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La Redazione

 

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La NATO al bivio

Un'architettura di sicurezza incoerente e il problema della Grande Strategia
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A cura di Markus
Il 24 Luglio 2024
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Big Serge
bigserge.substack.com

Hanno chiamato quelli degli anni ’80, rivogliono la loro politica estera“[*].

All’epoca, si trattava di una battuta a effetto, tipica della celebre abilità politica personale e della disinvoltura popolare del presidente Barack Obama, nonché di una piccola frase a effetto che gli avrebbe permesso di battere Mitt Romney nelle elezioni presidenziali del 2012. Con il passare del tempo, tuttavia, è entrata nella dubbia schiera delle ultime parole famose della storia.

Quando Romney in quel dibattito aveva sostenuto che la Russia era il principale rivale geopolitico degli Stati Uniti, era stato facile per Obama liquidarlo e per il Paese riderci su. All’epoca, l’America stava cavalcando l’onda della sua grande vittoria sull’Unione Sovietica, la Russia era raggomitolata in posizione fetale e sembrava che le uniche sfide alla sicurezza rimaste fossero le guerre intestine in Medio Oriente. Ma, nel 2024, chi nell’establishment americano della politica interna ed estera metterebbe in dubbio la validità della tesi del senatore Romney?

Dal 2012, la NATO ha vissuto una rinascita e un ritorno alla rilevanza che farebbe diventare verde d’invidia qualsiasi star del cinema degli anni ’80 ormai dimenticata. Dopo anni nell’oblio, in cui l’unica vera menzione della NATO nella politica americana era l’ammonimento ai membri europei di aumentare le spese per la difesa, la NATO è di nuovo al centro della politica globale (e interna) americana. La NATO è stata identificata come uno dei motivi principali della guerra in Ucraina, mentre infuriano i dibattiti sulle presunte promesse americane sul fatto che la NATO non si sarebbe espansa verso est, le discussioni sull’ingresso dell’Ucraina nell’alleanza e una crescente narrativa secondo cui una delle minacce principali di una seconda presidenza Trump sarebbe la possibilità che The Donald ritiri gli Stati Uniti dalla NATO o neutralizzi in qualche altro modo il blocco. Agli americani, affaticati dall’inflazione e da un endemico marciume istituzionale, viene chiesto di pensare al povero e terrorizzato Consiglio Nord Atlantico, quando andranno a votare a novembre.

Gli Stati Uniti hanno certamente un problema con la NATO. Questo problema, tuttavia, non è un’affinità trumpiana per il dispotismo che minaccia di scardinare l’alleanza e consegnare l’Europa ai russi, né un complotto russo per attaccare la Polonia. Il problema, piuttosto, è che il posto della NATO nella più ampia strategia americana è sempre meno chiaro, proprio mentre questa strategia diventa sempre più logora e senza timone. È la coda che sta facendo scodinzolare il cane e che lo sta portando in una trappola per orsi.

La NATO, nella sua concezione originaria, era stata progettata per risolvere un dilemma di sicurezza molto particolare nell’Europa occidentale. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, l’Europa occidentale – parliamo di Gran Bretagna e Francia – aveva il problema di come fosse possibile organizzare una difesa contro le colossali forze sovietiche, all’epoca convenientemente schierate in posizione avanzata nella Germania centrale. Nel 1948, proprio per risolvere questo problema, era stata creata la “Western Union Defense Organization” (WUDO), che comprendeva i già citati alleati anglo-francesi insieme ai Paesi Bassi e al Belgio. Con la rapida smobilitazione degli eserciti americani in Europa, tuttavia, era ovvio che questa fragile alleanza europea avrebbe avuto prospettive infauste nell’impensabile eventualità di una guerra contro l’Unione Sovietica. Il feldmaresciallo Bernard Montgomery, comandante supremo delle forze WUDO, alla domanda su cosa sarebbe servito ai sovietici per attaccare e portare l’Armata Rossa fino all’Atlantico, aveva risposto: “scarpe”.

La NATO era perciò il tentativo di risolvere la totale sovrapposizione strategica sul continente europeo attraverso due espedienti. Il primo di questi, ovviamente, era l’adesione dell’America, che comportava sia impegni formali di sicurezza sia il dispiegamento permanente di truppe statunitensi in Europa. La seconda spinta strategica fornita dalla NATO riguardava la Germania. Anche dopo essere stata devastata dalla guerra e smembrata dall’occupazione alleata, la Germania occidentale rimaneva lo Stato più popoloso e potenzialmente più forte dell’Europa occidentale. Fin dall’inizio era stato chiaro (in particolare agli americani e agli inglesi) che qualsiasi strategia sostenibile per scoraggiare o combattere l’Armata Rossa avrebbe dovuto utilizzare truppe tedesche – ma questo implicava, assiomaticamente, che la Germania occidentale avrebbe dovuto essere riabilitata economicamente e riarmata. La prospettiva di un riarmo *intenzionale* della Germania era terribilmente sconvolgente per i francesi, per ovvi motivi, visti gli eventi del 1940-44.

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La prima conferenza al vertice della NATO

La prima conferenza al vertice della NATO aveva così risolto i due grandi ostacoli ad una difesa sostenibile e fattibile dell’Europa occidentale, in quanto legava formalmente e permanentemente gli Stati Uniti all’architettura di difesa europea e forniva un meccanismo per riarmare la Germania occidentale, senza consentire la possibilità di una politica estera tedesca veramente autonoma e revanscista.

Per molti versi, la NATO può essere vista come un’inversione totale del sistema di Versailles che, dopo la Prima Guerra Mondiale, aveva segnato il destino dell’Europa gettando le basi per la Seconda. Il periodo tra le due guerre aveva visto l’alleanza anglo-francese contrapposta a una Germania avversaria e privata dell’assistenza americana; la NATO garantiva l’impegno americano per la difesa europea e riabilitava la Germania trasformandola in partner prezioso, forniva l’architettura di comando per riarmare la Germania e mobilitare le risorse tedesche senza permettere alla Germania di condurre una politica estera indipendente.

Da qui la formulazione popolare, coniata dal primo Segretario Generale della NATO, Lord Hastings Ismay, secondo cui la NATO esisteva per “tenere gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi giù”. Questa affermazione, tuttavia, è stata spesso male interpretata. L’idea di “tenere gli americani dentro” non era un complotto di Washington per dominare il continente, ma un espediente degli europei per tenere l’America impegnata nella loro difesa. Per quanto riguarda l’idea di “tenere a freno i tedeschi”, si trattava di un’affermazione banale e non del tutto accurata: il vero scopo dell’ingresso della Germania occidentale nella NATO era quello di consentirle di ricostruirsi e riarmarsi nell’interesse della difesa collettiva occidentale. Per gli Stati Uniti, la NATO aveva senso come modo per mobilitare le risorse europee e calcificare il “fronte” europeo, nel contesto di una più ampia lotta geopolitica con l’URSS.

A questo serviva la NATO. Era un meccanismo per formalizzare l’impegno americano per la sicurezza in Europa e mobilitare le risorse tedesche per scoraggiare l’URSS, e aveva funzionato – il fronte della Guerra Fredda in Europa era rimasto statico fino al crollo dell’Unione Sovietica, crollo causato dalle ingenue e autodistruttive visioni politiche di un certo Mikhail Gorbaciov.

Ma a cosa serve ora la NATO? A cosa serve nel contesto di una più ampia strategia americana? E, soprattutto, esiste una Grande Strategia ed è coerente? Sono domande che vale la pena porsi.

La grande strategia di Negazione dell’Area

La grande strategia, in quanto tale, è diventata una parola quasi stancante, come la geopolitica stessa. In astratto, la grande strategia si riferisce al modo in cui uno Stato fa leva sull’intera gamma dei suoi poteri – militari, finanziari, economici, culturali e diplomatici – per perseguire i propri interessi. Tutto questo suona bene ma, naturalmente, l’idea di una grande strategia unificata è molto più difficile da realizzare di quanto sembri. Non sempre gli Stati sono in grado di definire chiaramente i propri interessi; nelle democrazie, ovviamente, possono esserci ampi disaccordi sull’interesse dello Stato, ma anche all’interno dei regimi più totalizzanti ci saranno sempre interessi istituzionali e modalità di comportamento in contrasto tra loro. Si pensi, ad esempio, all’aspro conflitto tra la Marina e l’Esercito imperiali giapponesi o alla divisione tra i campi interventisti e isolazionisti negli Stati Uniti. Con l’inquadramento interno degli interessi *e* l’arena internazionale in continuo mutamento, si può davvero dire che esista una grande strategia coerente? Nonostante il crescente disaccordo concettuale su cosa sia esattamente la grande strategia, o addirittura se esista del tutto, si possono trovare innumerevoli libri sulle grandi strategie di innumerevoli Stati storici o contemporanei – l’Impero Romano, i Bizantini, gli Asburgo, Singapore, la Corea del Sud, la Russia, il Giappone e, naturalmente, la Cina e gli Stati Uniti.

Credo piuttosto che la “grande strategia” sia una di quelle cose che si fa fatica a definire, ma che si riconosce bene quando la si vede. I modelli e i motivi del comportamento degli Stati emergono chiaramente nel corso della storia e ci sono interessi evidenti verso i quali gli Stati lavorano e coordinano le loro leve di potere. Quando questi modelli e questi comportamenti coordinati emergono, li chiamiamo grandi strategie. Lo Stato diventa come un predatore selvaggio, che esibisce molte tattiche e strategie diverse per catturare la preda. L’osservatore umano può torcersi le mani all’infinito, interrogandosi sulla vita interiore dell’animale, sulla sua capacità di elaborare una strategia e sulla sua abilità di comunicare con il branco, ma l’esistenza di schemi di comportamento coordinati e orientati all’obiettivo è sufficiente per dedurre che la strategia esiste.

La grande strategia americana è incentrata sulla politica di negazione dell’area, quella che potremmo definire negazione egemonica. Si tratta di una strategia vecchia, vista con favore dalle grandi potenze che hanno la fortuna di avere un distanziamento strategico, e che gli Stati Uniti hanno ereditato dalla Gran Bretagna, il predecessore geostrategico dell’America. La “grande strategia” degli inglesi, per molti secoli, si era semplicemente basata sul negare a qualsiasi potenza europea continentale l’opportunità di dominare il continente. La logica era semplice e sublime: lo status di potenza insulare della Gran Bretagna le permetteva di isolarsi strategicamente dalle guerre continentali. Il Canale della Manica liberava la Gran Bretagna dall’onere di mantenere un grande esercito permanente, come erano costrette a fare le potenze continentali, e di investire pesantemente nella proiezione di potenza navale. Alleggerita dalle grandi spese che comportavano le pericolose frontiere terrestri, la potenza navale britannica aveva reso gli inglesi i grandi vincitori della corsa agli armamenti coloniali. Tuttavia, la Gran Bretagna aveva sempre vissuto nella temibile ombra del consolidamento europeo. Se una qualsiasi potenza continentale fosse riuscita a consolidare il potere sul cuore dell’Europa, avrebbe avuto le risorse per lanciare una sfida navale alla Royal Navy.

Per questo motivo, per secoli, la Gran Bretagna aveva semplicemente appoggiato i rivali di qualunque fosse lo Stato continentale più potente in quel momento. Aveva sostenuto gli Asburgo e poi i prussiani nelle guerre contro la Francia, aveva svolto un ruolo attivo e centrale nelle guerre per impedire a Napoleone di stabilire l’egemonia in Europa; successivamente aveva fatto perno su un’alleanza con la Francia per contenere la Russia nella guerra di Crimea. Infine, quando la Germania si era consolidata, diventando lo Stato più potente d’Europa, la Gran Bretagna si era impegnata in due catastrofiche guerre mondiali per impedire il dominio tedesco sul continente. La presenza della Gran Bretagna in agguato al largo e di un potente Stato russo a est era una prevenzione naturale ad una egemonia continentale, perché sia la Russia che la Gran Bretagna erano avversarie di qualsiasi aspirante [all’]imperium europeo. Non che la Francia e la Germania non si fossero a loro volta impegnate a fondo, ma la sfida di allestire una forza navale di spedizione sufficiente a sconfiggere la Gran Bretagna e la potenza militare e l’impegno logistico necessari a sconfiggere la Russia erano stati sufficienti a mandare a gambe all’aria Napoleone, il Kaiser e Hitler.

L’anima della “grande strategia” britannica era quindi molto semplice: mantenere un’impronta coloniale efficace dal punto di vista dei costi e non permettere a nessuno di consolidare l’egemonia sul continente – quest’ultima poteva essere raggiunta attraverso un intervento prudente e il sostegno a coalizioni anti-egemoniche. La grande strategia americana è più o meno la stessa, con la differenza che ha una portata più globale. Mentre la Gran Bretagna svolgeva un’azione egemonica di negazione dell’area in Europa, l’America persegue un’analoga azione di contenimento e bilanciamento in Europa orientale, nel Golfo Persico e in Asia orientale, tutte allo stesso tempo. Ciò significa, in pratica, negazione strategica dell’area e prevenzione del consolidamento regionale nei confronti di Cina, Russia e Iran, gli Stati più potenti all’interno delle rispettive regioni.

È diventata una linea standard, naturalmente, condannare questa strategia di difesa americana come fondamentalmente cinica e sinistra, citando l’imperialismo americano, la sua ingerenza nei governi stranieri e lamentandosi della diffusione di una vuota cultura consumistica americana che atomizza le società. L’America viene spesso aborrita come un blob in eterna espansione, grigio e privo di caratteristiche, ma, allo stesso tempo, blasonato con gli sgargianti colori dell’arcobaleno.

Tale opposizione è comprensibile e molto condivisibile, ma dobbiamo riconoscere che il nucleo della strategia di difesa globale dell’America non è irrazionale, ma allineato con gli interessi critici americani, almeno per quanto riguarda gli obiettivi di più alto livello. L’Asia orientale, in particolare, rappresenta quasi il 40% del PIL mondiale ed è di gran lunga la regione più popolosa e industrializzata del mondo. Mentre l’America è fondamentalmente al riparo da attacchi fisici diretti, al sicuro dietro i suoi due oceani, un’egemonia cinese consolidata in Asia orientale potrebbe costringere gli Stati allineati con l’America a disaffiliarsi dagli Stati Uniti e a escludere o sfavorire l’America nei loro enormi mercati. Sebbene alcuni aspetti della politica estera americana siano certamente iperbolici, disarticolati e dannosi per la stabilità del mondo, ci sono pochi dubbi sul fatto che impedire il consolidamento egemonico in queste regioni critiche – Asia orientale, Europa e Golfo Persico – serva un interesse americano fondamentale e salvaguardi la possibilità di una vita prospera per gli americani e i loro alleati, libera da coercizioni ostili.

L’anima della grande strategia americana, come politica di negazione dell’area egemonica, è valida. La mia tesi, tuttavia, è che sia stata diluita da una sorta di decadimento della direzione strategica di Washington e che la NATO, in particolare, non sia più un elemento dell’architettura strategica americana.

L’incredibile rimpicciolimento della NATO

La caduta dell’Unione Sovietica aveva creato un momento unico nella storia del mondo, il primo caso di unipolarismo su scala mondiale, con gli Stati Uniti come ultimo e impareggiabile egemone. La possibilità che l’URSS potesse disintegrarsi senza spargimento di sangue non era affatto scontata e il fatto che il governo sovietico, pur armato fino ai denti e con il più grande apparato di sicurezza del mondo, avesse semplicemente permesso alle repubbliche del nucleo dell’Unione di staccarsi, rimane uno dei migliori colpi di fortuna della storia. Si era evitato un grande spargimento di sangue, anche se a scapito dei cittadini sovietici, che sarebbero stati cannibalizzati da un decennio di turbolenze economiche e di sconvolgimenti sociali.

Con l’Armata Rossa improvvisamente rimossa dallo scacchiere, non era chiaro quale fosse ora il fondamento strategico della NATO. Non era immediatamente ovvio che in Russia si sarebbe ricostituito uno Stato centrale forte e il temporaneo crollo dell’autorità di Mosca lasciava in palio il confine europeo dell’ex impero sovietico. Ma cosa farne?

Con il senno di poi, è chiaro che esistevano due potenziali percorsi per la NATO, che chiamerò rispettivamente Espandersi e trincerarsi e Mantenere e impegnarsi. La scelta tra questi due modelli si riduce, in ultima analisi, al fatto che la Russia fosse vista o meno come uno Stato intrinsecamente ostile, destinato a scontrarsi con il blocco americano, o che i russi fossero visti come un partner potenziale da riabilitare e con cui impegnarsi a condizioni favorevoli.

Se la Russia fosse realmente stata un avversario primordiale e un nemico predestinato in agguato sui confini dell’Europa, allora l’espansione della NATO a est, nei vecchi Paesi del Patto di Varsavia avrebbe avuto almeno un senso, come modo per espandere a basso costo il perimetro difensivo dell’Occidente e aumentare l’impronta americana. Paradossalmente, però, l’espansione della NATO era stata facilitata dalla percezione che la Russia non rappresentasse una seria minaccia militare. Offrire garanzie di sicurezza ai vicini della Russia sembrava una banale questione di promesse che non sarebbero mai state mantenute e un modo quasi a costo zero per mettere dietro un recinto dei russi ritenuti non pericolosi. La Russia poteva essere pacificata con una campagna diplomatica – il famoso “reset” di Obama – nello stesso momento in cui veniva chiusa in una scatola con l’espansione della NATO.

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Sergei Lavrov e Hillary Clinton celebrano il “reset” delle relazioni russo-americane

E così arriviamo al problema dell’espansione della NATO. Dal 1989, l’alleanza si è espansa rapidamente, portando i suoi membri da 16 a 32, un raddoppio nell’illusione che questo fosse un modo semplice ed economico per proteggere il fianco orientale dell’Europa. Tuttavia, sottovalutando la rinascita della potenza russa, la NATO ha involontariamente creato nuove difficili sfide per la sicurezza, nello stesso momento in cui si stava rapidamente disarmando.

Questo è il paradosso: mentre la NATO espandeva la sua impronta geografica, sia i membri esistenti che quelli nuovi riducevano radicalmente la loro preparazione militare. In molti degli attuali membri chiave, la spesa militare in percentuale del PIL è crollata a partire dagli anni Novanta. In Gran Bretagna è scesa dal 4,3% nel 1991 al 2,3% entro il 2020; in Germania il calo corrispondente è stato dal 2,5% a solo l’1,4%. Nel frattempo, i nuovi membri aggiunti al fianco orientale sono geograficamente indifendibili e pessimi contribuenti militari.

L’esempio principale, ovviamente, sono gli Stati Baltici, Lituania, Lettonia ed Estonia. Appollaiati in modo precario sul confine con la Russia, i Paesi Baltici sono i più esposti in caso di guerra *e* assolutamente incapaci di difendersi anche solo per un periodo di tempo simbolico. Le forze armate di questi tre Stati hanno una forza combinata di meno di 50.000 effettivi e praticamente nessun equipaggiamento pesante: attualmente, i Paesi Baltici non possiedono un solo carro armato pesante. Le simulazioni della NATO hanno concluso che i Paesi Baltici potrebbero essere spazzati via dalle forze armate russe nel giro di pochi giorni. Sebbene la guerra in Ucraina abbia certamente stimolato l’interesse dei Paesi Baltici ad aumentare la preparazione militare, questo processo procede a rilento: la Lettonia ammette che la costruzione di difese fisse al confine del Paese potrebbe richiedere fino a un decennio, mentre le consegne di nuovi sistemi come gli HIMARS sono previste per il 2027 o più tardi.

Potrebbe sembrare che io stia suggerendo che la Russia abbia attualmente l’intenzione di invadere i Paesi Baltici e di iniziare una guerra con la NATO. Non credo sia questo il caso. Il problema, piuttosto, è che il processo di espansione della NATO è stato molto disordinato e riflette una strategia che si è persa. L’espansione della NATO, che doveva essere un modo economico per spingere l’impronta strategica dell’America verso est, rischia ora di diventare un’enorme perdita di risorse.

L’essenza del problema è che la NATO ha scelto di espandersi e disarmarsi allo stesso tempo, con la conseguenza che l’espansione post-Guerra Fredda ha aumentato la probabilità di un conflitto con la Russia, incrementato l’esposizione geopolitica dell’America e, allo stesso tempo, ridotto  la preparazione del blocco americano a rispondere a tale eventualità. Washington aveva visto l’allargamento della NATO come un modo economico per espandere la propria impronta strategica in profondità nel vecchio spazio strategico sovietico, penetrando persino nelle ex repubbliche dell’Unione. Sfortunatamente, la maggior parte dei nuovi membri aveva considerato l’adesione alla NATO come un sostituto alla propria preparazione militare, confidando nella credibilità della deterrenza e nelle garanzie di sicurezza americane come in una panacea per la propria difesa. La preparazione militare del blocco europeo era stata lasciata deteriorare in modo sostanziale di fronte a un avversario russo apparentemente inattivo, mentre i nuovi membri confidavano che le garanzie di sicurezza americane avessero un valore deterrente unico e incontestabile.

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Un’alleanza militare come la NATO ad un certo punto richiede potenza militare

In definitiva, ciò riflette l’incoerenza interna sulla natura e sulla portata della minaccia posta dalla Russia. Se la Russia fosse stata effettivamente considerata una minaccia esistenziale per il fianco della NATO, l’espansione avrebbe potuto avere un senso nel contesto di un piano chiaramente definito per difendere quel fianco. Non ha senso nel contesto di un disarmo sistemico in Europa, mentre l’America affronta la prospettiva di un aumento degli impegni militari in Asia orientale.

Ecco perché, nonostante l’espansione fiduciosa e inesorabile dell’Alleanza verso est, essa si trova paradossalmente alle prese con un senso di crisi e vulnerabilità. È emersa la sensazione chiara e forte che, nei prossimi anni, potrebbe verificarsi un attacco russo ai Paesi Baltici, un modo in cui la Russia potrebbe tentare di mettere alla prova l’impegno della NATO alla difesa collettiva. La leadership baltica, che tende ad essere la più guerrafondaia del blocco, sembra frustrata dal fatto che i membri più occidentali della NATO non prendano sul serio la prospettiva di un attacco russo. I think tank di Washington, come l’Institute for the Study of War, scrivono ora con serietà di una guerra incombente con la Russia.

Tutto ciò è molto strano, e per diverse ragioni. Innanzitutto, l’idea centrale di tutto il moderno progetto della NATO è la credibilità differenziata del deterrente americano: l’idea che una garanzia di sicurezza americana (come l’articolo 5) precluda la possibilità di una guerra. I crescenti timori della leadership baltica che la Russia intenda mettere alla prova l’alleanza indicano l’implicita preoccupazione che questa credibilità differenziata americana stia venendo meno, a causa di un declino reale o percepito della disponibilità americana a combattere in Europa orientale. In parte, ciò sembrerebbe riflettere una diluizione della forza dell’articolo 5, parallela all’espansione della NATO verso est. Durante la Guerra Fredda, la disponibilità dell’America a combattere (o persino a usare armi nucleari) per difendere Bonn, Parigi, Amsterdam e Londra non era mai stata in dubbio. Nel 2024, ci sono ragioni concrete per mettere in dubbio l’appetito americano per una guerra continentale su larga scala per Riga o Tallinn. Forse i baltici si rendono conto di non essere mai stati importanti per gli americani.

L’altro aspetto strano della crescente paura nei confronti della Russia è l’apparente letargia e l’atteggiamento dispersivo della risposta dell’Europa. Le leadership militari delle tre nazioni più potenti d’Europa – Francia, Germania e Regno Unito – sono tutte esplicite riguardo alla loro impreparazione a combattere una guerra continentale ad alta intensità. Nonostante tali avvertimenti, gli sforzi per accelerare la preparazione militare sono in ritardo. La Germania non solo sta tagliando drasticamente gli aiuti all’Ucraina, ma sta anche respingendo le richieste delle sue stesse forze armate di aumentare la spesa. Il Regno Unito, quando si tratta di colmare le lacune nel suo piano di appalti, cerca di tirarla per le lunghe; gli investimenti francesi nella difesa continuano a dare la priorità a settori come lo spazio, la sicurezza informatica e la deterrenza nucleare a scapito delle forze convenzionali, indicando uno scarso interesse per una confronto di terra come quello che si sta svolgendo in Ucraina. Nel complesso, sembra esserci poca urgenza di aumentare la generazione di forze o di ringiovanire sistematicamente la produzione europea di armamenti, costosa e con limiti di scala.

Pertanto, mentre molti Stati europei hanno sfruttato gran parte del loro successo raggiungendo l’obiettivo di spesa della NATO pari al 2% del PIL, questo è diventato un numero simbolico, che non è direttamente correlato alla prontezza militare. Questa è una conseguenza naturale del degrado dell’industria degli armamenti europea, che si è costantemente deteriorata a causa della spesa bassa, degli ordini frammentari, della mancanza di mercati di esportazione e della concorrenza dei sistemi americani. Sebbene l’Europa abbia mostrato almeno una certa motivazione nel voler garantire la produzione interna di armamenti, la difficoltà di coordinamento intergovernativo e la mancanza di scala (con i singoli stati che effettuano ordini piccoli e sporadici) rendono tutto ciò difficile.

Di conseguenza, nonostante tutta la retorica sul ringiovanimento della base di difesa europea, l’Europa è molto indietro rispetto ai suoi obiettivi di produzione di materiale critico, come i proiettili di artiglieria per l’Ucraina. Quando si tratta di costruire le proprie scorte, l’Europa mostra ancora una preferenza per i sistemi americani, ordinando, ad esempio, i sistemi di difesa aerea Patriot piuttosto che gli autoctoni europei SAMP-T. La Polonia, nella sua corsa all’acquisto di artiglieria missilistica, sta dividendo i suoi soldi tra il sistema coreano e quello americano. Nel complesso, la spesa europea ha semplicemente contribuito a un’impennata delle esportazioni americane. Meno della metà degli armamenti europei viene effettivamente fabbricata all’interno dell’UE.

Questo è molto importante. Non è, in particolare, che ci sia qualcosa di sbagliato nei sistemi americani. Gli armamenti americani sono di livello mondiale, nonostante la loro [scarsa] performance in Ucraina (che ha molto a che fare con il caso d’uso unico delle AFU). Il problema della dipendenza dai sistemi americani è la disponibilità e il sostegno. La guerra in Ucraina ha già dimostrato che l’America non può essere un arsenale universale e senza fondo per i suoi satelliti; abbiamo già visto ordini rinviati e spedizioni dirottate, mentre gli Stati Uniti sono costretti a fare difficili scelte sulle priorità dei vari teatri. L’Ucraina è servita come una sorta di perfetto caso di studio delle difficoltà che l’Europa potrebbe affrontare nel tentativo di sostenere da sola una guerra continentale. In ogni caso, nell’eventualità di una guerra europea su larga scala che coinvolga la Russia – per non parlare di un’azione cinetica nel Mar Cinese Meridionale – l’industria europea sarebbe chiamata a fare un grosso sforzo, e i risultati finora non sono incoraggianti. Le munizioni e le armi non sono nemmeno l’unica carenza strategica; i “facilitatori critici” dell’Europa, come l’ISR, la logistica, il trasporto aereo e altri elementi di supporto, sono molto al di sotto di un livello soddisfacente.

Tutto ciò per dire che nel cuore della NATO ci sono contraddizioni turbolente. L’alleanza ha scelto di espandersi rapidamente e, allo stesso tempo, ha sistematicamente disarmato, assumendo una posizione provocatoria e contraddittoria nei confronti della Russia mentre, contemporaneamente, declassava la propria prontezza militare, bellicosa ma impreparata. Ora c’è un crescente allarme che uno scontro tra NATO e Russia possa essere all’orizzonte, ma i membri europei dell’alleanza stanno trascinando i piedi sul riarmo. Alla fine, la NATO si è trasformata in un blocco geopoliticamente schierato contro la Russia, ma non disposto a prepararsi materialmente alle potenziali conseguenze, proiettando la sua impronta direttamente fino al confine russo senza considerare cosa potrebbe accadere dopo.

La decisione di espandere l’alleanza lasciando che la sua prontezza militare si deteriorasse si integra perfettamente con la crisi in corso in Ucraina – infatti, l’Ucraina è diventata il luogo e l’archetipo dell’attuale stato di disordine strategico della NATO.

Il pantano ucraino

La guerra in Ucraina dura ormai da quasi due anni e mezzo. Questo è un tempo più che sufficiente per riflettere sulla logica strategica più ampia del conflitto. Tuttavia, la leadership occidentale continua a dare risposte contraddittorie a una domanda elementare: l’esito della guerra russo-ucraina è esistenziale per la NATO? A seconda di chi e quando lo si chiede, gli interessi della NATO (o, più specificamente dell’America) in Ucraina sono presentati in vari modi e, generalmente, seguono tre binari diversi.

Nella variante più tattica e cinica della storia, l’Occidente ha sostenuto l’Ucraina perché rappresentava un’opportunità per logorare un avversario senza mettere in pericolo i soldati occidentali. Questa è la versione mercenaria della storia, una versione in cui le AFU possono essere schierate sul campo di battaglia per distruggere quanti più veicoli russi e uccidere quanto più personale russo possibile. Questo ha il sapore di un calcolo strategico opportunistico e freddo, ma certamente non inquadra l’Ucraina come un campo di battaglia esistenziale per l’Occidente. Un’altra versione della storia riformula il conflitto ucraino come un’estensione della vecchia teoria del contenimento della Guerra Fredda. È dovere dell’Occidente, evidentemente, difendere le “democrazie” contro un blocco percepito di stati totalitari, in una dimostrazione di deterrenza.

La terza risposta è la più interessante, e la più fantasmagorica. Questa è la storia che descrive l’Ucraina come un baluardo e uno stato barriera per la NATO. La Russia deve essere fermata in Ucraina, si sostiene, perché, se la Russia riuscisse a conquistare gran parte (o tutta) l’Ucraina, sicuramente attaccherebbe la NATO. Questa è una brutta notizia, perché se la NATO e la Russia entrassero in una guerra aperta, probabilmente si scatenerebbe una guerra nucleare. Pertanto, la vittoria ucraina è esistenziale non solo per gli stessi ucraini, o anche solo per la NATO, ma per tutta l’umanità. L’Ucraina è l’ultima linea di difesa che impedisce una probabile guerra nucleare. Questo è un argomento che è stato ripreso seriamente da molte figure sia della leadership occidentale che della sfera analitica, tra cui l’ISW e la testa parlante preferita di Internet, Peter Zeihan. Questo è l’argomento che sta alla base di tutta la retorica che paragona Putin a Hitler: l’idea è che “Putler” continuerà la sua furia se non verrà fermato in Ucraina, ma, visto che, a differenza di Hitler, possiede un arsenale nucleare, quando scenderà nel bunker, potrà portare il mondo con sé. O comunque qualcosa.

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Joe Biden e il “Presidente Putin”

È tutto un po’ blasé, ovviamente. Ma la confusione nel definire effettivamente gli interessi della NATO in Ucraina (stanno cercando di salvare il mondo o semplicemente di degradare l’esercito di un avversario?) indica un modello contraddittorio più ampio, quello del ruolo dell’Ucraina nei confronti dell’alleanza. Spiccano in particolare due elementi: le continue promesse di un percorso ucraino verso l’adesione alla NATO e la riluttanza a negoziare una soluzione che ceda territorio ai russi. Esaminiamoli uno dopo l’altro.

Al recente vertice della NATO a Washington DC, la maggior parte dell’attenzione è stata rivolta alle chiacchiere incoerenti, agli errori e all’incapacità del presidente Biden di formulare correttamente frasi inglesi riconoscibili – in particolare la sua presentazione del presidente ucraino Zelenskyj come “presidente Putin”, tra applausi fragorosi e confusi. Ma, in mezzo alle chiacchiere, il vertice ha riconfermato l’impegno della NATO nei confronti dell’eventuale e inevitabile adesione dell’Ucraina al blocco.

Ad un certo livello, questo è comprensibile. L’adesione dell’Ucraina alla NATO è uno dei motivi per cui la Russia è scesa in guerra e Mosca ha sempre voluto una garanzia contro l’adesione dell’Ucraina come condizione per la pace. Non è difficile immaginare il motivo per cui la NATO continua a sottolineare il proprio impegno nei confronti dell’Ucraina, per evitare di dare l’impressione che possa essere facilmente dissuasa dalla Russia.

Ad un livello più pragmatico, tuttavia, la logica dell’adesione dell’Ucraina alla NATO è molto ingarbugliata. A questo punto della guerra, gli Stati Uniti hanno praticamente superato tutte le linee rosse che si erano prefissati in precedenza: hanno inviato carri armati Abrams dopo che il Pentagono inizialmente lo aveva escluso, hanno aperto la strada agli F-16, e consegnato ATACMS. Lo schema è chiaramente quello di spuntare lentamente (più lentamente di quanto gli ucraini vorrebbero) ma sicuramente tutte le voci sulla lista dei desideri dell’Ucraina, dopo un periodo iniziale di rifiuto e di ritardi.

L’unica linea rossa che Washington ha costantemente rispettato, tuttavia, è quella di evitare il coinvolgimento americano diretto e formale sul campo (nonostante i vari addestratori, consulenti e appaltatori americani non dichiarati). Biden è stato particolarmente chiaro sul fatto che l’America non può giustificare il fatto di “combattere la Terza Guerra Mondiale” in Ucraina. Il problema qui è un senso contraddittorio e indefinito della posta in gioco. La NATO ha comunicato, in termini abbastanza inequivocabili, che non è disposta a combattere una guerra aperta con la Russia e a rischiare uno scambio nucleare annientatore sull’Ucraina. Ma, promettendo un’eventuale adesione di Kiev alla NATO, stanno segnalando che sarebbero disposti a farlo in futuro.

Non è chiaro come conciliare queste posizioni. L’America, portando l’Ucraina sotto l’ombrello dell’articolo 5, si è sostanzialmente impegnata a lasciare nelle mani di Kiev la possibilità di un’escalation nucleare e il coinvolgimento in un’ipotetica guerra futura con la Russia, insistendo allo stesso tempo sul fatto che non è disposta a combattere una guerra del genere ora, mentre esiste una minaccia cinetica immediata per l’Ucraina. Non è ovvio il motivo per cui potrebbe valere la pena combattere una guerra catastrofica domani, ma non oggi. Se sconfiggere la Russia in Ucraina e mantenere la linea di contatto sui confini dell’Ucraina nel 1991 è davvero un interesse esistenziale americano, allora perché adesso l’America si sta trattenendo?

Inoltre, insistere su un percorso postbellico dell’Ucraina verso l’adesione alla NATO altera il calcolo della guerra attuale in una miriade di modi. Insistere su una futura adesione dell’Ucraina incoraggia il massimalismo russo: se Mosca si rassegnasse all’idea che tutto ciò che resta dell’Ucraina dopo la guerra finirebbe per entrare nella NATO, probabilmente penserà che dovrebbe rendere lo Stato ucraino monco e il più distrutto e neutralizzato possibile. Poiché l’adesione alla NATO richiede che, prima di entrare nell’alleanza, i potenziali candidati risolvano tutte le loro controversie territoriali attive, la Russia ha una leva diretta per ritardare e affondare il percorso dell’Ucraina verso l’adesione mantenendo acceso il conflitto.

In effetti, le ripetute promesse all’Ucraina di adesione alla NATO dopo la guerra hanno creato una serie di incentivi strategici negativi sia per l’Ucraina che per la NATO, dal momento che è difficile capire esattamente perché il blocco occidentale dovrebbe essere così ansioso di ammettere un uno Stato ucraino distrutto e fallito con intrattabili tendenze revansciste anti-russe. Inoltre, Mosca considererebbe sicuramente questo residuo dell’Ucraina come il punto debole nella prima linea nella NATO e un luogo ideale per sondare e testare l’impegno dell’America nei confronti dell’Articolo 5.

La NATO si è messa in questa situazione a causa della sua mentalità espansionistica eccessivamente impaziente e negligente: avendo prematuramente promesso all’Ucraina l’adesione alla NATO già nel 2008, l’Occidente non può ritirare formalmente i suoi impegni senza minare la propria credibilità, per non parlare della reazione negativa di un’Ucraina tradita e rovinata, che probabilmente uscirebbe del tutto dall’orbita occidentale.

Arriviamo così all’attuale crisi ucraina. La NATO si è allargata con leggerezza verso est, offrendo garanzie di sicurezza a buon mercato, spingendosi fino al confine russo, acquisendo i Paesi Baltici e facendo promesse all’Ucraina, proprio nel momento in cui si disarmava sistematicamente. Ora, di fronte al contrattacco dei russi, l’Occidente – l’America in particolare – non sembra essere in grado di decidere se valga davvero la pena lottare per questi luoghi. L’espansione della NATO come meccanismo a basso costo per spingere l’impronta americana in profondità nel vecchio spazio sovietico aveva senso; l’espansione della NATO come onere che impone all’America e all’Europa occidentale di prepararsi per una guerra terrestre in Ucraina e nei Paesi Baltici non ha alcun senso.

Washington è intrappolata in un vincolo cieco creato da lei stessa, creato da decenni di emissione di assegni che preferirebbe non onorare. Si è impegnata a combattere la “Terza Guerra Mondiale” per Tallinn e Riga, qualora se ne presentasse la necessità, e ha promesso di estendere tali garanzie anche a Kiev in futuro. Ma, di fronte a una guerra continentale ad alta intensità nel Donbass, ci sono sempre più ragioni per dubitare della volontà americana di rischiare davvero tutto per queste posizioni remote e strategicamente deboli, in particolare perché la crescente forza della Cina promette di risucchiare sempre più la limitata potenza militare dell’America nel teatro dell’Asia orientale, mentre i principali partner europei la tirano per le lunghe sulla preparazione militare.

Alla fine, l’Ucraina diventa il simbolo e l’archetipo della discrepanza tra le promesse della NATO e la base materiale del suo potere. Sono trascorsi ormai 16 anni da quando a Kiev era stata presentata per la prima volta la prospettiva di un’adesione alla NATO. Ma cosa hanno ottenuto realmente? Una rete elettrica distrutta, la perdita del 20% del loro territorio (finora) e centinaia di migliaia di morti, feriti o dispersi. L’Ucraina, forte di 45 milioni di abitanti, che aveva ricevuto quelle nobili promesse tanto tempo fa è ora un guscio distrutto e malconcio con forse 25 milioni di cittadini rimasti. Dalla NATO gli ucraini ricevono troppe parole e troppo pochi proiettili, veicoli e intercettori per la difesa aerea.

Dopo tutto, la NATO è un’alleanza militare. Quando era stata creata, il duro calcolo delle divisioni, il numero di truppe e le minuzie operative erano un elemento fondamentale della sua costruzione. La Germania Ovest era stata inserita nell’alleanza non per la retorica sulla democrazia e l’amicizia, ma a causa della necessità di mobilitare le risorse umane e la capacità industriale della Germania occidentale e il desiderio di difendere i territori ad est del Reno, una politica assai diversa da quella che ha portato all’ingresso dei Paesi Baltici e che non comporta alcun vantaggio strategico. Ciò di cui la NATO ha bisogno ora non è un altro membro, un altro impegno di sicurezza senza contributo nello spazio strategico russo, ma una buona dose di realismo.

Big Serge

Fonte: bigserge.substack.com
Link: https://bigserge.substack.com/p/nato-at-the-crossroads
19.07.2024
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

[*] “The ’80s Called” era una pubblicità televisiva prodotta da GSD&M per RadioShack trasmessa durante il Super Bowl XLVIII, il 2 febbraio 2014. Da Wikipedia.

 

 

 

 

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