PREMESSA: questo è un articolo di congetture. Congetture inevitabili quando si parla di possibili connessioni tra avvenimenti diversi, che non possono che essere occulte, pena la loro neutralizzazione, ma che possono essere intraviste se si analizzano i fatti con una certa chiave interpretativa. Il post che segue è, appunto, una prova, un tentativo di fornire una possibile chiave interpretativa ad alcuni fatti apparentemente sconnessi fra loro riguardanti ciò che accade nel così detto “occidente” a proposito delle recenti proteste contro Israele.
Gli scenari internazionali sono, come molte altre cose connesse alla modernità, estremamente complessi e come tali vanno analizzati, senza mai perdere di vista le connessioni (a volte occulte, a volte meno) che legano le diverse parti ed i diversi livelli del sistema. Il che fa il paio con il concetto di “guerra totale” o “guerra ibrida” : in generale, è corretto affermare che virtualmente non esistono campi in cui un nemico non possa essere colpito, e – parlando più in generale – non esistono modi in cui non si possa cercare di spingere una situazione verso la direzione voluta.
Con questa chiave di lettura credo possano essere più facilmente letti alcuni fenomeni accaduti nel corso delle ultime settimane e che, apparentemente, non trovano una spiegazione coerente o univoca all’interno delle logiche geopolitiche evidenti, soprattutto dove queste sembrano presentarsi nel modo più granitico. Mi riferisco alle numerose iniziative contrarie all’occupazione israeliana di Gaza che stanno avendo luogo a tutti i livelli in Occidente: dalle manifestazioni spontanee
agli studenti che occupano le Università, dai Paesi Europei (Irlanda, Norvegia e Spagna) che, pur inseriti dentro il blocco NATO-UE, riconoscono ufficialmente la Palestina, al Brasile che ritira l’ambasciatore a Tel Aviv. Un discorso a parte merita l’iniziativa della Corte di Giustizia dell’Aja, “innescata” a gennaio dalla denuncia del Sudafrica e sfociata nella sentenza di condanna per reato di Genocidio con conseguenti Mandati di Cattura verso i maggiori esponenti delle due parti in conflitto, sostenuta in vario modo da diversi paesi vicini al “blocco occidentale”, ultimo dei quali il Messico, dove pochi giorni fa hanno avuto luogo diverse manifestazioni spontanee di protesta davanti all’ambasciata di Israele e subito dopo è arrivata la “Dichiarazione di Intervento” del governo, con cui il paese centroamericano si unisce ufficialmente alla causa in corso per fornire le proprie considerazioni.
Tutto ciò è solo frutto della reazione – vivaddìo umana – di singole entità o gruppi alla brutalità e smaccata violenza delle azioni Israeliane, o c’è dell’altro? La prova più evidente della probabile presenza di “altro” deriva da due fattori, di cui il secondo è in buona parte conseguenza del primo:
- la risonanza mediatica che queste iniziative stanno avendo in tutti i paesi occidentali;
- la differenza tra le reazioni alla violenza di Israele verso i palestinesi e le reazioni alle ripetute e spesso altrettanto smaccate violenze di parte Ucraina verso le popolazioni russofone del Donbass dal 2014 al 2022.
Il punto nodale, in vicende come questa, sta principalmente nell’atteggiamento dei media mainstream. Sono i media a decretare l’importanza o meno di un fenomeno; un esempio per tutti: perché Greta Thunberg, a un certo punto, sproloquiava in tutti i TG? Oggi, alla luce delle pressioni e delle forzature a cui stiamo assistendo in tutto il mondo (ma in particolare nella UE) per imporre la così detta “transizione ecologica” è ormai evidente il perché di quel risalto. Quindi, tornando a noi, perché vediamo adesso così diffusamente esposte in TV le manifestazioni nelle Università (americane e non), o perché troviamo con così tanto risalto riportate le notizie sulle decisioni della Corte di Giustizia dell’Aja, ma solo per quanto riguarda Benjamin Netanyahu, mentre nulla si dice della speculare condanna emessa per i vertici di Hamas?
L’ipotesi delle nostre congetture è che questi non siano altro che episodi di un tentativo di “guerra ibrida” condotta dall’Occidente a guida USA contro Israele, che in questo momento si presenta più “scheggia impazzita” che alleato. Al contrario dei neonazisti ucraini, che invece hanno agito dal 2014 e agiscono tuttora nel silenzio (quando non addirittura nel plauso) dei più, proprio perché funzionali al disegno strategico principale del blocco Euroatlantico. Certo, al momento sembra anche esserci una crudeltà e virulenza molto maggiore da parte di Israele che non degli ucraini, ma si tratta per lo più di una questione di rapporti di forza: i russofoni del Donbass non sono finiti come i palestinesi, perché si è mossa la Russia, mentre con i palestinesi, a livello ufficiale, non c’è nessuno. A riflettori spenti, e fino all’intervento russo, sono state decine di migliaia anche in Donbass le vittime degli attacchi ucraini alla popolazione civile, bambini compresi. Sono stati uccisi operatori umanitari e giornalisti, anche occidentali (ad esempio, il fotoreporter italiano Andy Rocchelli, per il quale non ci sono bandieroni gialli sui balconi dei municìpi); abbiamo avuto alti esponenti, perfino capi di governo ucraini dichiarare pubblicamente che i bambini del Donbass avrebbero dovuto crescere nelle cantine per evitare i bombardamenti. Ma i riflettori si sono accesi solo su Gaza. Perché? Se sui canali ufficiali tutti si dichiarano amici di Israele, evidentemente ciò che il governo Netanyahu sta portando avanti non fa affatto piacere ai propri alleati, a differenza di quanto accadeva in Donbass per mano ucraina. E ciò depone in favore del fatto che, con tutta probabilità, a differenza del fronte ucraino, quanto sta avvenendo a Gaza è lungi dall’essere stato in qualche maniera concordato con gli alleati, Stati Uniti in primis.
L’attacco palestinese del 7 ottobre, del resto, ha presentato numerosi punti oscuri, analizzati, tra gli altri, da Roberto Jannuzzi nel suo libro in uscita, a partire dalla Domanda, con la “D” maiuscola, ovvero: come ha potuto lo stato più militarizzato del mondo, che vende tecnologie di Intelligence a decine di altri paesi, dotato di un servizio segreto ai limiti dell’onnipotenza, non accorgersi di quello che si stava preparando sotto il proprio naso in una fetta di territorio decisamente piccola e sotto il suo completo controllo da anni come la Striscia di Gaza? Le anticipazioni del libro raccontano, con dovizia di particolari ciò che molti analisti avevano sospettato fin dal primo momento: i preparativi di Hamas, durati a lungo, erano stati ampiamente notati e segnalati dal personale israeliano sul campo e dai servizi di intelligence, ma i report che ne scaturivano venivano sistematicamente ignorati dai vertici, sia del Mossad che del governo di Gerusalemme. Superficialità oppure, più probabilmente, qualcuno ha preferito “lasciar accadere” quello che andava preparandosi nella Striscia di Gaza per avere poi mano libera per fare quello che oggi vediamo chiaramente? O addirittura, ci sono state connivenze più o meno esplicite tra le due parti, in nome di un comune interesse a farsi la guerra, chi per ragioni elettorali interne, chi per la propria sopravvivenza e credibilità tra il proprio popolo, all’alba – racconta Jannuzzi – di un possibile accordo tra Israele ed Arabia Saudita spinto dagli USA in chiave anti-iraniana che avrebbe definitivamente messo in secondo piano il problema palestinese dando via libera ai piani di Netanyahu? Del resto, che negli anni passati più di un alto esponente israeliano abbia apertamente dichiarato che Hamas andava sostenuta nei suoi momenti di difficoltà è un fatto noto e che un obiettivo mai del tutto nascosto di parte della leadership del paese fosse quello di arrivare a quel tipo di “soluzione” con Gaza è altrettanto noto. Quindi, perché fermare qualcosa che, in fondo, molti da una parte e dall’altra speravano che accadesse? Se non capisci perché è accaduto qualcosa, aspetta e vedi quel che accade dopo, si dice: qui nel “dopo” sta accadendo un genocidio. Che Netanyahu e i suoi lo volessero è fatto certo; che lo volessero gli Stati Uniti e, più in generale, l’Occidente, è molto meno certo, anzi. L’attacco di Hamas e la successiva invasione di Gaza da parte Israeliana hanno di fatto congelato i piani di Washington nella regione, rendendo impossibile per il momento la “normalizzazione” arabo-israeliana che si andava prospettando. Per questo non è affatto improbabile che i fatti di cui abbiamo parlato costituiscano il modo “ibrido” con cui da questa parte si cerca di fermare uno stato di Israele ormai fuori controllo.
Al tavolo delle trattative, gli appelli e le richieste del Segretario di Stato americano Blinken vengono apertamente ignorate dagli israeliani, e a nulla sembrano valere le minacce di far cessare il flusso di forniture militari e non che giungono a Gerusalemme, anche perché alle minacce non è seguita finora alcuna iniziativa concreta. E non parliamo, per carità di patria, della totale irrilevanza italiana, ma più in generale europea su questo fronte (eppure Gaza sta sul Mediterraneo: una volta questo voleva dire qualcosa anche per noi…). Quindi, avranno pensato a Washington, non resta che far salire la così detta “pressione internazionale” su Israele in altre maniere, ad esempio dando via libera ai media per mostrare tutti gli episodi di violenza che è possibile documentare, oppure muovendo i canali sotterranei per far partire in patria e nei paesi amici proteste giovanili, occupazioni delle università; ma allo stesso tempo, far partire iniziative ufficiali dei paesi-satellite a cui viene dato – più o meno esplicitamente – il via libera. Così prima il Sudafrica fa partire la denuncia alla Corte dell’Aja, poi tre paesi europei riconoscono la Palestina, poi il Brasile ritira l’ambasciatore, mentre il Messico rincara la dose etc etc.
La sentenza della Corte dell’Aja è emblematica di questo tipo di pressione: una dichiarazione giuridicamente irrilevante (giusto o sbagliato che sia, né Israele né gli Stati Uniti hanno mai riconosciuto quel tribunale, che quindi non ha giurisdizione su di loro) viene riportata solo per la parte israeliana e viene strombazzata per giorni, mentre sui social girano a più riprese video shock delle violenze dell’esercito israeliano sulla popolazione inerme a Rafah (non difficili da trovare purtroppo). Se non è “pressione” questa…
Al momento neppure questo canale sembra particolarmente efficace, ma gli effetti di queste azioni trasversali si misurano solo col tempo; queste cose non spaccano, ma logorano; la sensazione è che, non essendoci – a differenza dell’Ucraina – prospettive di una effettiva sconfitta militare sul campo (non c’è stato e non ci sarà nessun intervento militare di paesi arabi, come probabilmente sperava Hamas) Israele cambierà strada solo in presenza di un cambiamento di leadership, interno o oltreoceano, che porti ad un netto rifiuto della soluzione “Cartagine 2.0” attualmente perseguita. La strada del progressivo riconoscimento della Palestina come entità internazionalmente dotata di diritti è forse senza alternative – sic rebus stantibus – volendo escludere come assurda l’ipotesi cara a Netanyahu della totale sparizione dei palestinesi dalla regione, e quindi alla fine in un modo o nell’altro si realizzerà.
Il come e il quando non sono attualmente prevedibili, ma ogni giorno la strada si allunga. Come la lista dei morti nella Striscia di Gaza.