L’Europa ha costruito la propria pira funeraria, e poi ci è saltata dentro

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DI ROBERT W. MERRY

strategic-culture.org

Immigrazione di massa, sensi di colpa ed un continente sull’orlo della “catastrofe sociale”

Il più grande problema del nostro tempo non è la volontà della Corea di sviluppare missili nucleari a lungo raggio. Non è la minaccia posta all’Europa dalla Russia o quella al dominio americano in Asia dalla Cina. Non è la crescente influenza dell’Iran in Medio Oriente, né le indagini sul Russiagate.

No, il problema principale dei nostri giorni è l’immigrazione di massa nei paesi occidentali. Questo afflusso minaccia di cancellarne l’identità culturale. Questo è il motivo principale per cui Trump è stato eletto, nonché per la Brexit. Sta scuotendo il continente europeo, creando crescenti tensioni all’interno dell’Unione e creando un gap tra le élite ed i popoli.

Il fronte di battaglia nelle guerre di immigrazione è l’Europa. Nell’immediato dopoguerra ha accettato un flusso di immigrati per mancanza di manodopera. Ma nel corso degli anni il flusso è diventato un ruscello, poi un fiume in crescita ed infine un torrente. Fino al punto che i britannici sono ora una minoranza nella loro stessa capitale, i rifugiati in Germania sono passati da 48.589 nel 2010 ad 1,5 milioni nel 2015 e l’Italia, punto di ingresso chiave, ha ricevuto ad un certo punto una media di 6.500 nuovi arrivi al giorno.

Nel corso di tutto questo, le élite europee hanno celebrato il cambiamento e stigmatizzato chi era contrario. L’immigrazione è stata inizialmente salutata come un vantaggio economico; quindi come correttivo necessario per una popolazione che invecchia; quindi come mezzo per ravvivare la società attraverso la “diversità”; ed infine come un fatto compiuto, un’ondata inarrestabile causata dalla globalizzazione. Inoltre, sostenevano le élite, i nuovi arrivati ​​si sarebbero tutti assimilati alla cultura europea, quindi qual è il problema? Nel frattempo, per decenni i sondaggi hanno dimostrato che gli europei nutrivano forti dubbi su questi cambiamenti.

Come scrive il giornalista e scrittore britannico Douglas Murray: “Detto loro che i cambiamenti erano temporanei, non reali o che non significavano nulla, gli europei si sono ritrovati minoranze nei propri paesi”.

Murray, editore associato dello Spectator di Londra, è l’autore di un volume che esplora questo fenomeno. Si chiama “The Strange Death of Europe: Immigration, Identity, Islam”, ed è stato pubblicato sei mesi fa da Bloomsbury. Il tono è misurato ma inflessibile. Il quadro che dipinge del futuro europeo è cupo.

Un punto chiave del libro, rafforzato da aneddoti ed abbondante documentazione, è che gli immigrati musulmani non si sono assimilati nei paesi di accoglienza europei. In effetti, tra i nuovi arrivi c’è una crescente sensazione che questi non siano paesi ospiti, ma semplicemente terre mature per l’inesorabile espansione dell’Islam. Un 18enne rifugiato siriano in Germania, Aras Bacho, ha ribadito questa mentalità sul Der Freitag e l’Huffington Post Deutschland, affermando che gli immigrati tedeschi sono “stufi” dei tedeschi “arrabbiati” – descritti come “razzisti disoccupati” – che “insultano e si agitano”. Ha aggiunto: “Noi rifugiati… non vogliamo vivere nello stesso paese con voi. Potete, e penso che dovreste, lasciare la Germania. Se la Germania non vi va bene, perché vivete qui?… Cercatevi una nuova casa”.

Considera anche che, nel 2015, i musulmani britannici stavano combattendo più per l’ISIS che per le proprie forze armate. Era palese che i musulmani europei avrebbero mantenuto la propria cultura a scapito di quella europea. Durante una manifestazione a Colonia nel 2008, il primo ministro turco (futuro presidente) Erdogan disse ad una folla di 20.000 turchi residenti in Germania, Belgio, Francia e Paesi Bassi che l’assimilazione in Europa costituirebbe “un crimine contro l’umanità”. Ha aggiunto: “Capisco molto bene che siete contro l’assimilazione. Non ci si può aspettare che voi vi assimiliate”. Eppure ha invitato con forza i cinque milioni di turchi che vivevano in Europa a fare pressione politica attraverso mezzi democratici, per fungere da “elemento costituzionale” nella trasformazione del continente.

Leggendo il libro di Murray, si capisce perché egli definisca la scomparsa dell’Europa come “strana”. L’abbraccio del continente alla propria morte culturale è in effetti storicamente aberrante. Le civiltà normalmente combattono per la conservazione delle proprio culture, si uniscono per espellere gli invasori, venerano le loro identità e gli elementi fondamentali della loro eredità. Ma l’Occidente oggi è impegnato in un’assurda abnegazione della propria civiltà. Murray la definisce “tirannia della colpa” e la identifica come una “patologia”. Il concetto di colpa storica, scrive, significa che essa può essere tramandata di generazione in generazione – proprio come gli Europei stessi per generazioni hanno ritenuto gli ebrei responsabili dell’uccisione di Cristo. Alla fine questo fu visto come inaccettabile, e lo stesso Papa nel 1965 sollevò formalmente il peso storico.

Ma ora il concetto è tornato in un’Europa suicida, dove la gente lo applica a sé stessa. Questo è davvero strano in termini storici. Murray spiega così i motivi di tale sdegno morale: “Piuttosto che ritenersi responsabili verso sé stessi e gli altri, gli europei si sono auto-nominati rappresentanti dei vivi e dei morti, portatori di un orribile retaggio, così come potenziali redentori dell’umanità. Dal non essere nessuno al diventare qualcuno”.

Così abbiamo un Occidente individuato, anche dagli occidentali stessi, come una civiltà particolarmente brutale, dura, sfruttatrice e cattiva, in un mare storico di vicini relativamente illuminati, moderati e benevoli. Cosa che ovviamente non ha alcuna base storica. Pensate agli ottomani, che hanno costruito un impero potente ed espansivo attraverso politiche più brutali e dure di quanto l’Occidente abbia mai mostrato. Nei Balcani hanno strappato giovani ragazzi dalle braccia dei loro genitori per indottrinarli all’Islam ed impiegarli come guerrieri scelti, incaricati di comandare sul loro stesso popolo. Hanno discriminato i non musulmani con tasse gravose – o la morte per chi si rifiutava di pagare. Hanno impiegato tutti gli strumenti del dominio nella loro corsa alla conquista di vasti territori, compresa l’Europa (vennero fermati due volte alle porte di Vienna, quando l’Europa si considerava una civiltà che meritava di essere salvata).

Eppure nessuno suggerisce che i turchi moderni siano responsabili di crimini o abusi dell’era ottomana o che la Turchia sia una nazione illegittima che merita di essere invasa da stranieri. Certamente non vi è alcun movimento tra i turchi stessi per favorire tali sentimenti di colpa od espiazione. Né qualcuno suggerisce che la Cina odierna, o i cinesi, dovrebbero vergognarsi per i circa 40 milioni di persone uccise direttamente o dalle brutali politiche dopo l’ascesa al potere dei comunisti e di Mao. Anzi, i cinesi di oggi si considerano vittime di forze esterne del passato. Gli Aztechi in Messico uccidevano gente e ne mangiavano la carne durante rituali religiosi, ma nessuno crede che per questo i moderni messicani perdano legittimità come popolo.

Ma in Occidente l’auto-elevazione attraverso l’abnegazione culturale va avanti, al costo di un declino dell’autocoscienza occidentale. “L’Europa”, scrive Murray, “ha perso fiducia nelle proprie convinzioni, tradizioni e legittimità”. Abbandonando la religione cristiana con studiata convinzione, scrive Murray, gli europei l’hanno sostituita con l’idea del progresso – un concetto laico che richiede, come notato dall’intellettuale britannico John Gray, tanta fede quanto qualsiasi religione. Murray, con Gray, rifiuta l’idea che l’umanità sia su una traiettoria di miglioramento costante, come esemplificato dal liberalismo occidentale. Questo potente concetto, tra molti europei (ed americani), va contro ogni senso di autoconservazione culturale.

Il popolo europeo in generale può o non può aver riflettuto molto sulla validità o la falsità dell’idea di progresso. Ma sono decenni che nutrono una crescente preoccupazione riguardo a questa trasformazione dei propri paesi, su un’Europa che sta diventando la patria del mondo mentre ogni altra civiltà e paese rimane la patria dei propri popoli. Murray cita vari sondaggi, a partire dal primo periodo del dopoguerra, che mostrano che il 60-80% era contrario alle tendenze immigratorie del tempo. Eppure queste non sono cambiate.

Come è successo? Murray dipinge un quadro delle élite europee, globaliste fino al midollo e sprezzanti dei sentimenti popolari nella loro spinta per trasformare l’Europa. Il primo ministro svedese nel 2006 colse l’opinione di molte élite europee quando affermò: “Solo la barbarie è autenticamente svedese. Le evoluzioni sono state portate dall’esterno”.

Ma i leader europei, rispondendo al sentimento popolare, hanno iniziato a parlare duramente di immigrazione intorno al 2000 – senza far nulla per arginare la situazione. Murray lo definisce un “trucco elettorale” per ammorbidire gli elettori sempre più agitati. Nello stesso periodo le élite nel governo, nei think tank e nei media hanno iniziato una campagna di denigrazione contro chiunque avesse osato porre domande su dove tutto ciò stesse andando. Gli epiteti di “razzista” ed “islamofobico” vennero lanciati in giro a profusione. Chi metteva in discussione la narrazione convenzionale perdeva il proprio posto di lavoro.

Murray fa l’esempio di una conferenza di accademici in Germania, avente come tema le relazioni dell’Europa con Medio Oriente e Nord Africa: “Era chiaro che non si poteva imparare nulla perché nulla si poteva dire”, scrive, aggiungendo che “le parole rilevanti venivano immediatamente segnalate e contestate”. In particolare, “nazione”, “storia” e – la peggiore di tutte – “cultura”, che la maggior parte dei partecipanti credeva avesse “troppe connotazioni e disaccordi sul suo uso per poter essere usata”.

Murray riassume: “Sono dunque gli europei ad esser stati incolpati di ciò che sta accadendo loro, non possono obiettare; in più, le opinioni della maggioranza sono fatte apparire non solo pericolose ma marginali”.

Dove sta andando tutto questo? Non può finire bene. Come dice Murray, “giorno dopo giorno il continente europeo non solo sta cambiando, ma sta perdendo ogni possibilità di una risposta morbida a tale cambiamento”. Forse, il sentimento della maggioranza semplicemente si arrenderà alle élite globaliste, al loro liberalismo ed al loro odio per i confini nazionali. Ma forse no. Potrebbe esserci una forte reazione. La sensazione, scrive Murray, è che “l’Europa sia lontana un attacco terroristico da un cambiamento radicale delle regole del gioco. A quel punto gli europei potrebbero scegliere di nominare pressoché chiunque come proprio arbitro”.

L’America è indietro rispetto all’Europa nel suo problema immigrazione. Ma, con una stima di 11 milioni di clandestini nel paese e la stessa mentalità prevalente nell’élite, gli Stati Uniti alla fine raggiungeranno un simile punto di crisi, a meno che le tendenze attuali non vengano alterate o invertite. Vale la pena di notare che la percentuale di americani nati fuori dal paese si è avvicinata ad un massimo storico del 14% – simile a quello degli anni ’20, l’ultima volta che il paese ha ridotto sia il numero di immigrati che le nazioni dalle quali erano autorizzati a venire. Due cose che potrebbero bollire in pentola sotto Trump.

Ma l’Europa rimane una lezione scottante per chiunque voglia guardarla con attenzione. Murray, dopo aver esaminato la direzione di politiche ormai radicate, il risveglio di una rabbia sempre più grande verso di esse e l’oppressione per i dissidenti, conclude: “Dire che a lungo andare questa situazione preannunci una catastrofe sociale è sottovalutare la questione”.

 

Robert W. MERRY

Fonte: www.strategic-culture.org

Link: https://www.strategic-culture.org/news/2018/01/08/how-europe-built-its-own-funeral-pyre-then-leapt-in.html

8.01.2018

Traduzione  per www.comedonchisciotte.org a cura di HMG

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