 18%
nell’anno 200024.

Queste strategie sono pericolose, perché i medicinali
possono innestare una caterva di effetti indesiderabili, che vanno dagli effetti
collaterali benigni a quelli mortali. Ad esempio, un laboratorio propone degli
ormoni per occuparsi della «menopausa maschile»; le sue pubblicità giocano sul
desiderio degli uomini di «restare giovani» e di conservare tutta la loro
libidine. Ma c’è da temere che il testosterone proposto comporti a lungo termine
un drammatico aumento dell’incidenza del cancro alla prostata. Allo stesso modo,
anche sul breve termine, i sondaggi clinici su un campione di 2.500 persone sono
statisticamente troppo deboli per accertare eventuali effetti negativi gravi
(con i laboratori che, in caso di problemi, fanno tutto il possibile per
spiegarli tramite le caratteristiche delle cavie piuttosto che delle molecole).
Un farmaco tagliafame ha ottenuto nel 1985 l’autorizzazione alla distribuzione
sui mercati (AMM): trombe e tamburi, congressi sul prodotto miracoloso che
migliorerà l’alimentazione di milioni di persone, malate per aver troppo
consumato o più spesso schiave di un conformismo fisico propagandato proprio
dalla pubblicità.

In pochi anni viene consumato da sette milioni di
persone e qui ci si accorge della sua pericolosità: 200 persone moriranno o
subiranno gravi conseguenze. L’ingegnosità dispiegata per massimizzare la
redditività del triangolo medico-malato-laboratorio è terrificante. Il
predominio dell’immagine sulla verità è un tratto indiscutibile della
pubblicità, ma nel campo della salute è criminale, perché i medicinali sono
potenzialmente delle vere e proprie mine antiuomo.
Il principio di
precauzione va a farsi fottere grazie a un’ondata di pubblicità che stimola
l’iperconsumo dei medicinali, il quale a sua volta comporta 1.300.00 ricoveri
(cioè il 10% del totale!) e 18.000 decessi all’anno solo in Francia. Coccolando
l’illusione ossessiva della salute perfetta, della bellezza e della gioventù
eterne, Big Farma ha creato di fatto delle nuove malattie.

Il cinismo dei
laboratori trova l’eguale solo presso i loro marketers, che sacrificano
coscientemente la nostra indipendenza, e anche la nostra vita, al Dio Profitto.
Eppure sarebbe sbagliato e ingiusto imputare al solo sistema pubblicitario
questa deriva del mondo della medicina. Di nuovo, essa non fa che svelare,
aggravandole, le insufficienze di una concezione della medicina come assistenza
focalizzata sulla prescrizione di composti chimici la cui aggressività è causa
di patologie e dipendenze. Ora, le statistiche provano che i progressi della
salute pubblica non sono legati in modo decisivo ai medicinali moderni, ma molto
più al miglioramento delle condizioni di vita e specialmente dell’alimentazione,
vale a dire a cose che gli individui possono controllare da sé. Un’altra
concezione della salute si profila a questo punto, una concezione fondata
sull’autonomia personale e garantita da una sana igiene di vita che prevede il
ricorso all’assistenza medica solo in certi casi particolari.

Gli
«spettacolari progressi» della tecnica medica non solo non hanno contribuito
granché all’aumento della speranza di vita, ma hanno avuto effetti nefasti non
voluti o previsti dai medici. Da un lato questi effetti, invece di spingere gli
individui a prendere in mano la loro salute per costruire un modo di vivere più
sano, hanno rinforzato l’idea che la salute è assicurata al meglio tramite il
consumo quotidiano di cure prodigate da istanze specializzate. Dall’altro lato,
sono stati sistematicamente usati per giustificare le condizioni di vita
moderne: condizioni che sono sempre più patogene! Il cancro, causa di morte per
150.000 francesi ogni anno, è un’epidemia legata all’industria, più precisamente
a quella chimica, che è anche alla base della farmacopea. Come scriveva Ivan
Illich, “la civiltà industriale crea nuove malattie e il sistema medico
stesso è ben lungi dall’essere sano: Una struttura sociale e politica
distruttiva trova il suo alibi nel potere di appagare le proprie vittime con
terapie che esse hanno imparato a desiderare. Il consumatore di cure diviene
impotente a guarirsi o a guarire chi gli sta vicino”.

CONCLUSIONI

Era ora che la pubblicità provocasse una reazione proporzionata alla
ripugnanza che ispira a molti di noi: la pubblicità è in sé infame, è propaganda
industriale che si spaccia per informazione e talvolta passa per tale. È infame
per ciò che promuove: l’edonismo adulterato, il narcisismo delle apparenze
mercantili, la noncuranza cool e il disprezzo del passato che sta dietro alla
beata nostalgia della «vera vita campestre». È infame soprattutto perché è un
potente motore di quel consumismo e di quel produttivismo che sono all’origine
del saccheggio della natura e delle società, al quale contribuisce in misura
ancora maggiore mascherando la devastazione del mondo che ne consegue e che,
malgrado tutto, salta agli occhi.

Non ci si può che rallegrare del
lavoro di tutte quelle associazioni che si sforzano di sensibilizzare la
popolazione su questa peculiare nocività e che lottano compatte contro il suo
imperialismo. Ma questa battaglia resta troppo spesso parziale; condotta per vie
legali e giuridiche, essa è simile a quella di Sisifo contro il suo masso, che
rotola sempre giù dal pendio. Non ci si può limitare a criticare la pubblicità,
come ha ben capito l’associazione Casseurs de pub che, traendo le dovute
conseguenze dalla sua attività iniziale, oggi pubblica un giornale intitolato
«La Décroissance» (La Decrescita). La pubblicità è in effetti intrinseca
all’organizzazione della vita di cui tutti facciamo parte e che bene o male
sopportiamo: essa ne è quindi inscindibile, in tutte le sue dimensioni.
Criticare la pubblicità senza criticare questa organizzazione e senza voler
uscire dalla trappola della crescita è contraddittorio.
La pubblicità è una
componente a pieno titolo di quella produzione industriale su cui poggia il
nostro laborioso comfort.

È indissolubilmente legata alla divisione del
lavoro, alla concentrazione economica, al ruolo del denaro nella nostra società;
in breve, al fatto cruciale che noi affidiamo alle grandi imprese, dietro
pagamento, il diritto di occuparsi della nostra vita al nostro posto. Non ci si
può dunque accontentare di rompere la vetrina pubblicitaria, perché dietro di
essa c’è il potere ideologico e pratico che esercitano le grandi marche sul
nostro quotidiano, ed è questo che va messo sotto accusa. Non bisogna aspettarsi
nulla dalle marche, soprattutto quando, come sottolinea Stuart Ewen, recuperano
le critiche per darsi un’immagine di «imprese responsabili» che s’ingegnano per
mettere una spruzzata di etica sulle loro etichette, o per passare una mano di
pittura verde sulle lamiere ondulate delle loro fabbriche:

La cultura
di massa ci interpella nella stessa lingua della nostra critica, invalidandola
giacché propone le soluzioni della grande impresa ai problemi della grande
impresa. Finché non ci confronteremo con l’infiltrazione del sistema mercantile
fin nei più reconditi meandri dell’esistenza, lo stesso cambiamento sociale
resterà un prodotto della propaganda delle marche. Abbiamo assistito ai primi
passi di una politica della vita quotidiana; ma questa politica è subito
divenuta un pupazzo nelle mani della controparte. […] Bisogna restare vigili e
rigettare ogni forma di progresso sostenuta dalle marche
.

Una volta
che si sia presa coscienza del carattere devastante del sistema industriale,
cosa si può fare per evitare di essere complici della sua espansione? Oggi è
impossibile non fare compromessi, tenuto conto delle costrizioni implicite nelle
nostre condizioni di vita. Ma la necessità di fare tutto il possibile per
riprenderne il controllo non è per questo meno pressante.

Bisogna
cercare di uscire dalla nostra dipendenza quotidiana da una megamacchina
statal-industriale che ci assiste in tutti i nostri atti. E dunque imparare a
vivere altrimenti: lavorare e consumare diversamente, al tempo stesso meno e
meglio; preferire, quando è ancora possibile, il mercato al supermercato,
gli
artigiani agli industriali, gli indipendenti alle catene e alle grandi case di
produzione, il rigattiere e il mercato delle pulci agli asettici centri
commerciali. Non è infatti risibile scandalizzarsi della pubblicità e degli
abusi del sistema industriale che vi fa ricorso, continuando nel frattempo a
favorire l’espansione di entrambi con i propri atti di consumo?

Ma per
comprendere il fenomeno pubblicitario, e pretendere di opporvisi, bisogna vedere
più in là della dittatura del profitto e del produttivismo; o meglio, bisogna
sforzarsi di coglierne tutte le manifestazioni concrete, comprese quelle che
intaccano, a causa della venalità generalizzata e della logica della
redditività, il nostro quadro di vita e l’esistenza che vi conduciamo. Una
critica seria della pubblicità non può inoltre esimersi da una critica dei mass
media e della stampa contemporanei, progressivamente divenuti una gigantesca
pagina pubblicitaria. Come non può tralasciare una critica all’urbanismo e
all’organizzazione moderna dello spazio, con le sue reti di trasporti peraltro
tanto propizie al martellamento pubblicitario.

E tale critica, non ci
conduce forse a interrogarci sul valore di certe infrastrutture che il
mainstream dell’oscurantismo sedicente «progressista» pubblicizza in maniera
costante? Pensiamo a tante cose, e in particolare – per non esitare a rimettere
in discussione un consenso tanto cieco quanto universale (soprattutto nei
francesi) – agli aeroporti, alle autostrade, alle linee ad alta velocità, alle
antenne per le reti di telefonia mobile, e ovviamente ai progetti internazionali
per costruire in Francia nuove centrali nucleari a basso costo o sperimentali
(progetti EPR e ITER). Non è il caso di interrogarsi, per ogni singola
situazione e in modo preciso, sui «benefici» che queste infrastrutture ci
apportano in relazione a quelle che rimpiazzano e in relazione alle alternative
di cui impediscono lo sviluppo? Di domandarsi se questi benefici non si
realizzano in realtà solo a vantaggio di una minoranza? Di confrontare tali
presunti benefici con i costi di queste infrastrutture per la collettività in
termini di budget colossali, di ricadute nocive, di risorse mobilitate e
soprattutto di rischi indotti? Perché, di nuovo, il loro effetto è quello di
favorire l’espansione dello sviluppo industriale e della logica concorrenziale,
quando sembra invece urgente frenarli e deviarli per evitare il disastro
ecologico e umano che si profila all’orizzonte.

Certo, questa messa in
discussione non deve essere fatta solamente in nome dei disagi e delle ricadute
nocive subite dalle popolazioni locali, ma nella prospettiva di una critica
globale di un sistema universalmente nocivo (e in che misura!) che esige queste
infrastrutture per svilupparsi. I movimenti locali vengono così spesso sconfitti
perché restano prigionieri di rivendicazioni troppo private che immediatamente
li discreditano. Se è facilmente comprensibile che essi non abbiano voglia, e a
buon diritto, di avere questi sconci vicino casa, perché altri dovrebbero invece
volerli?

Da questo punto di vista, la lotta contro la pubblicità, in
particolare nelle forme che ha assunto a partire dalle azioni dell’autunno 2003,
è interessante a più livelli. Intanto ha consentito di prendere le distanze
dalle rivendicazioni corporative avanzate dalla maggior parte dei sindacati. Poi
si è affrancata, quanto meno nei discorsi dei suoi promotori più conseguenti,
dalle contraddizioni classiche della critica della pubblicità, quella che si
adombra pudicamente per i metodi più scandalosi come la «persuasione occulta»,
continuando però a ripetere docilmente l’assunto delle nostre operose élite: «La
crescita non è il problema ma la soluzione». Se si pensa veramente che la
crescita sia un obiettivo auspicabile, allora bisogna attrezzarsi con mezzi
adeguati, e una scialba réclame utilitarista e informativa non ne fa parte. Se
s’intende accettare il saccheggio del mondo da parte dell’iperconsumo, allora è
meglio che esso venga mascherato con sfavillanti spot pubblicitari, tanto
sensazionali quanto mistificatori.

Intendiamo denunciare con fermezza
anche le altre illusioni di cui si nutrono le critiche ingenue della pubblicità.
Allo stato attuale dei rapporti di forza, non c’è alcuna ragione perché la
pubblicità arretri o fermi la sua avanzata. Non c’è alcuna ragione, ad esempio,
perché i bambini delle scuole francesi sfuggano, quando sarà il momento, al
trattamento pubblicitario shock che viene già somministrato ai loro coetanei
negli Stati Uniti. Le riforme dell’istruzione pubblica hanno attivamente
promosso tutte le condizioni affinché le scuole francesi abbiano sempre più
bisogno del denaro dei poteri forti privati, e ben presto molte saranno
attaccate a flebo commerciali. È possibile che talune iniziative riescano,
almeno in certi istituti, a ritardare la scadenza, ma da sole non potranno
cambiare il problema di fondo. Concentrandosi su un capro espiatorio facile come
la pubblicità, esse anzi contribuiscono a occultare la funzione cui l’istruzione
pubblica tende a restringersi, con la benedizione dei genitori preoccupati per
il «futuro» dei loro bimbi: quella di preparare questi ultimi a diventare
impiegati «competitivi» e consumatori «razionali».

La questione della
pubblicità illustra in modo crudo quanto sia oggi difficile apportare dei
miglioramenti a un aspetto particolare della vita sociale senza chiamarne in
causa anche tutti gli altri. La pubblicità rappresenta perfettamente la vita che
conduciamo! Il riflusso pubblicitario non potrà ovviamente risultare se non da
un regresso della produzione mercantile e dall’emergere di altri rapporti
sociali (dove sarà magari più consueto venire in aiuto dei propri vicini che
accettare denaro per far installare un pannello pubblicitario in uno spazio di
cui si è proprietari). Non potrà verificarsi se i rapporti di forza e
l’organizzazione della vita non muteranno profondamente. E perché questo
avvenga, non basterà certo invocare lo Stato, nella speranza che limiti il
bombardamento in atto e difenda quei cittadini impotenti che ha largamente
contribuito a espropriare di ogni potere sulle loro vite. Per arrivare a toccare
questioni cruciali, la pubblicità non dev’essere contestata isolatamente, bensì
usata come una interessante via d’accesso per arrivare a una critica radicale
del capitalismo. […]

In un contesto storico in cui il sabotaggio ci
sembra nuovamente chiamato a ritrovare i suoi titoli nobiliari, le azioni contro
la pubblicità hanno anche saputo riallacciarsi alla critica dello spettacolo.
Iconoclaste e profanatrici, esse hanno aggredito – spesso inconsapevolmente, ma
talvolta in modo del tutto cosciente – il cuore del capitalismo: il feticismo
della merce. Al capitalismo non basta sfruttare gli uomini dall’esterno, con
l’appoggio dello Stato e delle sue coorti armate;
esso è anche una religione,
e il suo principale supporto, oggi, è ognuno di noi, persi come siamo nella
massa dei fedeli-consumatori ammaliati dai miracoli dell’industria hi-tech.

Nel 1921, Walter Benjamin aveva già capito che il capitalismo è «la
celebrazione di un culto senza sogni e senza pietà». Tale culto è quello del
denaro e della sua incarnazione in forma di merce: «senza pietà», cioè
inesorabile e permanente, «senza sogno», cioè senza utopia e senza speranza. Un
culto che non promette alcun superamento verso un altrove, ma soltanto la
propria intensificazione; che organizza un mondo chiuso nel «qui e ora»
mercantile, un mondo esposto in un presente senza memoria. Per dirla con Herbert
Marcuse, si tratta di un mondo unidimensionale nella misura in cui è privo di
ogni ideale che lo trascenda e che permetta dunque di uscirne per giudicarlo e
criticarlo. L’uomo a una sola dimensione che gli corrisponde non fa altro che
proiettarsi verso nuove spese. E non potrà mai ribellarsi: senza sogni, non c’è
rivolta.

I grandi sacerdoti di questo culto senza tempi morti sono
indubbiamente i pubblicitari. San Cathelat considera le sue contorte opere come
le vetrate di quelle «cattedrali moderne» che sono gli ipermercati. San Séguéla,
profeta esaltato della pubblicità «divina», «missionaria» e «immortale», ci
assicura che essa è precisamente «l’eucarestia di quella grande messa pagana che
è il consumo». La prova dell’«essenza divina» del sistema pubblicitario, ci
spiega, è che esso «fa il mondo a sua immagine». E così «ipnotizza la nostra
infanzia, manovra la nostra gioventù, abbrutisce la nostra maturità». Nessun
sacrificio è sufficiente per questo idolo, tanto vorace quanto spietato.
Evangelizzatori delle masse, questi pastori dei centri commerciali guidano le
loro pecorelle verso le casse, santificando da bravi curati al passo coi tempi
un capitalismo ipersviluppato.

Davanti alla miseria umana che questo
propaga, loro promettono ciò che può solo intensificarla: la consolazione
attraverso il consumo, fondamento di questo miserabile surrogato di religione
che è appunto il consumismo, nuovo oppio dei popoli. Blando euforizzante e
potente narcotico, questo procura soddisfazioni illusorie e instilla una
rassegnazione reale. I pubblicitari sono mercanti di sabbia che lavorano per
espandere il deserto.

Nei secoli XVIII e XIX, i pensatori illuminati
ritenevano che la critica della religione fosse la premessa di ogni critica. In
un opuscolo situazionista del 1966, intitolato De la misère en milieu étudiant,
Mustapha Khayati delineava una nuova configurazione storica, nella quale ci
ritroviamo oggi più che allora:
«Nell’epoca del suo dominio totalitario, il
capitalismo ha prodotto la sua nuova religione: lo spettacolo». Il sistema
pubblicitario è solamente il vettore più manifesto di questa contemplazione
medusea provocata dalla vita autonoma di un’economia che si rivela mortale per
ogni vita decente. Criticarla
è la condizione preliminare di ogni altra
critica sociale. Preliminare, perché bisogna essersi già liberati di questo
contesto di accecamento per poter aprire gli occhi sul mondo immondo generato
dalla crescita mercantile. Ma solo preliminare, perché una volta rotto
l’incantesimo resta da ricostruire, negli
interstizi e sulle rovine della
devastazione, un mondo umano. Ciò che è infame ha cambiato maschera, ma la
parola d’ordine di Voltaire non ha perduto nulla della sua attualità:
«Schiacciate l’infame!».

Fonte:
MISERIA UMANA DELLA PUBBLICITA’. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo
, Gruppo
MARCUSE,
Elèuthera, 2006, 144 pp., euro 12,00

MATERIALI E APPROFONDIMENTI

Il gruppo M.A.R.C.U.S.E.
La pubblicazione nel 2004 del
volume “Miseria umana della pubblicità”, del gruppo M.A.R.C.U.S.E., ha portato
una ventata di freschezza nei discorsi spesso eccessivamente ideologici del
movimento francese della Decrescita (La Décroissance, si veda il sito
dell’Istituto per la Decrescita http://www.decroissance.org/).
Contemporaneamente, ha puntato il dito contro le furberie di ex pubblicitari
riciclatisi nella nuova industria del “subvertising”, sull’esempio di Adbusters.
Questo collettivo di giovani ricercatori (sociologi, economisti, filosofi,
storici, psicologi e medici) ha rimesso in discussione l’idea di “eccesso
pubblicitario”, l’unico discorso che i guru della società dell’immagine
accettano, come se fosse sufficiente regolamentare e limitare la pubblicità. La
critica di M.A.R.C.U.S.E. riguarda invece l’intero sistema pubblicitario,
considerato la chiave di volta dell’ideologia consumistica (di stampo liberale o
socialista che sia). Poiché oltre un certo livello di concentrazione di poteri
commerciali e finanziari, le imprese nel sistema di mercato sono obbligate a
prevedere e pianificare le loro attività. Quando esse investono capitali enormi
con anni di anticipo sugli introiti, devono assicurarsi che la produzione
massiva sarà effettivamente venduta. Il mercato diventa allora la “filiera al
contrario”: è l’offerta che regola la domanda. Il sistema pubblicitario è
l’incarnazione virtuale dell’onnipresente “mano invisibile” nella società dello
spettacolo.
E lo spettacolo, come i situazionisti avevano ben colto, è la
nuova religione nell’epoca del dominio totalitario del capitalismo. Come gli
illuministi ritenevano la critica alla religione fondamento di ogni critica
sociale, così la critica alla ragione pubblicitaria è la condizione prima per
abbattere l’infame religione del consumo di massa, contro la quale si levano
sempre più voci e atti di protesta, disobbedienza civile, sabotaggio.

Di
seguito riportiamo alcuni link interessanti a movimenti e associazioni vicine
alle posizioni del gruppo M.A.R.C.U.S.E., ma anche più istituzionali o non
centrati sulla Décroissance.

CASSEURS DE PUBhttp://www.casseursdepub.net/
Sito
dei Casseurs de Pub (Spacca-pubblicità). In francese. Dal 1999 promuove in
particolare la “Giornata senza acquisti”. Pubblica il giornale “La
Décroissance”, che si può ordinare sul sito, insieme ai dossier annuali dei
Casseurs stessi, con articoli, interventi, documentazione. Sono disponibili
anche materiali audiovisivi da scaricare e un aggiornato e fornito archivio di
materiali (articoli, saggi, interviste) sull’argomento. Ecco la loro
presentazione:
Nata nel 1999, l’associazione Casseurs de pub ha come
obiettivo la promozione delle creazioni grafiche e artistiche basate sulla
critica della società dei consumi e sulla promozione di alternative sostenibili.
In questo senso, l’associazione diffonde una rivista annuale, “Casseurs de pub”,
e un giornale bimestrale “La Décroissance”, tirato in 4500 esemplari,
disponibile su abbonamento oltre che in edicola. Si occupa inoltre di sostenere
eventi come la “Journée sans achat” (Giornata senza acquisti) o la “Semaine sans
télé” (Settimana senza televisione). L’associazione realizza filmati
d’animazione, organizza dibattiti, spettacoli, mostre, ecc. Oltre al sito
internet www.casseursdepub.net; come
Adbusters (adbusters.org), Casseurs de pub è stato fondato da un ex
pubblicitario.
Casseurs de pub – 11, place Croix-Pâquet – 69001 Lyon (France)
Tel. 04 72 00 09 82

BRIGADES ANTI PUBhttp://www.bap.propagande.org/
Brigate
Antipubblicitarie. In francese. Forum di discussione di varie realtà
antipubblicitarie, soprattutto francesi e canadesi. Sono disponibili materiali
fotografici, audiovisuali e testi. Con migliaia di partecipanti ai forum di
discussione e centinaia di iniziative concrete in tutto il mondo è uno dei punti
nevralgici di collegamento dei movimenti
antipubblicità.

ANTIPUB
http://www.antipub.net/
Sito di R.A.P.
(Resistence à l’aggression publicitaire, Resistenza all’aggressione
pubblicitaria). In francese. Si tratta di un’associazione più “istituzionale”,
che mira soprattutto a difendere i cittadini dalla pubblicità, a sensibilizzare
e informare. I suoi membri pubblicano molto materiale in merito e sono attivi
nella “società civile”.
Questa la sua presentazione: “L’associazione si pone
come obiettivo di favorire la presa di coscienza dei meccanismi pubblicitari
destinati al condizionamento delle persone, dei consumatori, dei cittadini e di
combatterne i danni umani, sociali e ambientali. In particolare lotta contro
l’attacchinaggio pubblicitario che deturpa il paesaggio e l’ambiente,
l’inquinamento e lo spreco indotto, l’apologia dello spreco e del consumo
energetico, promuovendo il rispetto e l’applicazione delle leggi sulla
pubblicità e le insegne. Lotta contro le pratiche commerciali abusive, a favore
di un’informazione oggettiva e per la difesa della privacy, soprattutto contro
gli abusi informatici. Infine, nello spirito umanista e democratico, mira alla
sensibilizzazione del pubblico, soprattutto dei più giovani che devono avere la
possibilità di acquisire lo spirito critico necessario al loro futuro di
cittadini autonomi; si oppone all’introduzione della pubblicità nel sistema
educativo; cerca di coinvolgere tutti i cittadini nel rispetto delle
particolarità e delle convinzioni personali di ciascuno”.
53, rue Jean Moulin
– 94300 VINCENNES (France) – Tél. 01 43 28 39 21 – Tcp. 01 58 64 02 93 – [email protected]

ADBUSTERS

www.adbusters.org
Gli Stati Uniti?
una multinazionale che vende il suo prodotto in tutto il mondo, non ci
discostiamo molto se parliamo di Marlboro, McDonalds o General Motors. Questa
fredda analisi è di Kalle Lasn, che grazie alla campagne portate avanti dal suo
gruppo è riuscito a coinvolgere milioni di persone negli States e nel mondo. Lui
ha inventato il “Tv turn off week” (Settimana senza tv), oppure il “Buy nothing
day” la giornata contro il consumismo celebrata in oltre 50 paesi. Le idee
nascono dalla rivista AdBusters della quale Lasn è il direttore. AdBusters manda
avanti un’idea di consumo cosciente, tramite le sue contro-pubblicità Lasn
critica le modalità di commercializzazione della maggior parte dei prodotti. Se
la prende con la Camel con la vignetta dove il famoso cammello del pacchetto di
sigarette diventa JOE CHEMO. Con la Nike che commercializza scarpe vendendone
l’immagine perché lo stesso modello di un’altra marca costa 200 dollari in meno.
Se la prende con la stupidità e la cecità del consumatore medio che si fa
fregare letteralmente dalle campagne pubblicitarie create su misura per lui
(tratto da http://www.liberipensieri.net/)
Certo,
Adbusters.org è ormai praticamente una multinazionale dell’anti-pubblicità,
dell’anti-advertising, dell’anti-subvertising… che vende i suoi prodotti!
Riviste, ma anche vestiti, e persino un canale TV satellitare. Ma è sempre più
difficile distinguere i prodotti “pubblicitari” da quelli “anti-pubblicitari”.
In ogni caso, il gruppo canadese ha fatto scuola. Infatti Adbusters esiste anche
in Svezia, Norvegia, Francia (il gruppo R.A.P. e le B.A.P.), Giappone. E in
Francia, si collega alla crescita del movimento della
decrescita…

Istituto per la Decrescitahttp://www.decroissance.org
Institute
of social and economic studies for a sustainable décroissance – Institut
d’études économiques et sociales pour la décroissance soutenable.
Materiali,
Bibliografie, link, studi sulla descrescita sostenibile.
41, rue des Martyrs
de Vingré – F – 42000 Saint Etienne (France) tel-fax : + 33 (0) 4 77 41 18 16 [email protected]

In
Italia

DECRESCITA http://www.decrescita.it/
L’associazione ha
come scopi generali la promozione sociale attraverso un ripensamento delle
concezioni attuali di benessere e ricchezza, fondate sulla crescita illimitata
della produzione, del consumo e dei profitti. Propone in alternativa un’idea di
benessere che, recuperando il senso del limite e della misura, sappia
valorizzare la qualità delle relazioni tra le persone e tra le persone e
l’ambiente, rispettando così gli esseri viventi e gli ecosistemi.
Come suo
specifico l’associazione intende lottare contro la colonizzazione delle menti e
delle società da parte dell’immaginario economicista, e per questo vuole
promuovere la consapevolezza e la ricerca sulla necessità e le possibilità di
una “decrescita conviviale”, proponendo occasioni di riflessione e dibattito sui
temi ad essa inerenti come via per la realizzazione di una società sostenibile,
pacifica e solidale.

GUERRIGLIA MARKETINGhttp://www.guerrigliamarketing.it/
“Guerriglia
Marketing è un insieme di tecniche di comunicazione non convenzionale che
consente di ottenere il massimo della visibilità con il minimo degli
investimenti – fottere il mercato per entrarci”. A metà strada fra il
situazionismo, la provocazione e il marketing selvaggio, Guerriglia marketing è
un esempio italiano di cultural jamming.

MOLLEINDUSTRIA
http://www.molleindustria.net
Anti-marketing
nei videogiochi. In italiano. Dalla presentazione del progetto:
“L’intrattenimento elettronico è ora usato per fini pubblicitari, per
l’indottrinamento religioso e per reclutare giovani da mandare al macello. È
chiaro che non possiamo più considerarlo una componente marginale nella
produzione di senso, dobbiamo riconoscerlo come un nuovo terreno di scontro
culturale e politico. Sopratutto occorre mettere in discussione la presunta
innocenza dell’intrattenimento. I videogiochi sono vettori di ideologie,
espressioni di modelli culturali ben precisi. Fra le righe di ogni codice
possiamo intravvedere un sistema di valori che nella maggior parte dei casi è
quello nordamericano, bianco, consumista e reazionario. […] La Molleindustria
non ama i videogiochi, per questo li crea.”

CARTA – http://www.carta.org/campagne/globalizzazione/decrescita/index.htm
Sul
sito del settimanale un dossier con idee e pratiche sulla decrescita.

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Fonte: Information Guerrilla – www.informationguerrilla.org 4 luglio 2006

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