LA TERRIBILE, IMMINENTE GUERRA USA-IRAN

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Mentre sfasciano corpo e anima di Palestina, Iraq e Afghanistan, fingono, a copertura,
LA TERRIBILE, IMMINENTE, GUERRA USA-IRAN
e preparano quella vera in Libano, Siria e Sudan

DI FULVIO GRIMALDI
Mondocane Fuorilinea

Il fatto è che se non provi a cambiare
la realtà, è la realtà che cambia te, a
dispetto del simulacro che continui a
esibire.

(Dino Greco, segretario della Camera del
lavoro di Brescia, defenestrato da CGIL,
FIOM e PRC)

Meglio Veltroni, Draghi, Padoa Schioppa, o Bakuba?

Verrebbe la voglia di trasferirsi a Bakuba, a Gaza, a Jenin, a Bint Jbeil, addirittura a Kandahar. Almeno lì le cose sono di una chiarezza da alba sul mare vista dal Monte Fasce, sopra Genova, là dove trasluce la “Corsica dorsuta” di Montale. Non c’è bisogno di lacerare veli di baiadere che occultano decrepitezze, né di scrostare con la varechina ipocrisie e doppiezze veltrusconiane, né c ‘è da arrovellarsi nel dubbio se ti si inchiappetta con il baby oil Johnson, piuttosto che con una pelle di porcospino. Dalle nostre infelici parti devi vedere cacciare con un intrigo da basso impero il migliore segretario della più combattiva Camera del Lavoro d’Italia, punto di riferimento per tutti coloro che non vedono nel sindacato il finto collidente e vero colluso al banchetto dei padroni. Con l’insulto aggiunto che la nefandezza avviene sotto lo sventolio, per molti ottundente, di vessilli rossi, “simulacri”, come li definisce il compagno Dino Greco. Dalle nostre parti, a paragone del sistematico rovesciamento della realtà e del linguaggio nel loro contrario, i paradossi del paese di Alice sembrano cinema-verità.

Un Mario Draghi, topo mannaro della finanza, virgulto della grassazione finanziaria mondiale, giannizzero di Goldman Sachs e sodale del bandito della speculazione George Soros (il cui International Crisis Group viene onorato di citazioni inoppugnabili dal candido Michelangelo Cocco del “manifesto”) viene glorificato come istituzione tecnica sopra le parti, al servizio dell’interesse collettivo, mentre infila la testa della maggioranza del popolo nella garrota della miseria. E chi applaude questo miracolato dal Padre Pio di turno a Palazzo Chigi, cospiratore nel 1992 contro l’economia italiana quando si accordò con la massoneria internazionale per l’assalto alla lira che portò alla svendita del patrimonio nazionale sotto l’egida del compare Amato, oggi progressivo restrittore di diritti democratici con la scusa degli stadi, o dei bulli, o dei conducenti sbronzi? Chi lo applaude? Indovinato, il Batrace Prolassato e il Baffino da barberia, due bugiardoni in marsina che gli autori della fiction chiamata Bibbia gli fanno un…baffo. Una coppia che rompe le palle da quarant’anni, un tempo da stalinisti di prima classe, poi da hooligan del 10 a 0 sociale. Una coppia di fronte alla quale quella dei gemelli horror polacchi Kuscinzky fa la figura degli statisti alla Marc’Aurelio.

Chi è populista?

Dalle nostre parti l’arte del governare consiste nel convincere il colto e l’inclita, le plebi tutte, che tanto sono minacciate da orchi da ogni lato che prendersela con chi gli sfila lavoro, salario, pensione, casa, libertà, pace, risulta proprio tempo perso, anzi collaborazionismo con i “terroristi”. E, tolti(si) di mezzo i fustigatori autentici, i Guzzanti-Giovenale e i Grillo-Marziale, restano a sostenere l’assunto i satirici di regime. Come quel Michele Serra che a me personalmente pesa sul piloro fin da quando allestiva “cuorate” buoniste in difesa del “caro amico Adriano Sofri”. Ti pareva. Oggi le spara sul tabloid scandalistico “La Repubblica”, sostenendo, tra tanti altri suoi soffietti al padrone, che gli annuali 7000 morti sulle strade in buona parte sono “fisologici” (l’auto c’è e menomale), in parte, quelli causati dagli sbevazzoni, sono delinquenziali. Non gli fa ombra il fatto che questi ultimi sono qualcosa come l’un percento della mattanza, mentre il resto è opera Fiat, Volkswagen, Mercedes, Chrysler, Honda, Ford, Citroen e via rigurgitando dalle più grandi industrie di morte mai inventate. Gente che riempie di segatura la testa degli esibizionisti SUV e Smart, di stronzate di latta, dalla velocità di un missile e dalla fragilità di un uovo, spazi che finiscono con l’assomigliare all’urna di fagioli della Carrà e atmosfere che gareggiano con quelle delle mai sufficientemente ricordate (a copertura dei divertissments sionisti) camere a gas. Vai con la colpa agli ubriachi e ottieni il duplice effetto di consentire ai ministri di polizia e dell’insanità, Amato e Turco (quella degli sbirri in classe), di fornire ulteriori controlli e ceppi per il prossimo venturo Stato di polizia e di salvaguardare reputazione e profitti del fabbricante delle armi più letali apparse nel mondo dopo la peste bubbonica e la democrazia borghese.. Si chiama “populismo” – altro che quello attribuito a Hugo Chavez, che invece rovescia le cose capitaliste nel loro contrario – e consiste nel far demagogia per gonzi: colpisco l’effetto, la vittima, al massimo il sicario, e nutro la causa e il mandante. A forza di campagne su drogati, ubriachi, insegnanti e statali in genere fannulloni, pedofili come se piovesse (che aprono la strada alla repressione in rete, come Al Qaida alle guerre), bulli, pacifisti, sfasciascuola, ultrà del tifo, opposti estremisti, immigrati, drop-out, maschi, eterosessuali omofobi, islamici, cinesi, anziani pensionati a ufo, sconsiderati da discoteca, trasportatori fumati, irregolari vari, terroristi neanche a parlarne, le categorie da non reprimere si riducono alle famiglie di Montezemolo e dei suoi (manzoniani) bravi. Guardare negli armadi di costoro e scoprirvi i piani dell’irachizzazione delle turbe ai cancelli della villa, anche a forza di auto, eroina, discoteche, scuole berlinguerian-morattiane, birra e Moggi? Dioceneguardi! Guardate la prima pagina del foglio-guastatore della Partito Democratico (ragione sociale che cela il suo contrario), data 16 luglio 2007. Titolo di testa a cinque colonne: Pedofilia, ecco la rete degli orchi (che poi finisce giudiziariamente in niente). Titolo in neretto della stessa misura: “Strade, basta stragi dell’alcol”. Titolo contiguo (in tutti i sensi): Ritorna Osama. Foto titolata sulla necessità pensionistica di stroncare i vecchi per nascondere la strage di regime dei giovani e, per finire in gloria, editoriale di dannazione dei migranti: Integrazione fallita. E poi dicevano la “Pravda”! Il panico è assicurato. Poi seguirà, con la solita cadenza, la campagna Aids (che se ne mangia un decimo di quelli che spariscono in Medioriente), qualche aviaria, qualche Imam pronto a mettere nitroglicerina negli zainetti dell’asilo.

blankMamma, ho perso il Dakli!

E’ la stampa, bellezza. E visto che di stampa parliamo, il solito pensierino per il “manifesto”. Sollievo per l’assenza – prematuramente terminata con un panegirico ai “dissidenti” russi, infiltrati Cia e cultori dello zar compresi – dell’albanese Astrit Dakli, il “sovietologo”, e delle sue fobie antislave che gli meritano addirittura il rango di solista nel coro dei piagnoni sulla scomparsa della giornalista del circuito Cia “Radio Liberty”, Politovskaja, sulla montatura antisovietica dei terroristi di Stato inglesi a proposito della polonizzazione del fellone Litvinenko, ovviamente ucciso da maestri della provocazione, sulle infamie dello “Stato di polizia di Putin”, ovviamente colpevole di aver sottratto il paese alle grinfie dell’Occidente e dei suoi picciotti locali e di avergli ridato ruolo e dignità. Questo vessillifero del Lebensraum albanese sta raccontando un viaggio attraverso l’ex-Unione Sovietica sul sito internet del “quotidiano comunista”. Per evitare quel sito come la varicella, basta ricordarci il pittoresco quadretto che l’anticomunista travestito da antirusso tratteggiò del Kosovo, all’indomani della macelleria Nato e delle stragi Uck, quando ce la fece a non vedere uno solo dei 150 monasteri medievali inceneriti, né a incrociare uno solo dei 300mila serbi, rom e ebrei puliti etnicamente dalla Nato-Uck. E’ la stampa, bellezza.

La guerra-fumogeno Usa-Israele contro l’Iran

Veniamo a noi, al nostro tema. Il 9 aprile 2007 scadeva, annunciato da mille “inconfutabili” segnali, l’ennesimo termine “certo” per “l’inevitabile” guerra Usa-Iran. Forse nucleare. Gli altri erano stati annunciati, sempre con apocalittici strombazzamenti mediatici, a dicembre, settembre, giugno, per poi essere riassorbiti dalla polvere delle bufale appassite. Regolarmente succedevano invece altri fattacci, tipo l’assalto USraeliano al Libano, lo sprofondamento di Bush, l’avanzata dei democratici statunitensi, picchi di carnaio di Stato e di successi resistenziali in Iraq, efferatezze israeliane a Gaza, l’ennesima carneficina di civili in Afghanistan, bombe Usa e scherani etiopici addosso a una popolazione somala che stava rimettendosi in piedi, porcherie elettorali in Messico (coadiuvate dall’uomo mascherato del Ciapas); mobilitazione di mascalzoni e grulli in vista dell’intervento “umanitario” in Sudan, altro stato arabo e petrolifero da sbranare… Poi, quatto quatto, nel luglio 2007, l’armagheddon Usa-Iran finisce nel salottino del chatting diplomatico, al suo nucleare ci si riferisce con indulgenza, El Baradei (AIEA) ne parla poco e bene, semmai c’è qualche attrito di sciacalli attorno alle spoglie irachene, nulla che non possa essere risolto con qualche schiaffo agli ascari locali e con qualche discreto tè tra Condoleezza e l’omologo persiano. Succede perché lo Stato Maggiore della criminalità organizzata occidentale pensa di potersi permettere un’attenuazione della psicosi iraniana perché ha da mostrare qualcosa che rasserena il volgo: la segregazione e il progressivo annichilimento per fame dei “terroristi di Hamas” e nuovi, spaziosi boulevard di pace per gli assennati amici di Fatah, in corso di conversione a valanga, tutti iscritti ai corsi di rieducazione dell’Alta Scuola del Tradimento di Abu Olmert. O forse si azzittisce solo perché, in Iraq, o fili con i persiani, o, se tra i nemici devi annoverare anche i soci persiani, ti tocca farti evacuare dai soliti ultimi elicotteri sul tetto dell’ambasciata.

Addio Hawatmeh, buongiorno Kalachnikov

E qui mi arriva una stilettata alle viscere. Naief Hawatmeh, leader dalla fondazione nel 1969 del gloriosissimo Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, sotto i cui vessilli, con quelli del FPLP e di un Fatah ancora non ancora ridotto a zerbinotto pezzente, abbiamo marciato nei decenni (Fe-Fe-Fedayin!), lo incontrai nel gennaio del 1970 ad Amman. Le sette colline della capitale giordana erano imbiancate. La neve risaliva i gradini della pensioncina sul Jebel Hussein, ovviamente priva di stufe, ma con fornelli. Affabili e ciarlieri, emissari del prestigioso capo del FDPL venivano a trovarci, sondarci. Trovavano tè, portavano mele. Intervistai Re Hussein, proconsole degli inglesi ad alta valenza di gossip. Giurò “eterna riconoscenza ai fedayin che combattevano il mostro sionista”. Pochi mesi dopo espresse tale sentimento con un massacro nei campi. Alto, con l’immancabile giaccone di pelle nera dei fustaccioni palestinesi, aquilino, neanche quarant’anni, Haqwatmeh sorrise alla nostra richiesta di entrare nel Fronte, ci fece un po’ di domande dal rigoroso sapore marxista-leninista, ci chiese a lungo dei moti del ’68 europeo, poi disse tamam, va bene, seguirete un corso nella nostra base così e così. Inorgogliositi come pupi siciliani scappati dai pupari e proiettati sul proscenio della Scala, finimmo – italiani, francesi, inglesi, egiziani – in una base scavata nelle colline del Nord, vicino a Ajeloun, a due passi dal Giordano, fiume da attraversare di notte per imboscate che avrebbero insegnato a generazioni di guerriglieri nel mondo come va fatta la guerra asimmetrica. C’era passato anche Jean Genet e i fedayin ne innaffiarono alcuni tra i più bei fiori letterari. Li dentro passammo settimane e mesi. Ore di addestramento, di discussione, di bilancio delle azioni e dei comportamenti, la famosa “autocritica”, di narrazioni intorno al pentolino del chai, di formazione quadri, di spesa dai contadini simpatizzanti, di fraternizzazioni con le pattuglie di soldati giordani, e, all’apogeo, di operazioni notturne.

C’erano anche efflorescenze temporali di assoluta pace e di felicità. Insieme per una causa giusta, a tutti i costi. Spesso nel tepore notturno di maggio, trepido di attese, di approfondimenti su cosa c’era dietro a queste facce di giovani contadini col mitra e dietro alle nostre, con le stelle che si potevano toccare e giocarci a palla, pensavo che forse non avrei mai più vissuto un momento così maturo e felice. Sette anni dopo, per un istante si potè provare qualcosa di vagamente simile: quando cacciammo Lama, dalle parole e dai capelli tinti, dall’università Da Occidente arrivarono nubi basse e nere. Ci chiesero di dimetterci dalle unità combattenti poco prima di quel Settembre Nero con cui il re-fantoccio fece la sua prova d’ammissione al mattatoio israeliano: 2000 militanti ammazzati, campi bombardati e poi svuotati verso il Libano. Najef ci sorrise e abbracciò: Compagni internazionalisti, la lotta è una, continuate a casa vostra. Qualche lacrima sbirciò di sguincio. Poi Hawatmeh diresse la sua organizzazione da Damasco. Al figlio che ebbi tre anni dopo, diedi come secondo nome Najef. Oggi quella nostra icona, come tante altre, come addirittura l’eroe della resistenza di Jenin, Zakariah, che cinque volte i suoi boia hanno tentato di assassinare, e tanti capi di Fatah e delle gloriose Brigate dei Martiri di Al Aksa, dismessi Kalachnnikov, kufìah e fede, ha annunciato il rientro nella sua terra sfigurata e saccheggiata e ha piegato il capo. Poi, visto che gli israeliani lo avrebbero confinato al domicilio coatto, ci ha ripensato. Ma il segnale era già arrivato a mazzata su 8 milioni di palestinesi non ancora rassegnati. Di quei giorni tra le argillose caverne sul Giordano mi è rimasto un segno sulla mano. Avevamo imparato a smontare e rimontare il AK-47 in tempi concorrenziali a quelli dei fedayin, con il pegno di qualche livido o taglio. Ci fu insegnato a fare del Kalashnikov una appendice fisica del nostro organismo e affettivo del cuore, garanzia, in primis, della vita, nostra e di quella dei compagni. Oggi l’87enne Mikhail Kalashnikov è stato celebrato a Mosca per i 60 anni della sua arma. E pour cause. Non tutti i Kalashnikov sono finiti in buone mani, ma quanti esseri oppressi ne hanno fatto lo strumento del riscatto, il passi per la conquista della cittadinanza nel mondo, una crepitante bandiera della liberazione!

USA-Iran, una sceneggiata?

La megapsicosi bellica sul sempre imminente scontro tra Washington e Tehran che ha contagiato il globo e alluvionato gli spazi mediatici da almeno un paio d’anni, si basa su un dato vero e una bufala: la realtà della feroce rivalità storica tra i due paesi, fin dai tempi degli abbassidi e della “rivoluzione khomeinista”, e la farsa di Saddam “amico degli americani”. Dei due paesi l’uno diventava il “Satana” dell’altro grazie a una strategia dell’escalation verbale tra i due finti contendenti. Ahmadi Nejad tocca il nervo scoperto dell’antisemitismo lanciando anatemi contro lo Stato sionista e ciò serve a raccattargli qualche simpatia nel mondo arabo e antimperialista. Gli Usa rispondono con un colossale assembramento termonucleare nel Golfo, accompagnato dagli strepiti dei più smanierati tra i giuntisti militari di Tel Aviv sul prossimo olocausto di Israele per opera di atomiche iraniane, pronte fra trent’anni. Tehran ribadisce che il suo nucleare, civile, non si tocca, la “comunità internazionale” risponde con sanzioni-burletta. Il tutto circondato dal consueto coro fiancheggiatore, perlopiù di prefiche parafemministe, sulla sorte nefasta delle donne col hidjab e dei giovani privati delle Spice Girls, nell’opprimente medioevo degli ayatollah (mai sullo sterminio e il commercio di donne e bambini in Iraq). Che tutto questo venga operato dagli apparati della disinformazione colonialista, da Brzezinski a Kissinger, dal “New York Times” alla BBC, con il corredo di detti utili idioti, non fa sorpresa. Stupisce, invece, e vorrei tanto aver torto, che l’apocalisse iraniano-statunitense venga accreditata anche dalle pochissime fonti altrimenti alternative e sempre credibilissime che costituiscono la rarissima informazione libera e professionale in Italia e nel mondo: Michel Chossudovsky, il grande controinformatore canadese sul terrorismo di Stato, i compagni dell’ International Action Center, motore della mobilitazione antiguerra Usa, Giulietto Chiesa, Lucio Manisco, la sinistra extraparlamentare e le sue nicchie informative.Tutti, per una volta, sincroni e sintonizzati sugli allarmismi isterici del grande megafono, perfino davanti alla tragicommedia dei missili e radar da installare “contro Iran e Nord Corea” sulla soglia della Russia, anziché in Turchia, Azerbajan, o Sud Corea. E di quegli altri che, clandestinamente, Prodi ha accettato sotto la mistificazione “Scudo spaziale” che, nella neolingua, vuol dire primo colpo. Lucio Manisco chiude un suo articolo così: “Ecco perché la soluzione finale contro l’Iran non solo è un’ipotesi, ma una quasi certezza”, dove il quasi è lì solo per la stessa cautela professionale con la quale ce lo metto io per dire che la guerra degli Usa ai compari-rivali iraniani “quasi” non ci sarà per almeno altri dieci anni. Alla fine della collaborazione nel pasto nudo iracheno e, via via, arabo, la complicità potrà anche volgersi in rivalità per l’egemonia regionale. O, forse, allora si metteranno ancora insieme contro la Russia. La vicenda afgana insegna. Ma campa cavallo. Intanto l’Iran erige segreti monumenti a Bush per avergli tolto dai confini accerchiati tutti i nemici: taliban, sostituiti dall’amico Karzai, mentre una cosca di fratelli sostituisce l’odiato Saddam alla testa della bicolonia irachena. Dice, ma Hezbollah è appoggiato da Tehran. E vorrei vedere se qualcuno nella casa incendiata non accoglie il getto d’idrante anche di chi, da altre parti, incendia in combutta con il nemico. Dice anche, Hugo Chavez, leader della vera rivoluzione bolivariana e miccia nel fianco degli Usa, ha visitato Ahmadi Nejad. E volete che un Capo di Stato antimperialista non cerchi alleanze, anche se strumentali? C’è poi sempre la prospettiva che il popolo iraniano smascheri gli scaldini sciti, osservando quello che fa per le masse il grande Hugo. E’ la prima volta, perciò, che mi trovo convinto del contrario rispetto a colleghi amici stimatissimi, cui dobbiamo il grande merito e la mostruosa fatica di lacerare sistematicamente il menzognificio imperialista. Sotto sotto mi pare ci debba essere in loro l’idea che, dopotutto, qualcosa di autentico ci sia nella crociata dell’Islam contro l’Occidente, come in quella speculare dell’Occidente contro l’Islam oscurantista ( e non petrolifero e geostrategico). E non che si tratti di una pantomima dietro alla quale gli autori, annidati nelle capitali dell’Impero, nascondono l’assalto alle ricchezze dei popoli con la scusa di un deus ex machina da loro fabbricato (a partire dall’11 settembre 2001), a scopo di mobilitazione alla guerra preventiva, globale e permanente al terrorismo.

Le parti in commedia

Sullo sfondo c’è l’altalena tra l’aspetto collidente e quello colludente del rapporto di collusione-collisione tra Usa e Iran sull’Iraq. Satanizzare i persiani significa, superando la millenaria apprensione che gli arabi nutrono di fronte al sempre rinascente espansionismo religioso e territoriale di Tehran, rafforzare l’immagine dell’Iran tra le masse arabe convincendole che quello è un alleato nella lotta contro l’imperialismo yankee. E far prendere alla sinistra la cantonata debilitante che l’Iran, preti o non preti, sia schierato nel campo antimperialista. Magari solo perché le canta a Israele, o per quel sequestro di decine di diplomatici Usa nel 1979. Ma si ricordi che Khomeini li tenne fino a quando il pacifico presidente Jimmy Carter non fosse stato battuto dal pugnace cowboy. A Reagan lì regalò nel giorno dell’insegnamento: prima vittoria del duro hollywoodiano. Oggi digrignare i denti contro il Grande Satana deve servire a rendere difficile e isolata la posizione dei patrioti arabi che subiscono i massacri degli scagnozzi di Tehran in Iraq e di coloro che nel mondo arabo questi massacri denunciano. In effetti, come le vicende storiche ed attuali, non mimetizzate, dimostrano, è almeno dal 1953, dopo il rovesciamento del “nazionalista” Mossadeqh, che gli arabi hanno correttamente individuato nell’Iran il primo e più pericoloso alleato degli Usa e di Israele. Intanto, il castello di carte del terrorismo bellico crolla per condizioni oggettive. Attaccare l’Iran, 60 milioni di abitanti, potenziale bellico formidabile, popolazione che si stringerebbe subito compatta ai suoi dirigenti, significa cacciarsi in un inferno peggio dell’Iraq, scatenarsi contro un già imbufalito mondo islamico che ci metterebbe un nonnulla a buttar giù satelliti Usa alla Musharraf, Mubaraq, o Karzai. Significa passare dagli attriti tra rapinatori in coda davanti alla cassaforte irachena, al confronto aperto e senza esclusione di colpi, comportante la catastrofica perdita di altri pezzi della “coalizione dei volenterosi”. Vorrebbe dire che le forze d’occupazione, già prese per la gola da una Resistenza indomabile e in espansione, le milizie filoiraniane, le soldataglie mercenarie irachene, il governo scita, la gerarchia scita, gli si rivolterebbero contro (già ci sono sibili di malumore) e non resterebbero più al loro fianco con il compito, oggi eseguito con gran zelo, di sostituire alla guerra di liberazione dei cinque marines uccisi al giorno, quella carneficina interconfessionale che fa rivoltare e voltare la testa dall’altra parte l’opinione pubblica mondiale. Infine, salterebbe l’intero sistema dei rifornimenti e dei prezzi petroliferi mondiali e non ne eviterebbero le conseguenze né gli Usa, né tutto un Occidente via via più perplesso sullo stare a ruota degli psicolabili di Washington e dei sionmannari di Tel Aviv.

Nemico a chi? Amico a chi?

Ma poi c’è la storia. Lo Shah andava mollato, come il fido ma esausto Somoza in Nicaragua, o gli obsoleti e squalificati democristiani in Italia. Era il 1979 ed era il momento in cui a Washington si stava lavorando alla creazione in laboratorio del nuovo nemico universale, l’integralismo islamico, allora da lanciare contro l’Armata Rossa nell’Afghanistan sfuggito agli inglesi, oggi da sostituire allo scomparso nemico sovietico. L’urgenza era data dalla costituzione, quell’anno, da parte del laico e socialista Saddam Hussein, del Fronte del Rifiuto bastione di un nazionalismo arabo antisionista altrove in ritirata, in risposta alla resa di Camp David offerta dall’egiziano Sadat al premier Begin (entrambi Nobel per la pace!). A tale fronte si associarono tutte le organizzazioni palestinesi e 17 Stati arabi, volenti o nolenti, ma costretti dalla proprio opinione pubblica esaltata dall’esempio iracheno. In più, Baghdad era diventato il crocevia, che spesso frequentai, delle organizzazioni politiche, associative, sindacali laiche, socialiste, anticapitaliste e antimperialiste di tutto il mondo. Vi si incontravano i paesi non allineati, le forze progressiste extraparlamentari. Un bubbone da sterminare con l’antidoto Khomeini e la grande forza militare accumulata dallo Shah, una volta che l’ayatollah proveniente dal caldo (Parigi) avesse fatto piazza pulita delle forze più rappresentative, ma meno affidabili, della rivoluzione contro lo Shah: comunisti, curdi, islamomarxisti. Chi ancora fosse convinto che l’Iraq abbia attaccato i persiani per conto di Washington, si ricordi non solo dell’ “Iran-contras” (soldi khomeinisti per armi e istruttori israeliani, da impiegare contro i sandinisti in Nicaragua), ma si vada a rileggere la cronaca dei giorni prima del novembre 1979, quando i persiani varcarono ripetutamente il confine con il Curdistan iracheno, appoggiati dalle bande dei capitribù narcotrafficanti Talabani e Balzani. Troverà che Khomeini da mesi incitava gli iracheni alla rivolta contro l’apostata, irrimediabilmente “da impiccare”, rivendicava e teneva occupati territori arabi nelle isole del Golfo e al di là del confine dello Shatt el Arab, concordato nel 1975, minacciava di invadere Bahrein con orde di svolazzanti mullah (la minaccia sta tornando di attualità) e di chiudere alle esportazioni petrolifere irachene l’accesso al mare e, addirittura, gli Stretti di Hormuz, collo di bottiglia del Golfo. Si cannoneggiavano le zone di confine dell’Iraq, ci rimasi sotto per due giorni anch’io in Curdistan, tra i monti sopra Irbil, capitale della ,prima autonomia curda nell’intera storia di quel popolo, concessa da Saddam nel 1972. Si allestivano attentati a Saddam. Quelli per i quali la vittima venne poi impiccata: 145 sciti massacrati, ma che invece erano stati processati pubblicamente per tre anni e trovati, in parte colpevoli di lavorare per conto del giaguaro persiano in guerra. Un terzo di quei 145 è stato scoperto vivo e vegeto nel suo villaggio.Tutto questo riempie denunce su denunce di Baghdad all’Onu, al Consiglio di Sicurezza, alla Lega Araba, alla Conferenza islamica. Alla fine l’aggressione persiana si sviluppò, pure con i gas di Halabja falsamente attribuita agli iracheni (vedi documenti Cia in New York Times, 31/1/2003), mentre dalle nostre parti lottacontinuisti degeneri inneggiavano ai pasdaran che mandavano bimbetti a saltare sulle mine irachene, salvo oggi ricredersi e immerdarsi nel più becero antislamismo sionista, sugli schermi al vetriolo dell’agente Giuliano Ferrara. La manovra fu respinta. Saddam fu sottratto alla solidarietà delle sinistre mondiali cucendogli addosso la giubba dell’ “uomo degli americani”. Si poteva passare alla fase due, prima Guerra del Golfo, e alla fase tre, liquidazione totale a partire dal 2003. Falliranno entrambe.

blank
Avvinti come l’edera

A questo punto gli occupanti dell’Iraq si rivoltolano in un ginepraio da far perdere la direzione al più astuto dei ranger della bellicosità Usa. Per far fronte a un incessante crescendo della Resistenza – una squadra di marines e chissà quanti contractor uccisi al giorno, più operazioni e più verso il cuore della cittadella del potere che nel 2004 – si era creato in provetta il virus della “guerra civile”, pratica istituzionale di ogni colonialismo. Con grande soddisfazione di Tehran se ne sarebbero incaricate le milizie di Moqtada Al Sadr (che, nella divisione dei ruoli faceva il populista “antiamericano”), dell’altro caporione scita, Al Hakim, dei vari signorotti della corruzione collaborazionista, i peshmerga dei banditi Barzani e Talabani, le forze private dei ministeri sciti, le vacillanti soldataglie del governo fantoccio. La tripartizione programmata fin dal 1982 dal teorico della bantustanizzazione araba, Oded Yinon, consigliere del governo israeliano, veniva agevolata dallo scontro interconfessionale, con l’aggiunto beneficio dello spostamento del tiro di una micidiale Resistenza dalla decimazione degli occupanti verso un bagno di sangue tutto iracheno. E allora ecco le stragi di Stato (perlopiù eseguite dalle milizie Al Mahdi di Moqtada) nelle più sacre moschee scite e sunnite, a volte documentate da video degli stessi terroristi sciti (vedi l’inestimabile www,uruknet.info); l’assassinio seriale, di chiara scsuola israeliana, di tutte le teste pensanti del paese, accademici, scienziati, letterati, insegnanti, medici; le bombe nei mercati, i 50-100 sunniti squartati e trapanati al giorno. Moqtada e compari procedevano alla pulizia etnica di interi quartieri di Baghdad, protetti dai muri alla Sharon che i padrini Usa costruivano intorno a quartieri resistenti come Adhimiah, i curdi ripulivano la petrolifera Kirkuk della presenza araba e turcomanna, i persiani accentuavano l’egemonia assoluta sul regime fantoccio e sull’intero centrosud del paese, ormai un’enclave finanziaria, industriale, commerciale e politica iraniana. A questo punto, la tripartizione programmata dagli occupanti rischiava di sfuggire di mano e risolversi in una partita a due, tra curdi e iraniani.

Tanto che era addirittura l’influenza iraniana sui burattini nei palazzi di regime a impedire che passasse una legge con la quale gli Usa avevano pensato di assicurarsi la totalità della bonanza petrolifera del paese. E già i soci iraniani stavano costruendo oleodotti e raffinerie al Sud! Occorreva cambiar marcia. Si trattava di bilanciare l’epidemia scita, ricuperando qualcosa delle vecchie competenze militari, amministrative, scientifiche, tecnologiche di quello che era un paese all’avanguardia nel Terzo Mondo. Ma queste erano scomparse nel mare di sangue in cui, dal 1991, erano stati annegati due milioni e mezzo di iracheni , o erano disperse tra i quattro milioni di senzapatria vagolanti nei deserti mediorientali. Del resto Moqtada non tollerava che gente che lui aveva contribuito a sterminare tornasse ad aver qualche parola in capitolo. Né lo consentiva il premier Nuri Al Maliki, con il fiato di due burattinai sul collo, che però dal supporto degli sgherri di Moqtada, in parlamento e fuori, in buona parte dipendeva. Vennero chiamati in causa i sauditi, vacillanti sui loro troni di diamanti sotto l’uragano scita, perché, risuscitando un orgoglio wahabita sunnita, ponessero un argine alla voracità persiana. Si diede via libera anche ai turchi, ai loro 200.000 armati alle soglie del Curdistan iracheno, perché l’intero Nord non finisse in mano esclusiva dei vicini in vena di autonomia e anche quel petrolio, oltre a quello di Basra, non prendesse tutto verso levante anziché verso ponente. Si mandò qualche segnale indispettito a Tehran, arrestando funzionari d’ambasciata e armieri delle milizie scite, si lanciarono nuove campagne diplomatiche, medianiche e mediatiche contro gli oscurantisti in procinto di nucleizzare Israele e chissà quant’altro. E poi si ricominciò da capo.

Surge, surge, surge! Muore e surge Al Qaida. Va e viene Moqtada. Ma l’Iraq cammina con la Resistenza

Si annunciò “ripensiamo noi”. E furono un surge dopo l’altro (così Bush chiamava le campagne di “sicurezza”: impeti). Da gennaio a giugno 2003 il generale Petraeus con i suoi 30.000 soldati, freschi di razzìe tra gli immigrati latinos alla ricerca di pane e cittadinanza (meno il consueto 27% di disertori e di usciti di testa), si avventò sulla Resistenza e su quartieri e città irriducibili. Fu ferro e fuoco, follia e stragi. Memorabile fu la battaglia di tre mesi per la grandiosa via Haifa, splendido esempio di neorazionalismo arabo, quella dei musei, della vita culturale e artistica esplosa dopo la rivoluzione del 1968. Un quartiere che accarezzava i traforati balconi dei tempi di Harun Al Rashid, lì sotto, lungo il fiume. Quartiere dai portici ombrosi e dalle guglie a cuspide che sembravano spilli nel tessuto azzurro, dove un tempo si passeggiava e conversava come fossimo sotto casa di Pericle. Erano armate corazzate contro cecchini. La prime non ce la fecero. Poi gli assedi tipo Riccardo Cuor di Leone ad Acri (tutti gli abitanti decapitati). Bakuba, Samarra, di nuovo Fallujah, centri abitati delle province centrali assediati per settimane: tagliate acqua e luce, bloccati i viveri, i carburanti, i farmaci. Incursioni stragiste contro i sopravvissuti, preferibilmente contro ospedali ancora funzionanti, ratto di donne per il dilagante commercio della prostituzione a beneficio degli armati di qualsiasi tipo e delle solite ONG collaborazioniste; sequestro bambini e feriti per i rifornimenti di organi a Malibù. Bombardamento alla cieca. Insomma, terrorismo puro. Per l’intanto ai trapanatori di Moqtada era stato consigliato di starsene sott’acqua. Lo stesso capobanda si rifugiò per un po’ tra i garanti persiani. Gli occupanti a stelle e striscie allestirono pure un paio di raid in Sadr City, già Saddam City, roccaforte del caudillo col turbante. Fuffa. Intanto non avanzavano di un metro nella liquidazione di una Resistenza a favore della quale si è dichiarato, in un sondaggio, il 93% della popolazione sopravvissuta, oltre a tutte le tribù, quei grandi conglomerati sociali e territoriali che, nei secoli dei domini stranieri, avevano salvaguardato autonomia, identità e cultura. E a casa crescevano la stizza e la frustrazione per una sconfitta prolungata all’infinito solo a beneficio di armaioli e della manica di matti violenti attorno alla Casa Bianca. Si ricominciò da capo. Fuori le milizie scite, dentro le milizie scite. Alternanza di cannibali. Moqtada tornò, i suoi deputati, stampella di Al Maliki, si dimettevano e rientravano nel parlamento come per una porta girevole, a seconda dell’efficacia del ricatto iraniano agli occidentali.

Al Qaida per la paura

E ricompare, eterna araba fenice senza la quale il colonialismo come si farebbe? Al Qaida. Al Qaida che esplode come ortiche dopo l’acquazzone. Quell’Al Qaida che il comandante supremo a Washington, definitivamente in stato confusionale, dichiara battuta, no, sempre più diffusa, colpita a morte, no, ancora più forte. In mancanza di santini del giorno dell’uomo morto da sei anni, si ricorre a mezzi disperati: un video d’antan, Osama ringiovanito di dieci anni rispetto all’epifania di due anni prima, con audio registrato di blà-blà-blà sul martirio.Tra tutte le panzane la più mediocre. Al Qaida di continente in continente, di isole britanniche in isole filippine, di Somalia in Palestina, Libano, Iraq. Alessandro Magno, la Spectra, i catari, la mafia gli fanno un baffo. Le più grandi potenze del mondo, servizi segreti presenti capillarmente come pidocchi, una tecnologia del controllo cui non sfugge nemmeno il mozzicone di spino rimasto nelle pieghe dei pantaloni, si fanno scoppiare in pieno aeroporto fuoristrada che questo esercito invincibile, con piloti che fanno impallidire Superman senza aver mai pilotato neanche un aquilone, riempie di benzina, chiodi e telefonini inservibili. In Iraq non volendo, non potendo raccontare che la Resistenza è più forte che quattro anni di forno crematorio nazionale fa, non tollerando più i direttori d’orchestra iraniani che si accusino i monaci invasati da loro armati, il rimedio rimane un Al Qaida sempre più epigono della notte dei morti viventi. E pensare che Zarkawi, ex-generalone, ucciso dalle bombe nel 2003, fu poi, redivivo, colpito a morte dai marines tre anni dopo e che del suo successore, Abu Masri, si è scoperto che sta da anni rinchiuso in un carcere egiziano. Fa scoppiare di rabbia come ci facciamo fare fessi. Compreso quell’ottimo Tommaso De Francesco del “manifesto”che, abbandonata per un attimo il suo karma kosovaro della “contropulizia etnica”, mentre non c’era stata nessuna pulizia etnica prima, ci spiega quel che è qaedismo e quel che non lo è. I taliban non più osamisti (e pensare che furono proprio loro a offrirlo agli Usa nel 2001 e quelli rifiutarono!) non lo sono, e neanche Hamas o Hezbollah, ma quelli della “battaglia ideologica contro gli infedeli”, quelli sì. Sull’Al Qaida iracheno, pur smentito o comunque rifiutato da tutta la Resistenza, nonché dalle grandi tribù dal Nord al Sud, il Nostro mantiene il riserbo. Bush ringrazia al 50 per cento. Ma che fa. Conta aver dato un altro surge, impeto, alla paura universale, tanto funzionale a guerre globali e tagli di pensione. Quella per cui una sposa occidentale si chiede ogni mattina se la sera le toccherà raccogliere il marito col cucchiaino sotto qualche maceria di Al Qaida, o tirarlo fuori da qualche lupanare elettronico di pedopornofili, o correre dietro all’angolo per sottrarre la figlia allo stupro del marocchino. Scoppia una tubatura d’acqua a New York e la gente si ficca cento metri sotto terra, pensando che Osama gli sta facendo il day after. Intanto tutti gli abitanti del globo che non vivano tra prati inglesi si guardano in tralice.

Contrordine, soci

Così, da luglio, si tornò alle vecchie deleghe a Moqtada Al Sadr e alla sua epopea stragista: autobombe nei mercati, a volte allestite direttamente dai corpi speciali angloamericani, moschee di entrambe le confessioni che saltano, razzie di sunniti poi sparati come bestie sull’uscio e ritrovati con il corpo sminuzzato, o galleggianti in un Tigri che, anche grazie agli sversamenti delle acque nere degli occupanti, da fonte millenaria di vita, era diventato un fiume di veleni. Le centinaia di pescatori che vivevano del fiume e, ai miei tempi, ne profumavano le rive illuminate da bracieri ardenti e da feste di popolo, potevano aggiungersi ai quattro milioni di spodestati e cacciati nel nulla. Samarra esplose di nuovo. Quella volta la moschea d’oro, dopo aver perso la cupola, si vide sgretolare i minareti. Le stesse mani, sempre alla disperata ricerca della soluzione finale tramite guerra civile, bombardavano poi le moschee sunnite. Gli statunitensi parevano quell’ubriaco che, con la moglie che gli sbarra le porte di casa, barcolla di bettola in bettola per quell’ultimo drink che gli faccia scordare il fegato spappolato. Mentre si aggrappavano alle farse delle conferenze di “riconciliazione nazionale”, regolarmente irrise dai partigiani Baath e islamici al recupero, del tutto virtuale, di esponenti dell’antico governo, con le quali pensavano di ammaestrare sunniti e sciti tipo Abu Mazen e che tutti sistematicamente schernivano, sempre più organizzazioni della lotta armata si univano in fronti unitari islamico-laici, guadagnandovi in efficacia e controllo territoriale. Izzat Ibrahim Al Duri, il vice di Saddam che guida la guerriglia, ebbi la sorte di intervistarlo per “The Middle East”, Alto, segaligno, rossopelo, simile a un duro e giusto del West, si dilungò sulla congiura iraniano-occidentale che stava allora per scatenarsi in guerra e che prendeva di mira anche le conquiste sociali del paese pericolosamente contagiose. Oggi, comandante riconosciuto della Resistenza, annuncia celebrazioni su tutto il territorio nazionale per il 40° anniversario di quella rivoluzione baathista del 1968 che avviò la nazione sulla strada del riscatto, della dignità, della giustizia sociale, del benessere. E, dunque, della demonizzazione imperialista.

Esempi iracheni per una Palestina unita

In Palestina, la rivoltante resa del fantoccio Mahmud Abbas (Abu Mazen) ai trucidatori del proprio popolo, vezzeggiato dagli aguzzini come un’ormai inoffensivo bambolotto che, su comando, picchia il tamburo, con al seguito la processione dei flagellanti convertiti alla teocrazia nazisionista, riceveva per risposta le operazioni militari contro l’occupante delle forze, per la prima volta riunite, delle Brigate dei Martiri di Abu Ali Mustafà, dei Martiri di Al Aqsa e di Hamas, a conferma che l’unica difesa di un popolo minacciato di estinzione è il massimo danno inflitto ai killer. Di fronte allo sfacelo della dirigenza di Fatah e della cosca di furbi e rinnegati che avevano inventato gli accordi di Oslo e la truffa dei due Stati, tornavano a farsi concrete e diffuse le voci dell’unica soluzione realistica alla permanenza di un sistema razzista ed espansionista: lo Stato democratico unito, binazionale, con ebrei a Kiriat Shmona e palestinesi a Gerusalemme e Tel Aviv. In Italia, il governo che con gran gusto dell’ironia si definiva di centrosinistra, non si accorgeva di nulla. O faceva finta. E se un D’Alema si barcamenava tra una base di Vicenza e uno Scudo spaziale, da un lato, e la temeraria strizzatina d’occhio a Hamas e Hezbollah, dall’altro, pur di non restare del tutto infilzato nella debacle dei suoi santoli, tutto il resto della ciurmaglia bicefala del Palazzo, banda dei diritti umani in testa, si avviava, obnubilata come i lemmi d’Australia, al proprio salto di massa nel burrone.

Le due, tre, cento Nassiriya del programma coloniale

Il baffino di Gallipoli, che ci tiene alla sua barberia (presidenza delle Repubblica, o premierato “forte”, una volta sgonfiato il vescicone Veltroni) ha capito che a dar totalmente retta al branco di gangster con stelle a strisce, o di Davide, si finirebbe nei guai. Cosa succederebbe in un elettorato, per quanto imbrigliato da Amato e De Gennaro, per quanto manomesso nel voto, che si vedrebbe arrivare in casa proprio quelle esecrate “due, tre, cento Nassiriya” per aver dovuto la Folgore, con le “nuove regole d’ingaggio” vaticinate dal pupazzo italiano del ventriloquo Olmert, ammazzare e farsi ammazzare in Libano e, poi, in Siria e altrove? Già si regge a gran fatica il macello afgano. Vuoi vedere che altre impres del genere, a rischio sempre più elevato, ti allargano il presidio di Vicenza alla penisola intera? Già, perché, oltre a ridurre ai trafiletti interni (salvo quando c’è da pompare qualche eccidio dei soci Al Qaida) l’immane orrore iracheno, che fa di Hitler un massacratore bonsai, la simulazione bellica degli azionisti dell’ Anonima Genocidi Usa-Iran, serve anche a sottrarre alla vigilanza degli antiguerra quanto si sta apprestando contro Siria e Sudan, Stati arabi ancora non normalizzati, o spezzettati. Tragicamente – e qua va tirato in ballo ancora una volta la stolta compiacenza dei sinistri tutti verso gli stereotipi – mentre il solitario Michele Giorgio del “manifesto” qualche luce ha saputo gettare sulla cospirazione antisiriana che USraele e clienti vanno ordendo a forza di Al Qaida, di tribunali Hariri e di provocazioni anti-Unifil contro Hezbollah, i 400.000 palestinesi dei campi e, obiettivo strategico, la Siria, sul Sudan il fronte interventista è globale, va da Bush a Franco Giordano. Hanno lavorato bene, tra strepiti su catastrofi umanitarie in Darfur, compagnie di giro hollywoodiane, lobby parlamentari, “società civile” e affamate Ong, per predisporci allo squartamento del Sudan. Sudan, padrone delle acque del Nilo, di petrolio e uranio, sostenitore dell’Iraq, amico e fornitore di una Cina da asfissiare, imperdonabilmente, di fronte al modello ebraico, multiconfessionale e multietnico come già la Jugoslavia e l’Urss. Ci sono il Ciad e il Mali in mano ai francesi, Niger, Nigeria e tutto l’Ovest africano contesi da vari occidentali, Uganda, Etiopia, Kenia alla mercè degli Usa. Manca all’appello solo questo, che è il più grande paese del continente e del mondo arabo. E allora si attivano tutte le formule e formulette già collaudate in altre occasioni. Si inventano stragi governative colossal ed esodi biblici, nelle quali, invece, su contese endogene determinate da siccità e desertificazione (figlie dei nostri giochetti col clima), si sono innestate le solite finzioni etnico-confessionali, materializzate da “movimenti di liberazione” pieni di dollari Usa, euro e sterline. E’ successo in Jugoslavia, nell’Urss da smembrare, in Somalia, in Iraq, in Libano. E, come sempre, l’Onu dà il suo contributo sparando cifre di vittime a cazzo, puntando il dito contro il governo da criminalizzare e facendo di George Clooney, Nicole Kidman e Mino Reitano i suoi testimonial umanitari. Ma noi, il “manifesto”, Bushisconi, Prodinotti, i missionari, l’accademico eccelso e il bigliettaio della corriera, siamo tutti convinti: il Darfur è un altro Kosovo, da dove l’onesto reporter radicale Antonio Russo fingeva di vedere bambini arrostiti allo spiedo dai serbi. In Darfur bisogna intervenire. Che lo solleciti anche il Pinochet al cubo nella Stanza Ovale non fa differenza. Intervenire, badate bene. Mica dicono, bombardare, affamare, radere al suolo, rubare tutto. Sarebbe di cattivo gusto. Ci fosse solo un minimo di coscienza politica, storica, logica e, per gli informatori, professionale, si andrebbero a vedere le carte. Le altre carte. Quelle degli Stati Canaglia. Ma ci siamo mai preoccupati di leggere un testo di Milosevic (salvo che nella deformazione dei Solana e Kouchner di turno)? Abbiamo mai analizzato un programma governativo di Saddam, o un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Salute o del Lavoro sulla situazione in quel paese? Abbiamo ascoltato padroni e voci del padrone e ci siamo conformati. A dispetto di tutte le turlupinature subite. E perché allora dovremmo scomodarci ad ascoltare, oltre al vangelo di Langley, di Flavio Lotti, dei comboniani di “Famiglia Cristiana”, di Giordano, anche quello che dice il presidente sudanese, Omar el Bashir? Mica sono europei, no? Cristiani, bianchi, occidentali, evoluti. E dunque coglioni e complici. La nostra salvezza verrà dai “selvaggi”.

P.S. Quando ancora lavoravo a “Liberazione”, in una puntata della rubrica “Mondocane” (allora in linea, si fa per dire) avevo parlato della coppia Pannella-Bonino come di “vampiri della classe operaia”. I due dell’Avemaria, pur rappresentando elettoralmente meno del partito maoista del Lichtenstein, ma autentici guastatori nel nome di Wall Street e della Knesset, si stavano dando da fare alla grande contro il referendum sull’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Annunciarono la solita querela acchiappasoldi, non ricordo se per tremila, trentamila o trecentomila euro. All’audace Sandro Curzi, direttore, la coda tra le gambe arrivò fino al naso. Mi supplicò invano di fare ammenda. In qualche modo si accomodarono. Corsero dei quattrini. Oggi la senatrice-ministro Emma Bonino, qualcosa che solo ai pervertiti ricorda la vecchia della casetta di Haensel e Gretel, annuncia le sue dimissioni dal governo perché non salvaguarderebbe, ricattata dalla sinistra (sic!), lo scalone ammazza-pensionati, i coefficienti peggiorativi e il limite matusalemmico del lavoro per tirare il fiato. Insomma, o passa il trucco dei giovani traditi oggi da sessantenni salvaguardati, giovani che dovranno esibire sei decadi di vita e 36 anni di contributi, quando a malapena riescono a raggranellare qualcosa dopo i trenta-quaranta, o ci giochiamo la Bonino. E chi lo consentirebbe mai, visto che da trent’anni i radicali, corifei ghandiani dei ghandiani Bush e Olmert, fingono di essere e riescono a essere l’ago della bilancia. L’avesse accettata quella querela, il prode “compagno scomodo”! Quanti milioni di testi a nostra difesa avremmo avuto, secondo voi? Certo, loro avrebbero sempre potuto portare Bush, Montezemolo, Sharon e Francisco Pizarro.

Fulvio Grimaldi
Mondocane Fuorilinea
21.07.2007

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