DI MIKE WHITNEY
Uruknet
“Dobbiamo tenere presente che l’imperialismo è un sistema globale, l’ultimo stadio del capitalismo — e deve essere sconfitto in uno scontro mondiale. Il fine strategico di questa lotta dovrebbe essere la distruzione dell’imperialismo. La nostra parte, la responsabilità degli sfruttati e dei sottosviluppati del mondo, è di eliminare le fondamenta dell’imperialismo: le nostre nazioni oppresse, da dove estraggono capitale, materie prime, tecnici e lavoro a basso costo e nelle quali esportano nuovo capitale-strumenti di dominio-armi e tutti quei tipi di articoli, sommergendoci così nella dipendenza assoluta”.
— Ernesto Che Guevara
Mentre i critici della guerra in Iraq sono rapidi a far notare che l’occupazione USA non ha successo, esitano a trarre l’ovvia conclusione che la resistenza irachena sta vincendo. Osservazioni come questa sono equivalenti al tradimento e quindi proibite nei media dell’establishment. L’idea dell’invincibilità statunitense è un mito alimentato così attentamente che viene difesa in tutte le fonti d’informazione ed in tutti i momenti. Persino se le truppe Usa venissero prese sul fatto a gettare i loro elicotteri nell’Eufrate mentre fuggono frettolosamente da Baghdad, i media “embedded” ne traviserebbero il significato per farlo sembrare un “ridispiegamento strategico”.Non vi è nulla di nuovo riguardo ai pregiudizi dei media, ma il loro effetto sulla guerra in corso è stato insignificante. Il rivolgimento della verità da parte dei media non può alterare la realtà sul terreno ed il fatto è che i militari Usa vengono battuti piuttosto seriamente. Hanno scontri violenti con un nemico scaltro che ha neutralizzato i loro vantaggi in termini di
potenza di fuoco e tecnologici, oltre ad aver limitato il loro campo di movimento. E’ traumatizzante pensare che, dopo quasi quattro anni di sanguinoso conflitto, le forze di occupazione non controllano ancora “nessun terreno” oltre i minacciosi muri protettivi della Zona Verde. Questa è una sbalorditiva ammissione di sconfitta.
Secondo ogni standard oggettivo, gli Usa stanno perdendo la guerra in Iraq. Tuttavia, le disgrazie degli Stati Uniti non sono semplicemente il risultato di sbagli amministrativi o di una strategia pasticciata, ma l’effetto inevitabile di un avversario scaltro e feroce che colpisce inaspettatamente e quindi si nasconde tra la popolazione. Come disse Mao Tse-tung, “Il guerrigliero deve muoversi tra il popolo come un pesce nuota nel mare”. La resistenza irachena ha gestito questa impresa con maggiore abilità di quanto ci si aspettasse.
I criteri per sconfiggere una guerriglia sono ben noti. L’esercito di occupazione deve instaurare rapidamente la sicurezza per ottenere l’appoggio della popolazione in generale. E’ per questo che vincere “i cuori e le menti” è un compito così critico. Se l’occupazione è largamente impopolare, allora la ricostruzione e la sicurezza diventano impossibili e cresce rigogliosamente la lotta armata. Ora che l’80% del popolo iracheno dice che vuole vedere un rapido ritiro delle truppe statunitensi, possiamo stare certi che la vittoria, in ogni senso convenzionale della parola, è fuori questione.
La guerra di guerriglia in Iraq ha raggiunto un nuovo livello di complessità. Dopo quasi quattro anni, sappiamo poco della resistenza e dei suoi metodi operativi come all’epoca dell’invasione. Vi è un comando centrale o solamente delle piccole cellule indipendenti? Come comunicano tra di loro? Ha fonti affidabili di armamenti ed esplosivi? Quali sono le sue fonti di finanziamento? Quanti uomini sono nella resistenza? Quante donne? Vanno in giro per il paese o stanno in un territorio? Vi sono donatori stranieri o si sostiene da sola? Quanto intensamente è impegnata la popolazione nell’appoggio alle attività della resistenza?
Senza conoscere le risposte a queste domande, gli Stati Uniti, con tutti i loro dispositivi di sorveglianza high-tech, sono soltanto un gigante che si muove pesantemente incespicando inutilmente attorno. La dipendenza dal rastrellare e torturare “uomini in età da militare” (MAMs) per assumere informazioni sulle attività e le reti della resistenza ha fallito completamente, galvanizzando il popolo contro l’occupazione ed erodendo la pretesa statunitense di superiorità morale.
La guerra di guerriglia è una guerra d’attrito; il costante, inesorabile logorio delle forze e del morale del nemico. L’obiettivo è attivare diverse strategie asimmetriche per mantenere costantemente instabile e sulla difensiva l’esercito di invasione. La guerriglia deve continuare a sondare le vulnerabilità selezionando le potenziali debolezze mentre attua un programma di sabotaggio e sotterfugio. Come consigliò Mao, “Ritiratevi quando il nemico avanza, attaccatatelo ripetutamente quando si ferma, colpitelo quando è stanco, inseguitelo quando si ritira”.
L’effetto complessivo di questa strategia è già evidente. Gli obiettivi della missione sono divenuti vaghi e confusi, le truppe sono sempre più demoralizzate e non vi è nessun criterio chiaro per la riuscita. In base a queste circostanze, incrementare gli effettivi è un atto di pura disperazione. La “vittoria” non è possibile quando nessuno ha un’idea chiara su quello che vittoria significhi. E’ questo il problema nel fare una guerra semplicemente per estorcere la ricchezza e le risorse da un altro paese. Alla fine la maschera dell’ideologia scivola e tutti possono capire la vera natura dell’inganno.
In occidente vi è la tendenza a minimizzare le imprese della resistenza irachena, ma nessuno può discuterne i risultati. Con armamento e risorse limitati, ha aggirato, superato in strategia e completamente sconcertato la macchina da guerra meglio addestrata, meglio equipaggiata, più high-tech che il mondo abbia mai visto. Questo è un ottimo risultato. Penso che molti alti ufficiali Usa ammirino segretamente l’efficacia del loro nemico. Esso ha cominciato una battaglia impressionante in circostanze molto difficili e ha perseverato nonostante chiari svantaggi nelle comunicazioni, nella logistica, nella potenza di fuoco, nella propaganda, nella mobilità e nei rifornimenti. Con il più rudimentale equipaggiamento di armi ed esplosivi, è andato faccia a faccia con l’unica superpotenza mondiale e le ha imposto uno stallo.
In verità, la resistenza irachena è riuscita dove il Congresso, le Nazioni Unite ed i milioni di pacifici cittadini contrari alla guerra in tutto il mondo hanno fallito: ha fermato di colpo il mostro di Bush.
La scorsa settimana il ten. gen. Michael Maples ha ammesso che gli attacchi della resistenza sono aumentati “di portata, letalità ed intensità”. Ora gli attacchi alle forze Usa sono arrivati ad un enorme 180 al giorno, quasi il doppio della cifra di soltanto un anno fa. La lotta armata cresce chiaramente ogni giorno.
Allo stesso tempo, per Bush i problemi continuano ad aumentare. Il suo esercito è stiracchiato fino al punto di rottura, i conflitti settari sono in crescita ed il governo di Al-Maliki non è riuscito a sciogliere le milizie o ad ideare una strategia per stabilire la sicurezza oltre la Zona Verde.
Nessun elemento dell’occupazione ha avuto successo.
Il piano di Bush per l’Iraq è destinato al fallimento perché è fondato su una logica difettosa. La forza schiacciante e la violenza estrema non producono soluzioni politiche, solamente più spargimento di sangue. L’Iraq non è la striscia di Gaza.
Per gli Stati Uniti l’unica soluzione è dichiarare un immediato cessate il fuoco, richiedere negoziati con i capi della Resistenza Nazionale Irachena, organizzare un incontro tra i principali gruppi (sunniti, sciiti e curdi) ed accordarsi in linea di massima per il ritiro completo di tutte le truppe statunitensi.
Persino a questa tardiva data, vi è riluttanza tra i sapienti conservatori ed ugualmente tra liberali a riconoscere che si deve trattare con la resistenza – sostenuta dai sunniti e guidata da baathisti – e portarla al tavolo delle trattative.
I negoziati con la Resistenza irachena sono il “primo passo” sulla strada di una soluzione politica.
“Mantenere la rotta”, “ritiro graduale” o persino incontri con le altre potenze regionali (come Siria ed Iran) sono meramente rimedi superficiali che non mirano alla questione centrale. Gli Stati Uniti hanno bisogno di fare un accordo con gli uomini che “portano i fucili ed impacchettano gli esplosivi”, sono quelli che combattono questa guerra e sono gli unici che decideranno i termini di una composizione politica.
Se dei negoziati avranno luogo ora o tra cinque anni dipende interamente da George Bush, ma il risultato della guerra è già certo. Le ambizioni imperiali di Bush sono state mandate in frantumi da una piccola schiera di dediti nazionalisti iracheni. Questi hanno bloccato la rotta per Teheran e Damasco, ed aperto la strada alla liberazione del loro paese.
Mike Whitney vive nello stato di Washington. Si può contattare a: [email protected].
Versione originale
Mike Whitney
Fonte: http://www.uruknet.info/
Link: http://www.uruknet.info/?p=28459
22.11.2006
Versione italiana
Fonte: http://freebooter.da.ru/
Link: http://freebooter.interfree.it/gdmit.htm