Ora che siamo a ridosso di uno degli esiti finali della messa in scena planetaria sul Coronavirus, quello che sento, al posto della disperazione e della rinuncia, è una sensazione di lucidità. Dopo un anno e mezzo di interventi militanti, le cui argomentazioni sono state confermate puntualmente dai fatti, dopo le minacce di morte ricevute dai facinorosi, dopo le censure che ho subito all’Università, dopo tre libri pubblicati in nome della scienza e contro la scienza a reti unificate, dopo avere assistito alla decadenza cognitiva di persone che stimavo, dopo avere incontrato, sorpreso, persone che ancora non sono decadute; dopo tutto questo e tanto altro, io mi sento lucido e pronto.
Ho scritto nuovi poemi, ho composto nuove melodie, ho immaginato mondi ancora luminosi. So che perderò quasi certamente il lavoro per via di quello che penso, e che non saprò come vivere – la vita ha un suo prezzo economico e umiliante già adesso –, né come farò a sopravvivere. Ma non mi sento sconfitto. A un concerto a Bologna, due settimane fa, la piazza numerosa ha risposto con applausi alle canzoni che ho proposto contro la folle e terroristica gestione delle cose. Corrono come vento imperscrutabile le arie dei canti popolari, di Caterina Bueno, dei cantori appenninici, dei poeti che indicarono alternative.
Resteremo in pochi, con le caviglie appiccicate di alghe e la fronte imperlata di riflessi di scogliere. Resteremo in pochi – e se sentiremo di dover seguire chi ha nel frattempo deciso di andarsene, lo faremo sorridendo con fierezza. Resteremo contro ogni logica di remissività o finta remissività, contro ogni escamotage, contro ogni arguzia e accomodamento, e solo in nome della poesia delle cose, della musica di ciò che accade persistentemente nei boschi, sui crinali, lungo le grandi coste di mangrovie e di ginestre, e sulle frontiere di arcipelaghi brumosi.
La lucidità che sento è quella della poesia. Sento e so che ci sono individui consapevoli e pronti, fuori dagli slogan, ammantati di una regalità nuova e orgogliosa. Non combatteremo con attentati o azioni rivoluzionarie, con comizi di piazza e azioni collettive, ma con la consapevolezza individuale, con la dissidenza individuale, con l’individuale riscoperta di noi stessi. Come gioielli e diademi del cielo, come stelle nascoste, come continenti scomparsi ma leggendari, come poeti.
Ciascuno di noi sia il continente di se stesso. Ci riconosceremo nelle penombre del crepuscolo e tra le pietraie di luoghi preclusi. L’ora della verità è arrivata. Senza più alibi. Senza più maschere. Senza ripensamenti. Una quiete diversa è arrivata. Sarà quella a raccontare mondi possibili dentro i nostri occhi non accecati dal chiacchiericcio del potere e non ridotti a sguardi fissi dentro un acquario in cui abbiamo avuto l’istinto di non farci imprigionare.
I paesaggi della libertà non sono luoghi lontani che qualcuno potrebbe un giorno impedirci di raggiungere. Sono fondali stratificati che abitano dentro di noi da sempre. Sono i sottoboschi incantati di noi stessi che, senza prevederlo, il potere ci ha fatto di nuovo riconoscere.
Racconteremo la nostra storia. E sarà una storia di libertà. La più bella che potessimo concepire.
Francesco Benozzo, pubblicato da Giulio Bona per ComeDonChisciotte.org
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Francesco Benozzo insegna Filologia all’Università di Bologna. Dirige alcuni centri di ricerca (uno dei quali patrocinato UNESCO) e tre riviste scientifiche internazionali. Ha all’attivo oltre 700 pubblicazioni scientifiche e 11 album come musicista (arpa celtica). Autore di poemi tradotti nelle principali lingue, è stabilmente candidato al Premio Nobel per la letteratura dal 2015.