JOHN DEWEY E LA SCUOLA ITALIANA

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Una catena di montaggio o un laboratorio di democrazia? John Dewey e la scuola italiana

DI DOMENICO CORTESE

filosofiadeldebito.it

 

Il rituale mediatico annuale degli esami di maturità, delle notizie sulle tracce scelte dal Ministero, sul rincorrersi di consigli paternalistici imposti agli studenti impone, perlomeno, di riflettere sull’unico dato sensibilmente originale che il tema ci offre quest’anno: la notizia per cui pare che questo sia il penultimo anno in cui l’alternanza Scuola-Lavoro non faccia parte attivamente del colloquio finale. Dall’anno 2018-2019 «nell’ambito dell’esame orale infatti, il candidato “espone, mediante una breve relazione e/o un elaborato multimediale, l’esperienza di alternanza scuola-lavoro svolta nel percorso di studi”, come stabilisce il nuovo D.L.vo 13 aprile 2017 n. 62, che entra in vigore dal 31/5/2017».

Le critiche all’innovazione più “originale” del disegno di legge sulla così detta Buona Scuola sono diverse. Ma non affronteremo qui quelle puramente economiche – secondo cui i tirocini formativi sarebbero un pretesto per “svalutare” ancora di più il costo del lavoro. Affrontiamo il lato più sottile: quello socio-pedagogico. Le esperienze raccontate finora, infatti, disegnano un quadro in cui quello che viene messo al centro dell’esperienza formativa non è il pensiero riflessivo circa quello che si fa e si dovrebbe fare progettando insieme (ciò che dovrebbe essere il fondamento di un’esperienza mirata a formare futuri imprenditori o team di lavoratori non subordinati ad una gerarchia di un potere economico “ereditato”) ma un pensiero costituito da pura applicazione automatizzata dell’apprendimento. Si racconta di esperienze di ragazzi “gettati” in catene di montaggio di raffinerie, impianti petrolchimici ad osservare e agire come piccoli operai, senza alcuna cognizione – che vada oltre la mera spiegazione tecnica dello strumento utilizzato – di come quella tipologia di attività sia connessa ai loro interessi attuali, agli scopi della comunità in cui essi vivono. Si parla di ragazzi relegati a lavori quali volantinaggio per 12 ore al giorno e la pulizia dei bagni:  il problema, qua, non sta nel tipo di attività svolta, ma nell’approssimazione con cui tali attività vengono appioppate a “individui isolati” senza alcun riguardo per i loro interessi relazionali e culturali. Tutto questo sembra provenire dalla disorganizzazione e dalla difficoltà di mettere in atto realmente il programma in maniera inclusiva: « Le aziende che vogliono farsi carico del programma sono infatti un numero molto limitato: in alcuni casi non ne sono a conoscenza, in altri non vogliono o possono farsene carico. Per concludere, credo che l’idea in sé sia anche buona, ma manca completamente l’organizzazione: tutta la struttura che dovrebbe essere dietro il programma non è sviluppata”».

Ma perché tutta questa importanza “romantica” all’interesse attuale dei ragazzi e ai loro valori relazionali? Non è forse compito dell’educazione allenare i giovani alla durezza del dovere, all’abilità tecnica, allo svolgimento del lavoro dovuto in quanto soddisfa i desideri della società e del mercato, unico criterio di utilità sociale e, quindi, di realizzazione professionale? Non è proprio questo lo scopo dell’Alternanza Scuola-Lavoro, offrire agli studenti abilità tecniche che altrimenti non avrebbero?

Ebbene, se lo scopo della società è la creazione di felicità, di solidarietà e progresso la risposta è semplicemente no. Una risposta data già più di un secolo fa dal filosofo pragmatista e pedagogista Americano John Dewey, sulle teorie del quale si potrebbe dire che tutta la concezione moderna della scuola sia fondata (o si ritiene essere fondata, come stiamo vedendo). Dewey proveniva da un ambiente in cui il compito dell’educazione era solo creare degli esseri assimilatori, passivi, da riempire con nozioni utili ad un ente esterno ad essi (il datore di lavoro che aveva già deciso gli scopi e i gusti della comunità che andava a servire oppure, anche, le istituzioni statali prestabilite in maniera rigida come esercito e burocrazia). Il modello seguito in questa tipologia di educazione era quello, si potrebbe dire, comportamentista: lo scopo è allenare l’individuo a svolgere correttamente dei “movimenti”, degli schemi, indifferentemente da cosa nella mente di tale individuo vi sia per coltivare tali nozioni e renderle utili al progresso sociale.

Dewey mise per la prima volta l’accento sull’interesse condiviso: il giovane ha le potenzialità non solo di applicare un modello ma di creare valore e produrre nuovi desideri, utilità, progetti in funzione dei quali ogni tipologia di lavoro applicato dovrebbe essere svolta. Le “nozioni” e le conoscenze tecniche farebbero solo parte delle condizioni materiali per comprendere in comunità quali scopi pragmatici ci si sente più entusiasti e perseguire. La differenza è sensibile: come sostiene Dewey, «non può esserci nessuna democrazia autentica se l’educazione non è un processo in cui le decisioni pratiche sono prese collettivamente ma, al contrario, un processo in cui una parte della società (chi possiede già grosse compagnie o chi è già nella macchina statale) prende tutte le decisioni e fa lavorare l’altra parte della società per scopi che non hanno nessuna rilevanza per essa».

E’ un pensiero estremamente condivisibile se si pensa che i desideri umani sono anche , spesso, “imposti” da chi ha già del potere economico e che questo potrebbe non riflettere ciò che le fasce più deboli “sceglierebbero di desiderare” se avessero strumenti relazionali e intellettuali massimamente efficienti. Uno dei tanti modi per migliorare la riforma potrebbe essere, ad esempio, istituire dei laboratori d’impresa in cui giovani imprenditori o esperti possano cooperare a creare progetti adeguatamente valutati ed economicamente sostenuti. Ovviamente occorre uno Stato con pieno monopolio delle proprie finanze per fare ciò.

Sulla scia di questa ultima osservazione, vogliamo chiudere l’articolo con una citazione di E. Codignola, pedagogista Italiano, tratta dai documenti dell’Assemblea Costituente del 1946:

«L’impegno che noi assumiamo oggi nella Costituzione di garantire l’insegnamento gratuito fino ai quattordici anni — vi sono delle Costituzioni che garantiscono molto di più — è già però un impegno gravosissimo per il nostro bilancio. Questo, però, impegna la politica scolastica del Paese ad una svolta decisiva, poiché è inutile pensare che si possa sul serio mettere in atto questo articolo fondamentale, se continueremo a lesinare sopra il bilancio dell’istruzione, come se si trattasse del bilancio di un’azienda commerciale. È stato detto giustamente che il bilancio dell’istruzione deve essere passivo, deve essere in grande passivo; e, tanto più esso è passivo, tanto più uno Stato è civile e si avvia alla conquista della civiltà moderna [..] un capitolo che non rende dal punto di vista della contabilità immediata, ma rende dall’unico punto di vista che deve essere considerato dallo Stato, quello della educazione delle generazioni future».

Quant’è diverso questo approccio dai discorsi di oggi circa la scuola come azienda su cui il bilancio Statale non può sgarrare? Un’azienda che, come le leggi del mercato vogliono, può reperire più fondi solo ottenendo donazioni o convenzioni da privati (che hanno i loro interessi); un’azienda i cui dipendenti possono ottenere aumenti solo se valutati come “produttivi” da un ambiente, il comitato di valutazione interno all’istituto scolastico, che non può, al contrario del ‘mercato’, essere considerato impersonale e imparziale. E questo per strutturali asimmetrie informative – lo studente che valuta l’insegnante con gli occhi dello scolaro 15enne e non con quelli dell’adulto che l’impegno attuale costruisce – oppure asimmetrie di potere tra chi valuta e chi è valutato -conflitti d’interesse –  al contrario di ciò che accade o potrebbe, in teoria, accadere in un “mercato perfetto”.

 

Fonte: www.filosofiadeldebito.it

Link: http://www.filosofiadeldebito.it/2017/06/27/catena-montaggio-un-laboratorio-democrazia-john-dewey-la-scuola-italiana/

27.06.2017

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