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«Lottare dalla parte giusta ti fa stare bene»

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A cura di Davide
Il 1 Gennaio 2020
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DI NICOLETTA DOSIO, DARIO FIRENZE, MARIE MOISE

jacobinitalia.it

Quando c’è una comunità che non lascia mai indietro, non bisogna aver paura di alcun isolamento dietro le sbarre. Questo ci ha detto Nicoletta Dosio qualche giorno fa nella lunga intervista che vi proponiamo come augurio di buon anno-

Il 30 dicembre, Nicoletta Dosio, 73 anni, storica attivista No Tav, è stata portata al carcere Le Vallette di Torino. Per aver rifiutato le cosiddette misure alternative, Nicoletta dovrà scontare un anno di prigione, per una protesta del 2012 in Val di Susa contro il progetto dell’Alta velocità. L’abbiamo incontrata e intervistata il 14 dicembre scorso allo spazio di mutuo soccorso Ri-Make, a Milano. In questa lunga intervista Nicoletta ripercorre i momenti fondamentali della lotta No Tav, nata da una prima esperienza di sconfitta. Con il suo sorriso sempre sulle labbra, racconta di come le relazioni di solidarietà abbiano permesso al movimento, e a lei in prima persona, di non avere paura, resistendo così alla strategia che da decenni prova a spezzare la lotta No Tav. Per Nicoletta Dosio non sembra esistere alcun isolamento da temere dietro le sbarre, quando c’è una comunità di lotta che non lascia mai indietro nessuno.

Quando hai iniziato a lottare per il tuo territorio? Com’è iniziato il progetto Tav in Val di Susa, come lo avete combattuto e quali sono stati i momenti per te più importanti?

Ho iniziato a lottare trent’anni fa, ma la Val di Susa ha una storia di lotte molto più antica: è stata una Valle di resistenza partigiana e poi operaia, con le sue fabbriche specializzate e i  suoi cotonifici. La delocalizzazione a fine anni Settanta ha portato via il lavoro qualificato, sono rimaste soltanto due acciaierie, che facevano ammalare la Valle inquinandola. Oggi  abbiamo ancora un po’ di allevamento e agricoltura, del turismo stagionale, e tutti gli altri fanno gli sguatteri e i camerieri nelle strutture turistiche che sono nate sui terreni. Tanti giovani se ne vanno via a cercare lavoro altrove.

Prima del progetto dell’alta velocità, negli anni Ottanta, la Valle era stata individuata come un corridoio per il traffico di merci. Hanno iniziato con un progetto di autostrada, inutile e dannosa, tranne che per chi la costruiva. Nessun comune voleva questa autostrada – avevamo già due strade statali e una ferrovia internazionale, in uno spazio di un chilometro e mezzo di ampiezza.

Lo stato promise delle compensazioni, che non erano altro che la costruzione di altre strade con il pretesto della messa in sicurezza del territorio dalle alluvioni. I lavori furono assegnati agli stessi costruttori dell’autostrada, che di fatto misero in sicurezza soltanto l’autostrada a danno del resto della Valle. Il progetto fu ovviamente accompagnato anche dalla promessa di duemila nuovi posti di lavoro.

Già allora era forte quello che chiamiamo «partito degli affari», un partito mafioso, che come tutta la mafia si annida nel cuore dello stato. Alla fine l’autostrada fu costruita.
Facemmo una battaglia contro gli espropri di terreno, nacque un piccolo comitato di proprietari terrieri a Bussoleno, ma la nostra lotta non fu popolare come lo è stata poi quella contro il Tav. Iniziammo a veder passare una quantità enorme di Tir, settemila al giorno. La Valle subì un inquinamento pazzesco, che si aggiunse a quello delle due acciaierie.

Le grandi associazioni ambientaliste non ci aiutarono, si sedettero al tavolo di trattativa per negoziare il modo meno impattante possibile di costruire l’autostrada, parlavano di «un’autostrada ecologica».
La lotta contro l’autostrada fallì, ma poco dopo si presentò un nuovo progetto dannoso: la costruzione di un elettrodotto che doveva portare elettricità dalle centrali nucleari francesi all’Italia. L’esperienza accumulata fu determinante per affrontare questa seconda invasione del territorio. Questa volta riuscimmo ad attivare dei comitati nei vari comuni, diffondendo informazioni sull’inquinamento e i rischi per la salute che quest’opera avrebbe comportato. Riuscimmo a fermare la costruzione dell’elettrodotto, svelando le menzogne che stanno sempre alla base della costruzione delle grandi opere. In questo caso non era vero che fosse già stato siglato un accordo tra i due paesi, bensì tra due Società per azioni, due aziende di energia elettrica.

Nel 1992, con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, nacque l’Europa dei grandi traffici commerciali ed ebbe inizio la privatizzazione dei servizi pubblici, ferrovie comprese. Ci allarmammo subito, perché capimmo che non si sarebbe trattato solo di noi e della devastazione del nostro territorio. I lavori di scavo avrebbero disperso ovunque nell’ambiente materiali tossici come l’amianto e l’uranio. Con questa consapevolezza, le persone hanno iniziato a mobilitarsi. Partecipammo alle lotte contro la costruzione del Tav dappertutto. Un territorio infatti deve difendersi, ma non nella modalità not in my back yard, cioè non toccate il mio giardino ma fate pure nel giardino di qualcun altro. Il problema non era dove costruire il Tav, ma se costruirlo. Infatti, nessuno vuole stoccare nel proprio territorio l’amianto e l’uranio contenuti nello smarino [i detriti provenienti dai lavori di scavo, Ndr], e nessun territorio dovrebbe essere costretto a farlo. Le grandi opere inutili e dannose vanno rifiutate di per sé, insieme alla loro strategia di mettere gli uni contro gli altri.

Quali sono state le strategie adottate da quello che chiami «partito degli affari» per attaccare il movimento?

Nel 1998 predisposero il primo sondaggio per la costruzione del Tav. Ci furono una serie di piccoli attentati a delle centraline elettriche e furono arrestati tre ragazzi anarchici, Sole, Edo detto Baleno, e Silvano. Furono tutti accusati di devastazione e saccheggio. Baleno morì suicida in carcere e lo stesso accadde a Sole, poco dopo. Silvano resistette e solo in seguito emerse che, in realtà, nei piccoli attentati avevano avuto un ruolo i servizi segreti e che di fatto i due ragazzi «erano stati suicidati». Gli attentati erano stati fatti per spaventare le persone, allontanarle dalla lotta e farle tornare a casa. La macchina della diffamazione prese di mira gli anarchici, additati come il pericolo principale. La loro strategia è sempre stata quella di farci sentire deboli e impotenti. Permettono le manifestazioni solo a patto che siano non violente: possiamo parlare, ma non possiamo difenderci.

Altro caso incredibile fu quello del compressore [nel maggio 2013 vengono arrestati tre attivisti No Tav con l’accusa di terrorismo, caduta nel corso del processo, per aver dato fuoco a un compressore nel cantiere dell’Alta Velocità a Chiomone, Ndr]: per un compressore andato a fuoco attribuirono l’accusa di terrorismo, come se fosse stata bruciata una persona e non un oggetto.

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