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La Redazione

 

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L'ECONOMIA KEYNESIANA OGGI (1977)

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A cura di God
Il 11 Maggio 2008
107 Views
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blankDI LORENZO RAMPA
ISEDI – Istituto Editoriale Internazionale

Su gentile segnalazione di Lino Rossi

Il successo
di una teoria si misura sulla sua capacità di spiegare alcuni fatti
e risolvere alcuni problemi che le teorie precedenti avevano lasciato
inspiegati ed irrisolti. Da questo punto di vista quella keynesiana
è stata una teoria di grande successo, in quanto ha messo a disposizione
strumenti di analisi capaci di spiegare e strumenti di intervento capaci
di risolvere le crisi e la disoccupazione.

Per tutti i
trent’anni successivi alla pubblicazione della Teoria Generale i Governi
dei paesi capitalistici riuscirono a mantenere una situazione di (quasi)
piena occupazione mediante politiche keynesiane (spesa pubblica in deficit,
stimolo e sostegno degli investimenti, ecc.).

Per gli economisti
divenne inevitabile essere “keynesiani”: anche per coloro
che continuarono ad ispirarsi alla teoria neoclassica che Keynes aveva
così puntigliosamente attaccato.
Probabilmente
ciò è stato reso possibile, oltre che dal successo pratico delle sue
raccomandazioni, anche dalla sua fiducia che, una volta ristabilita
la piena occupazione, la teoria neoclassica si sarebbe di nuovo affermata
“da quel punto in avanti”.

D’altra parte
il modello di Hicks, assurto a rango di versione canonica della dottrina
keynesiana, ha fornito il quadro di riferimento di quell’idea. Infatti
esso riduceva la depressione (o l’impossibilità di porvi rimedio) ad
un caso particolare, ammettendo invece come generale il caso in cui
la disoccupazione avrebbe potuto essere riassorbita ed il sistema avrebbe
funzionato secondo le regole neoclassiche.

Oggi questa
sintesi neoclassica tra la teoria tradizionale e la teoria della domanda
effettiva in equilibrio di sotto-occupazione viene ritenuta una versione
“infedele” dell’autentico pensiero keynesiano. Gli sviluppi
“autentici” di esso sembrano invece rivolgersi in due direzioni
diverse.

Una prima consiste
nella critica alla teoria neoclassica sul piano della coerenza interna,
ed è stata seguita contemporaneamente da autori keynesiani e non, nella
controversia sulla teoria del capitale il cui esito è costituito dalla
dimostrazione della infondatezza logica della proposizione secondo cui
i fattori di produzione sono remunerati in base alle loro produttività
marginali e domandati in quantità crescenti al decrescere della loro
remunerazione (1). Una seconda direzione consiste nell’integrazione
dei fenomeni distributivi e, più in generale, dei rapporti tra le classi
nell’analisi del problema della domanda effettiva e dell’accumulazione
(2).

Questo aspetto
è stato introdotto anche perché imposto dalla stessa situazione di
piena occupazione (favorita dalle politiche keynesiane) che modifica
i rapporti tra le classi, rafforzando il potere contrattuale dei lavoratori
salariati, e provoca reazioni e misure di politica economica tendenti
a restaurare i vecchi rapporti.

Ciò è stato
sottolineato da Kalecki, un autore che ha sviluppato una teoria delle
fluttuazioni economiche e della domanda effettiva simile a quella di
Keynes, negli stessi anni e partendo da un retroterra teorico completamente
diverso (marxiano).

“Durante
la depressione, sotto la pressione delle masse o anche senza di essa,
verranno intrapresi investimenti pubblici finanziati mediante prestiti
per prevenire la disoccupazione di massa. Tuttavia, se saranno fatti
tentativi per applicare questo metodo allo scopo di conservare l’alto
livello di occupazione raggiunto nell’espansione successiva è probabile
che verrà incontrata una forte opposizione da parte dei “dirigenti
d’impresa”. Come è stato sostenuto la piena occupazione non è affatto
di loro gradimento. I lavoratori “sfuggirebbero al controllo” e
i “capitani d’industria” sarebbero ansiosi di “dargli una lezione”.
Inoltre l’aumento dei prezzi nell’ascesa è svantaggioso per i piccoli
e grandi rentiers, e perciò anch’essi sono ostili all’espansione. In
tali condizioni è probabile che si formi un potente blocco tra gli
interessi delle grandi imprese e dei rentiers e che essi trovino più
di un economista disposto a dichiarare che la situazione è evidentemente
insana. E assai probabile che la pressione di tutte queste forze, e
in particolare delle grandi imprese indurrà il governo a tornare alla
politica ortodossa di diminuzione del deficit di bilancio” (3).

Certo queste
considerazioni, puntualmente verificate nella realtà odierna, dimostrano
l’infondatezza della previsione keynesiana sui funzionamento armonico
del capitalismo dopo la realizzazione del pieno impiego, e l’inadeguatezza
delle politiche keynesiane in un contesto in cui la disoccupazione è
(almeno parzialmente) eliminata (4). Questo perché, come era già stato
intuito dagli economisti classici, il livello della domanda effettiva
e dell’occupazione non è indifferente rispetto ai rapporti tra le classi
(5). Gli economisti neo-keynesiani dimostrano oggi di aver appreso,
la lezione impartita dalla realtà e reintroducono, andando, oltre Keynes,
le classi sociali al centro del discorso economico.

Ciò lascia
aperta la questione se sia sufficiente o meno limitare (come fanno i
neo-keynesiani) il ruolo che nel processo economico capitalistico assumono
le classi alla pura e semplice determinazione del livello della domanda
effettiva; oppure se sia imprescindibile indagare anche sulla loro funzione
nella sfera della produzione, cioè nel momento in cui entrano in determinati
rapporti sociali nell’atto della produzione delle merci.

  1. Su questo punto
    si veda G.C. HARCOURT, La teoria del capitale. Una controversia tra
    le due Cambridge, ISEDI, Milano, 1973.
  2. Su questo punto
    si veda J. KREGEL, Economia post-keynesiana, Laterza, Bari, 1975 e J.
    ROBINSON, Eresie economiche, Etas Kompass, Milano, 1972.
  3. Si veda M. KALECKI,
    Sulla dinamica dell’economia capitalistica, Einaudi, Torino, 1975, pp.
    172-3. Questo passo è spesso citato dagli economisti neo-keynesiani,
    per sottolineare il loro distacco dall’ottimismo di Keynes a proposito
    della possibilità di raggiungere, con il pieno impiego, qualche tipo
    di equilibrio economico e sociale. Si veda ad esempio J. ROBINSON, Ideologia
    e scienza economica, Sansoni, Firenze, 1966, pp. 146-7, e “Kalecki
    e Keynes”, in Collected Economic Papers, Blackwell, Oxford, 1965,
    p. 99.
  4. Su questo punto
    si veda AA.VV., La crisi post-keynesiana, a cura di M. D’ANTONIO, Boringhieri,
    Torino, 1975.
  5. Marx aveva sottolineato
    come la disoccupazione (esercito industriale di riserva) funzionasse
    nel sistema capitalistico come meccanismo regolatore della forza contrattuale
    dei lavoratori, anche se tale meccanismo nella sua analisi non viene
    governato attraverso l’intervento pubblico, bensì attraverso l’aumento
    della composizione organica del capitale. Prima di lui, Barton e Ricardo;
    nella controversia sulle macchine, avevano già colto questo punto

Lorenzo Rampa
ISEDI

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