Robert A. Mundell, recentemente scomparso in Italia presso la sua villa in provincia di Siena, è stato un economista canadese noto soprattutto per i suoi studi teorici sulle aree valutarie ottimali, esposti in un celebre articolo pubblicato nel 1961 “A Theory of Optimum Currency Areas”.[1]
Fu anche l’ispiratore ideologico, insieme all’economista Arthur Laffer, della cosiddetta supply-side economics, una teoria macroeconomica che ha come postulato la riduzione della pressione fiscale, la deregulation ed i tagli alla spesa pubblica, alleggerendo in questo modo il “peso” economico dei governi al fine di perseguire e promuovere una prosperità basata in definitiva sull’efficienza dei meccanismi di mercato. Una teoria, dunque, in netta opposizione all’economia della domanda (aggregata) di matrice keynesiana.
Tuttavia sono proprio i suoi studi sulle aree valutarie ottimali (AVO) che interessano la nostra analisi riguardo alla moneta unica (Euro).
Alcune premesse d’autore saranno utili per meglio inquadrare e contestualizzare il tutto, riguardo l’unione monetaria europea:
“Sarebbe un errore pericoloso credere che l’unione economica e monetaria possa venire prima dell’unione politica, perché se la creazione dell’unione monetaria e il controllo della Comunità sulle finanze nazionali provocano tensioni che portano al crollo del sistema, l’unione monetaria avrà impedito lo sviluppo di una unione politica, invece di favorirlo” (Nicholas Kaldor, 1971)[2]
In tempi più recenti anche gli economisti Rudiger Dornbusch (1996)[3] e Paul Krugman (1998)[4] hanno rispettivamente sostenuto pesanti critiche sull’unione monetaria in quanto avevano intuito che abbandonare il tasso di cambio flessibile avrebbe trasferito al mercato del lavoro il compito di regolare la competitività e i prezzi relativi e che le perdite di produzione e di lavoro avrebbero finito col prevalere; inoltre, che il rischio di scivolare nella deflazione sarebbe stato davvero concreto.
In effetti ciò che poi è accaduto in Europa ha praticamente trasformato in profezie quanto alcuni economisti avevano scritto:
“gli aggiustamenti agli shock esterni (come la crisi dei subprime) si sono trasferiti sul mercato del lavoro (e quindi sui salari, attraverso l’aumento della disoccupazione), cosa che ha messo sotto pressione le economie nazionali e ha allontanato le prospettive fondate di una unione politica.” (A. Bagnai, 2016)
Ritornando a Mundell, egli fin dal 1965 aveva previsto un’area monetaria europea parallela a quella del dollaro e della sterlina e nel dicembre 1969 presentò un documento a favore della creazione di una moneta europea che, rinnovato, divenne il suo “Piano per una moneta europea”, che lanciò nel marzo 1970 alla Conferenza di Madrid sulle aree valutarie ottimali.
Nel processo storico di unificazione monetaria europea, che va dal Piano Werner al Trattato di Maastricht, c’è sempre stato un tipo di conflitto interno tra “economisti” e “monetaristi” ed in questo scenario Mundell si schierò fermamente dalla parte dei “monetaristi”, i quali credevano che la fissazione dei tassi di cambio e l’adozione di una moneta comune avrebbe assicurato una sufficiente convergenza delle economie intente ad unirsi in una “unione”, soprattutto riferita ai (loro) tassi di inflazione e di interesse. Come emerse nel dibattito accademico, l’importante era capire che “si doveva rinunciare credibilmente all’idea di avere una politica monetaria nazionale autonoma e creare le istituzioni necessarie alla gestione di una politica monetaria comune”. D’altro canto gli “economisti” ritenevano che solo attraverso un lungo processo di convergenza delle economie si poteva approdare, come coronamento, all’adozione di una moneta unica. Tra questi ultimi i tedeschi, che imposero le condizioni più rigorose possibili per la creazione della moneta comune, così come poi si evinse dai criteri di Maastricht e dal Patto di stabilità.
Oggi l’Eurozona, un’area che dal 2015 comprende 19 paesi membri dell’Unione Europea che hanno adottato l’Euro come propria valuta ufficiale, per la sua peculiare struttura giuridico-monetaria è soggetta a crisi continue che da molti economisti sono interpretate come una mancata o pessima realizzazione di un’area valutaria ottimale (AVO, in inglese OCA, Optimum Currency Area). In realtà un’attenta analisi delle crisi (o meglio degli shock) porta a ritenere che la teoria delle aree valutarie ottimali (AVO) non fornisce valide spiegazioni in merito, anzi.
Vediamo brevemente in cosa consiste dunque tale teoria. Elaborata dall’economista canadese R.A. Mundell (1961), si definisce come area valutaria ottimale quella che sia caratterizzata da una perfetta flessibilità e mobilità dei fattori della produzione.
In tal modo gli shock asimmetrici, che colpiscono uno o più Stati membri, possono essere assorbiti mediante la perfetta mobilità dei fattori della produzione, soprattutto del fattore lavoro e dei capitali, che consentono, conseguentemente, una automatica capacità di aggiustamento del mercato. Pertanto per un gruppo di paesi, per i quali vi sia una stretta integrazione riguardante scambi internazionali e facilità nel movimento dei fattori produttivi, converrebbe creare un’area di cambi fissi o un’unione monetaria.
La teoria delle aree valutarie ottimali sostiene che l’unione monetaria favorisce la mobilità dei fattori produttivi (capitale e lavoro) ed anche una maggiore integrazione finanziaria tra i paesi appartenenti all’area stessa. La mobilità del lavoro consente, nell’idea dell’economista canadese, di poter fronteggiare uno shock asimmetrico da parte di una regione che ne subisse il colpo. La mobilità del capitale, da intendersi praticamente in maniera identica all’integrazione finanziaria, permette la convergenza tra i tassi d’interesse nei paesi appartenenti all’area grazie all’assenza del rischio di cambio (nell’area Euro la convergenza nei tassi d’interesse sui titoli pubblici è stata permessa grazie alla politica monetaria della BCE).
Tuttavia, andando per ordine, riguardo alla mobilità del lavoro (un concetto peraltro di diretta derivazione dell’economia neoclassica, per cui nei paesi dove vigono salari reali più elevati si dovrebbe assistere ad una sostenuta migrazione in entrata, non sembra affatto che esso sia stato un fattore verificatosi in maniera decisiva nell’Euro, anzi; non si ritiene che esso sia stato un fattore determinante nel riequilibrare gli shock asimmetrici, proprio perché la sua stessa base concettuale si fonda su un impianto teorico ampiamente criticato e confutato. Facciamo un esempio per chiarire meglio la questione. Per quale motivo i disoccupati italiani dovrebbero trasferirsi in altri paesi europei per trovare lavoro? Il presupposto è che in quei paesi vi sia tutto il lavoro che non c’è in Italia (tutta la disoccupazione europea sia mera disoccupazione frizionale). Basterebbe migrare per trovare nel mercato unico del lavoro europeo infinite opportunità di lavoro. La realtà è che si tratta di una visione distorta di come funzione l’economia e le ragioni di fondo sono le seguenti: questa visione viene portata avanti poiché la mobilità del lavoro è estremamente funzionale al capitale. Questo modello di Europa è strutturalmente disegnato in modo tale da rendere di fatto impossibile perseguire politiche occupazionali funzionali. Nel progetto europeo la disoccupazione è la norma (si pensi ad esempio all’Output-gap e al NAIRU).
“L’opportunità di garantire la piena occupazione sparisce dall’orizzonte programmatico di qualsiasi governo: per questo l’Europa non si pone neppure il problema di come creare lavoro in Italia, ma si pone invece il problema di come spostare i disoccupati italiani fuori dal loro Paese. Si ritiene che il disoccupato debba partire, dando per scontato che lo Stato non si preoccuperà mai di creare il lavoro lì dove non c’è, non agirà mai per combattere povertà e sottosviluppo.
Infatti le masse di disoccupati in movimento agirebbero come una forza che spinge al ribasso i salari nelle aree più sviluppate, dove quei disoccupati fanno concorrenza agli occupati da una condizione di svantaggio: perché senza lavoro, perché stranieri, perché sradicati, perché ultimi. L’ideale europeo di mobilità del lavoro calza perfettamente con la categoria analitica inventata da Marx di “esercito industriale di riserva”[5].
Sulla libertà di movimento dei capitali l’opinione è che non sia un fattore così positivo come viene spesso descritto. Infatti, il fatto che alcune imprese private possano liberamente decidere di delocalizzare la produzione al di fuori dei confini nazionali, può acuire il conflitto distributivo tra le classi sociali all’interno del paese, indirizzandolo in favore della classe imprenditoriale. Non sembra dunque che alla lunga la libertà di movimento dei capitali produca quegli effetti sperati sulla crescita del prodotto. Un minor potere contrattuale della classe lavoratrice può comportare, prima o poi, minori salari reali e quindi un minor livello di domanda aggregata e di produzione.
C’è poi l’aspetto riguardante la politica fiscale. I teorici delle AVO sottolineano che affinché un’area valutaria possa essere definita ottimale è necessaria l’esistenza di un’unione monetaria e fiscale, ossia di un bilancio pubblico comune a tutta l’area, di modo che eventuali shock asimmetrici possano essere affrontati con opportuni stabilizzatori automatici, ossia tramite trasferimenti fiscali in favore delle regioni che mostrano una perdita di produzione e occupazione.
Questo è un punto delicato della questione, in quanto nell’Eurozona, a differenza di quanto accade negli Stati Uniti, non è presente un’unione fiscale. Con l’Euro la politica monetaria è diventata comune, ma le decisioni di politica fiscale vengono prese singolarmente dai singoli paesi (sebbene vincolati dal Trattato di Maastricht). Manca un sistema di trasferimenti centralizzato, in grado di “sostenere” la capacità di spesa dei paesi in difficoltà.
Se osserviamo il contesto europeo, in particolare al mercato unico, ci rendiamo perfettamente conto che queste capacità di “aggiustamento” non sono presenti, come non lo sono anche quegli automatismi di natura fiscale e/o finanziaria che permetterebbero di assorbire gli shock, al fine di determinare una “ordinaria” riallocazione delle risorse.
Shock che si sono, purtroppo, manifestati con una potenza tale da far emergere le gravi falle di sistema dell’architettura monetaria, tali da far cadere l’Eurozona intera in una situazione in cui le crisi economiche – di volta in volta perpetrate per fattori sia endogeni sia esogeni (dalla crisi finanziaria del 2007-2008 a quella recente sanitaria) – siano la normalità, potremmo dire quasi “endemiche”.
Abbiamo visto, sommariamente, come i paesi aderenti alla moneta unica, dando vita all’Eurozona, non abbiano di fatto costituito un’area valutaria ottimale, anche alla luce dei continui shock che hanno fatto emergere, come detto, le criticità del sistema monetario europeo e dello stesso framework dell’Unione Europea, con le sue istituzioni.
Detto ciò, e concludendo, oltre le mere speculazioni tecniche, Mundell nel teorizzare l’Optimum Currency Area aveva presumibilmente idealizzato di collocare la moneta unica europea anche in una prospettiva più ampia rispetto al progetto “locale”, intendendo con questo proiettarsi verso un sistema monetario internazionale, da lui stesso ampiamente analizzato. L’economista canadese era fortemente convinto che l’esistenza di “un’ancora monetaria stabile” fosse essenziale.
Le sue teorie, però, hanno causato non pochi problemi e danni. L’Euro non ha fatto altro che portare in Europa le deregolamentazioni di Reagan e Thatcher.
Come scrisse Jude Wanniski nel Wall Street Journal: “Senza l’influenza di Mundell, Ronald Reagan non sarebbe mai stato eletto”. L’economia dell’offerta (la supply-side economics), teorizzata dallo stesso Mundell , fu il modello economico della cosiddetta “Reaganomic” (o, secondo la definizione datane da George Bush padre, “l’economia voodoo”): “una credenza magica nei rimedi da ciarlatano dell’economia di mercato che ha ispirato anche la politica della signora Thatcher”.
Come ebbe a dire Mundell stesso sia l’Euro sia la Reaganomic si ispirano alla medesima “filosofia”: “La disciplina monetaria impone ai politici anche una disciplina fiscale”.
Ed ancora “L’euro adempierà pienamente alla sua funzione solo quando arriveranno situazioni di crisi. La soppressione del controllo esercitato dai governi sulla loro moneta impedirà agli sfigati eletti dal popolo di utilizzare il carburante keynesiano, fiscale o monetario, per fare uscire il loro paese dalla recessione.”
E’ del tutto evidente che sulla base di tali premesse, all’insorgere di una crisi, le nazioni aderenti all’Euro, depotenziate sul piano finanziario ed economico, non hanno altre scelte se non quelle di attuare politiche volte alla deregolamentazione, alla privatizzazione dei servizi pubblici, alla deflazione salariale, abbandonando l’idea di perseguire politiche di sostegno alla produzione, all’occupazione, con gravi ripercussioni sul welfare state e sulla crescita economica.
Di Aldo Scorrano – CSEPI
Fonti:
“The euro: beware of what you wish for”, Paul Krugman
“Unione monetaria: un punto di vista italiano”, Alberto Bagnai
“L’ideale europeo di mobilità del lavoro è una guerra tra poveri su scala europea”, Coniare Rivolta (2018)
“Robert Mundell and the Theoretical Foundation for the European Monetary Union”, IMF (1999)
“Robert Mundell, il genio malefico dell’euro”, Greg Palast (The Guardian, 2012)
Note:
[1] Robert A. Mundell, “A Theory of Optimum Currency Areas”, American Economic Review (1961).
[2] Nicholas Kaldor, “The Dynamic Effects of The Common Market”, The New Statesman, (1971).
[3] Rudiger Dornbusch, “Euro fantasies”, Foreign Affairs, vol. 75 n. 5 (1996).
[4] Paul Krugman, “The euro: beware of what you wish for”, Fortune (1998).
[5] http://noirestiamo.org/2018/09/05/lideale-europeo-mobilita-del-lavoro-guerra-poveri-scala-europea/