L’insurrezione cilena

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Le proteste sono cominciate a Santiago lunedì 14 ottobre, con le azioni di alcuni gruppi di studenti delle superiori per eludere il pagamento del biglietto della metropolitana. Una risposta all’annuncio del ministero dei trasporti di un aumento di 30 centesimi del prezzo (da 0,99 a 1,03 euro). Rapidamente l’iniziativa è diventata una pratica di massa, e il venerdì successivo l’azienda che gestisce la metropolitana è stata costretta a chiudere l’intera rete (136 stazioni) per mettere un freno alla massa di gente che entrava senza biglietto. Molte stazioni sono state vandalizzate e si sono registrati i primi scontri tra dimostranti e polizia. Con il trasporto pubblico paralizzato, quello stesso pomeriggio decine di manifestazioni spontanee di malcontento si sono moltiplicate in tutta la città. Il governo ha dichiarato allora lo stato di emergenza, mettendo a capo delle operazioni il generale dell’esercito Javier Iturriaga. Eccetto i casi di catastrofe naturale, è la prima volta che i militari sono stati chiamati a svolgere compiti di ordine pubblico dopo la dittatura di Pinochet. Durante tutta la notte decine di migliaia di persone sono scese in strada sfidando l’autorità del presidente e incarnando una rivolta popolare senza precedenti nel paese. Nel fine settimana le manifestazioni si sono diffuse nelle altre principali città del Cile, dando carattere nazionale al movimento di protesta.

È bastato un modesto aumento del prezzo del trasporto pubblico a far traboccare il vaso della pazienza dei cittadini cileni. Per anni organizzazioni internazionali, accademici e think tank avevano segnalato che uno dei principali problemi del Cile è la disuguaglianza. E se è vero che dal 1990 a oggi la povertà si è notevolmente ridotta, l’1% più ricco dei cileni detiene il 23% della ricchezza del paese (in Italia la percentuale è del 7,5%), e le famiglie spendono gran parte del loro reddito per pagare un welfare controllato dai privati. La metà dei lavoratori dipendenti del Cile guadagnano meno di 600 euro al mese e le pensioni rimangono basse, mentre i profitti delle aziende private che le gestiscono sono considerevoli. I problemi quotidiani della gran parte delle famiglie sono un riflesso di questa disuguaglianza, che riguarda sia l’accesso a servizi fondamentali come salute, istruzione, pensioni, alloggi e trasporti sia la loro qualità. Era proprio questo il problema al centro delle mobilitazioni studentesche del ciclo 2006-2011, e almeno due diversi governi (quelli guidati dai socialisti Lagos e Bachelet) avevano promesso di porvi rimedio.

La rivolta popolare di ottobre e la decisione del governo di schierare i militari nelle strade sono una dimostrazione del fatto che i pilastri dell’ordine sociale neoliberista sono definitivamente corrosi. Per capire la stabilità o il cambiamento dei sistemi di dominio Gramsci usava il dualismo tra egemonia e coercizione. In Cile si è infranta l’eterna promessa del trickle-down neoliberista. Le prime incrinature sono arrivate dagli studenti, appunto. A cui si aggiunge la profonda crisi delle stesse fonti dell’autorità razionale giuridica (quella che Weber chiama la legittimità razionale). Attualmente l’alto comando della polizia e dell’esercito sono coinvolti in casi di corruzione milionaria, mentre i social network sono pieni di video che testimoniano la violenza di poliziotti e militari contro i manifestanti, il che contribuisce a minare la loro autorità. In tale contesto, l’élite mostra grande difficoltà a comprendere la complessità della questione della legittimità dell’ordine e il governo sembra non conoscere altro che il bastone.

La distinzione tra un problema di ordine pubblico e un problema politico è fondamentale nella gestione delle crisi. Quando centinaia di migliaia di persone in tutto il paese sfidano lo stato di emergenza, disobbediscono alle autorità e, in molti casi, partecipano al saccheggio di supermercati e magazzini, ci troviamo di fronte a un problema di ordine sociale. Il governo ha intenzionalmente confuso queste due cose, ossessionato da una strategia di comunicazione che punta a seminare il panico per suscitare divisioni nell’opinione pubblica. Per la sua violenza, l’affermazione del Presidente Piñera secondo cui il Cile è in guerra contro un potente nemico ha lasciato di stucco perfino i suoi fedelissimi, ma in realtà illustra bene la psicologia di una parte dell’élite economica e politica cilena. La rivolta popolare ha sospeso le convenzioni sociali che sostengono l’ordine. Il saccheggio indica che una parte dei settori popolari ha approfittato dell’opportunità di riprendersi da un sistema che li priva di forme legittime di accesso ai beni di consumo. A prescindere dalle valutazioni normative o dalle implicazioni giuridiche, tutto ciò è fondamentale per sviluppare una corretta comprensione della situazione attuale.

L’insurrezione del 2019 assomiglia molto poco agli episodi di contestazione precedenti. Le proteste di oggi sono per lo più spontanee, non c’è nessuna organizzazione o persona che controlli o abbia un ascendente sulla folla, quindi allo stesso modo non c’è nessuno che possa «gettare acqua sul fuoco». Né il governo può aprire un processo negoziale, anche volendo: non solo perché dall’altro lato non c’è una controparte organizzata, ma perché le richieste popolari non hanno, per ora, formulato alcun programma politico o una lista di misure sociali concrete. Piñera, in realtà, sarebbe felice di trovare una Confech [la confederazione studentesca cilena protagonista delle proteste del 2011, Ndr] da convocare alla Moneda come nel 2011, anche solo per guadagnare tempo. Ma la verità è che nessuno aveva elaborato un piano, e la piazza ha preso di sorpresa tanto la sinistra comunista che quella eterodossa del Frente Amplio. Piñera ha reagito esattamente come nel 2011: poche concessioni e attendismo per aspettare che i rivoltosi si stanchino e la piazza si sgonfi per poterla reprimere più facilmente. L’annullamento dell’aumento dei prezzi della metropolitana annunciato sabato 19 ottobre è arrivato troppo tardi ed è stato troppo poco. Inoltre, a differenza del 2001, questa volta in piazza non ci sono solo gli studenti. La mobilitazione sociale è eterogenea, e massicce proteste (e repressione) si stanno svolgendo anche nei quartieri dell’alta borghesia di Santiago: una cosa mai vista prima. Nel frattempo il governo è stato aspramente criticato da media internazionali influenti nell’élite nazionale come l’Economist o El País. È diventato ormai impossibile per il governo continuare a sostenere che in strada ci siano solo comunisti o criminali.

La sera di martedì 22 ottobre Piñera si è rivolto al paese chiedendo perdono e annunciando un pacchetto di misure sociali. Il gesto è indice di un mutato atteggiamento del governo, ma le misure sono insufficienti, perché non alterano le fondamenta del modello neoliberale, cioè non incidono sull’attività dei grandi gruppi privati che fanno profitti con la sanità, l’istruzione o le pensioni. D’altro canto, il Presidente non revoca le misure di emergenza, non ritira i militari e non fa alcun riferimento alle violazioni dei diritti umani che si sono verificate negli ultimi giorni. L’Istituto nazionale dei diritti umani cileno riferisce di almeno cinque decessi dovuti alle azioni degli agenti statali, e i social network parlano di casi di arrestati di cui non si conosce il luogo di detenzione. Del resto l’escalation militare voluta dal governo non poteva essere tanto leggera, in un paese che è stato sotto dittatura per diciassette anni, tra il 1973 e il 1990.

La spontaneità, l’ampiezza e la durata delle proteste rappresentano anche un campanello d’allarme per il sistema politico. Le scelte delle élite politiche ed economiche non rispecchiano le preferenze della cittadinanza, come dimostra uno studio del Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp) del 2015. E anche quando, in passato, i partiti hanno cercato di accogliere queste richieste, alla fine hanno deluso i cittadini. Il calo della partecipazione elettorale al di sotto del 50%, la disaffezione per i partiti e le crisi di credibilità in varie istituzioni pubbliche (corruzione, tangenti, traffico di influenze), da cui non sono esenti né la polizia né la Chiesa, hanno consolidato un divorzio tra società civile e politica iniziato già a partire dal passaggio alla democrazia nel 1990.

La portata della crisi sociale e politica attuale è tale da rendere difficile ogni previsione. In linea di principio, data la natura delle richieste sociali della gente, da un lato, e la sua estraneità dai centri di potere negli ultimi trent’anni, dall’altro, la sinistra sembra il miglior candidato tra i vari attori per portare avanti le riforme strutturali richieste. Effettivamente, il Partito Comunista e il Frente Amplio hanno sostenuto e aderito alle proteste, ma il nodo da sciogliere è se saranno in grado di concordare una strategia comune. All’interno del Frente Amplio esistono diverse correnti di pensiero (per esempio sul partecipare o meno ai tavoli negoziali con il governo), che rischiano potenzialmente di far implodere la coalizione. Inoltre, non è dimostrato che questi partiti abbiano davvero un ascendente o un ruolo di guida sulla piazza. Però è chiaro che se la sinistra aspira a svolgere un ruolo preponderante nella questione dovrà affrontare una sfida inedita: costituire un asse tra comunisti e Frente Amplio come motore di una più ampia alleanza politica e sociale. Per quanto importante, comunque, questa convergenza non sarà condizione sufficiente per un ipotetico governo nel medio termine. Non c’è dubbio, infatti, che un governo con centro di gravità a sinistra e un programma anti-liberista susciterebbe un’enorme resistenza dentro e fuori le istituzioni del Paese. Perciò c’è da chiedersi: quali sono le condizioni perché abbia successo?

 

César Guzmán-Concha, cileno, è ricercatore all’Università di Ginevra. Si occupa di movimenti sociali e welfare. La traduzione dell’articolo è di Riccardo Antoniucci.

Fonte: https://jacobinitalia.it

Link: https://jacobinitalia.it/linsurrezione-cilena/

25.10.2019

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