DI FEDERICO DEZZANI
federicodezzani.altervista.org
Il Sole 24 Ore si dibatte in una crisi che ne mette in forse la continuità aziendale: alla drammatica situazione economica e finanziaria si è sommato il durissimo colpo in termini di credibilità inflitto dal direttore Roberto Napoletano e dai vertici aziendali, indagati per falso in bilancio. È uno scandalo che travalica l’editoria: a uscirne a pezzi è anche Confindustria, che per decenni è stata la terza colonna portante del Paese, a fianco di governi e sindacati. La triste agonia del Sole 24 Ore rispecchia il fallimento di un’intera classe dirigente che, legando le sue fortune all’Unione Europea, ha portato sull’orlo del baratro l’intero Paese ed è oggi disposta a tutto, pur di fuggire dalle sue responsabilità.
Il fallimento di un quotidiano, il fallimento di un establishment
Gli osservatori più acuti sono capaci di cogliere le correlazioni tra avvenimenti apparentemente slegati gli uni dagli altri, riconducendoli ad un unico fenomeno: il collasso dell’industria bancaria, l’implosione del Partito Democratico, l’eclissi dei sindacati e persino la triste agonia in cui si sta dibattendo il Sole 24 Ore non sono episodi isolati ed accidentali, bensì collegati ed in un certo senso inevitabili, da ricondurre alla più ampia dissoluzione dell’establishment italiano che, a partire dal 1992, ha indissolubilmente legato le sue fortune all’euro ed all’Unione Europea.
Falliscono le banche perché, sfumato il Tesoro unico europeo e la condivisione del debito pubblico, era solo questione di tempo prima che il processo di svalutazione interna, indispensabile per riequilibrare le bilance commerciali dentro l’eurozona, sovraccaricasse i bilanci degli istituti di credito di sofferenze. Avevamo scritto che il dossier MPS, lungi dall’essere risolto, fosse stato soltanto “congelato” per consentire ad un’altra banca in condizioni critiche, Unicredit, di ricapitalizzarsi: bene, emerge oggi con chiarezza come la nostra facile profezia fosse corretta, perché tra il governo Gentiloni e le istituzioni europee non è stata raggiunta nessuna intesa che dispensi l’Italia dell’applicazione del “bail in” appena introdotto.
Implode il Partito Democratico perché la missione affidatagli si è dimostrata troppo grande per le sue forze: sconfessare il retaggio della sinistra per diffondere il credo neoliberista implicito nell’euro, il famoso “vincolo esterno” a lungo invocato dai liberisti nostrani: privatizzazioni, precarietà, tagli alla sanità pubblica, egemonia del capitale sempre più apolide sul fattore lavoro. Sotto la duplice guida di Matteo Renzi, nella veste di presidente del Consiglio e di segretario del partito, la sinistra italiana è sottoposta a sollecitazioni così forti da frantumarsi: la vocazione “europeista” del PD si dimostra nel medio termine inconciliabile con i precetti “socialisti”. Le fasce più deboli (giovani, vecchio mondo operaio, Meridione) defluisce verso le forze anti-sistema, provocando prima la disfatta referendaria del 4 dicembre scorso e poi lo sfaldamento del PD stesso.
Scompaiono i sindacati dal panorama economico e politico perché anch’essi convertitisi al “credo europeista” e diventati, perciò, i rappresentati di fasce ormai in via d’estinzione: lavoratori a tempo indeterminato di imprese medio-grandi e impiegati della pubblica amministrazione. Il sostanziale placet della Federazione CGIL, CISL, UIL alla politiche di svalutazione interna imposte da Francoforte e Bruxelles, aliena ai sindacati l’enorme platea di lavoratori che subiscono i costi di queste ricette: quel 40% di giovani costretti alla disoccupazione, quelle centinaia di migliaia di lavoratori costretti ad emigrare, quella massa di persone schiacciate tra precariato ed impieghi saltuari.
Agonizza pateticamente il Sole 24 Ore, perché espressione di quella Confindustria che storicamente costituisce la terza colonna portante del Paese, a fianco di governo e sindacati. È la Confindustria che, sin dalla sua lontana fondazione nel 1910, ha sempre voluto rappresentare il “grande capitale” privato inserito nei circuiti internazionali, schierato a favore del liberismo contro lo Stato-padrone. È la Confindustria che sotto la presidenza di Luigi Abete (1992-1996) preme affinché l’Italia entri ad ogni costo “in Europa”, dimenticando che l’industria privata è ancillare rispetto a quella pubblica (IRI ed ENI), dimenticando che le imprese nazionali vincono la competizione con quelle tedesche giocando sulla flessibilità del cambio, dimenticando che l’austerità imposta dall’Europa sin dal 1992 uccide consumi e posti di lavoro. È la Confindustria che, dalla riforma Biagi al Job Act, plaude al precariato imposto da Bruxelles. È la Confindustria che, coll’ormai celebre editoriale di Roberto Napoletano del 10 novembre 2011, “FATE PRESTO”1, avvalla la manovra tutta extra-parlamentare per insediare Mario Monti a Palazzo Chigi, precipitando il Paese nella spirale austerità-deflazione-recessione. È la Confindustria che nell’autunno 2016 investe tutto il residuo capitale politico schierandosi a favore della riforma Boschi, caldeggiata dalla Troika e dalla finanza internazionale: “Referendum, Boccia: se vince il No addio investimenti, il Paese si fermerebbe”.
Lungi da noi voler giustificare i maneggi del direttore Napoletano: tuttavia il tragico epilogo del quotidiano di Confindustria era in un certo senso inevitabile. È la naturale conseguenza di un male più profondo ed oscuro: il fallimento di un’intera classe dirigente che, dopo aver portato il Sole 24 Ore sull’orlo del baratro come ha portato l’intera Italia, è disposta a tutto pur di procrastinare l’esito finale e fuggire dalle sue responsabilità. Manipolando i dati societari da un lato e avvallando le letali politiche d’austerità dall’altro; gonfiando i numeri della diffusione del quotidiano e promettendo improbabili crescite del PIL grazie alle “riforme strutturali”; ingannando i propri azionisti a tacendo sulle sui danni prodotti dall’euro al tessuto produttivo.
Corre il marzo 2011, quando Roberto Napoletano, già direttore de il Messaggero di Francesco Caltagirone, è chiamato alla direzione del blasonato quotidiano rosa. Eredita un situazione non facile, frutto dei due anni di gestione di Gianni Riotta: l’ex-direttore, laurea in filosofia ed una solida formazione presso l’establishment atlantico liberal (borsa di studio Fulbright e collaborazioni con The New York Times, The Washington Post, Foreign Policy, etc. etc.), ha infatti avviato una profonda trasformazione del quotidiano di Confindustria, con il placet di Emma Marcegaglia. Meno tributi, bilanci e codici e più politica, in chiave ovviamente liberal. È la stessa redazione che, constata la debacle della nuova linea editoriale, sfiducia Riotta, obbligandolo alle dimissioni.
Il 2011 è un anno cruciale anche per l’Italia: sotto i colpi della speculazione, Washington e Londra si preparano a defenestrare Silvio Berlusconi, saccheggiare i risparmi degli italiani ripetendo lo schema già collaudato nel 1992 ed offrire un assist alla collusa tecnocrazia europea per strappare “più Europa” ai Parlamenti nazionali. Il neo-direttore Roberto Napoletano asseconda l’operazione e invoca “un governo di emergenza guidato da uomini credibili che sappiano dare all’Italia e agli italiani la cura necessaria, ma sappiano imporre anche al mondo il rispetto e la fiducia nell’Italia”. Come l’esecutivo “tecnico” guidato nel 1993 da Carlo Azeglio Ciampi, insomma. Poco importa se “gli uomini credibili”, banchieri, professori e tecnocrati guidati dal neo-senatore a vita Mario Monti, si propongono di distruggere la domanda interna a colpi di tasse2, cosicché l’Italia “smetta di vivere al di sopra delle sue possibilità”. L’esito è, come facilmente prevedibile, drammatico: il Prodotto interno lordo precipita del 2,5% nel 2012 e del 1,9% nel 2013. Emergerà che in sette anni è evaporato un quarto della produzione industriale3, nel silenzio assordante di Confindustria che ha abdicato alla sua originale missione: la difesa del manifatturiero.
Il pallino di Viale dell’Astronomia e del nuovo direttore Roberto Napoletano è ormai la politica: accantonati gli studi di settore e la “scienza triste”, si vola alto. Quando nell’estate 2012 l’eurocrisi riesplode con virulenza e sembra per un attimo che la federazione europea possa vedere la luce, è ancora il Sole 24 Ore che si schiera in prima linea, pubblicando il “Manifesto per gli Stati Uniti d’Europa”, firmato da personaggi del calibro di Carlo Azeglio Ciampi, Emma Bonino, Jacques Delors e Romano Prodi. È una linea editoriale, quella del Sole 24 Ore, che però non paga: le perdite del gruppo allargano, toccando i 45 milioni nel 2012, per salire alla cifra record di 76 milioni nel 2013. Sfumata l’ipotesi di un’Europa federale, restano quindi solo conti in profondo rosso, che siano dello Stato o del Sole 24 Ore: la vocazione “europeista” non paga. Che fare?
Lo spunto per raddrizzare la situazione piuttosto precaria è fornito Bruxelles: “Crescita, l’asso nella manica di Renzi si chiama Esa. E vale fino a 2 punti di Pil” scrive il Fatto Quotidiano nell’aprile 20144. Se la crescita latita e le finanze pubbliche scricchiolano, perché non gonfiare semplicemente i numeri del PIL con qualche artificio contabile? Grazie ad Esa 2010, lo stock del debito, in costante ascesa e lanciato verso i 2.200 miliardi, scende magicamente dal 140% del PIL al 130% grazie all’aumento “cartaceo” del denominatore, gonfiato dal computo delle attività illegali . Il Sole 24 Ore, da buon giornale d’establishment, si adegua: se il governo europeista di Renzi ricorre ad espedienti contatili non troppo ortodossi, perché non può farlo anche il quotidiano altrettanto europeista di Viale dell’Astronomia?
Nel biennio 2013-2014 le copie digitali del Sole 24 Ore esplodono, toccando le 201.000 copie sulle 382.000 diffuse5 per poi salire a 218.000 su 375.000 nel 2015. Strane davvero queste vendite: si tratta infatti per buona parte di copie multiple “gestite” da una società inglese, la DI Source LTD, che dovrebbe “promuovere” il Sole 24 Ore su misteriosi mercati esteri. Come emergerà un po’ alla volta nel corso del 2016, la DI Source LTD non è nient’altro che un veicolo impiegato dai vertici del gruppo per gonfiare la cifre sulla diffusione. Non solo: è allestito anche un canale per pompare le copie cartacee, acquistate ed inviate direttamente al macero. Il blasonato quotidiano rosa, l’organo di stampa di quella Confindustria che ha sempre trattato con una certa sufficienza governi e partiti, imbastisce così un’enorme messinscena ai danni degli azionisti, degli inserzionisti e, dulcis in fundo, dello Stato, che paga un contributo indiretto per ogni copia cartacea. È lo specchio di una classe dirigente che, pur di non riconoscere gli errori ed assumersi le proprie responsabilità, è disposta a ricorre a qualsiasi mezzo: poco importa se le ricadute finali saranno più gravi.
Parallelamente ai maneggi del Sole 24 Ore, prosegue anche il più ampio raggiro dell’opinione pubblica, perpetrato dal governo e della istituzioni europee: si tratteggia un’economia in ripresa benché sia impossibile coglierne i segnali, si garantisce maggiore occupazione quando la riforma del lavoro produce l’effetto l’opposto, si ripete il mantra del “risanamento dei conti pubblici” benché le finanze siano in costante peggioramento, si sbandiera il salvataggio le banche quando l’accordo con Bruxelles è in alto mare. Il momento della verità è però soltanto procrastinabile, non eludibile: presto o tardi, anche l’establishment è costretto a misurarsi con la realtà.
Capitola per primo il Sole 24 Ore: nell’autunno del 2016 emerge che il quotidiano ha accumulato nei primi sei mesi dell’anno perdite record per 50 mln, i giornalisti avvertono che la situazione è più drammatica che mai e numerosi membri del consiglio d’amministrazione si dimettono. Interviene la CONSOB e verso la fine di ottobre filtra la notizia che la procura di Milano ha aperto un’inchiesta per falso in bilancio, al momento senza indagati: trascorrono altri quattro mesi e si scopre che nel fascicolo figurano il direttore, alti dirigenti ed ex-amministratori. Non solo: è ormai chiaro che il quotidiano abbia urgente bisogno di un’iniezione di capitale da almeno 50-60 milioni per scongiurare il fallimento. Di fronte all’ammutinamento della redazione ed alla gravità delle accuse, Roberto Napoletano è così costretto “all’autosospensione”, neologismo con cui si indicano le dimissioni sull’onda di uno scandalo.
È un colpo durissimo per il Sole 24 Ore e per Confindustria nel suo complesso: i paladini del libero mercato, i fautori del “vincolo esterno”, i difensori dell’euro a qualsiasi costo, finiscono travolti dall’accusa di falso in bilancio.
Ma verso un epilogo analogo marcia spedito anche l’intero establishment italiano, quello che a partire dal Trattato di Maastricht ha indissolubilmente legato le sue fortune all’euro ed all’Unione Europea: la constatazione che le finanze pubbliche hanno raggiunto il carico di rottura, l’obbligo di applicare il “bail in” nel caso Monte dei Paschi di Siena, la resa di Pier Carlo Padoan di fronte alla recrudescenza degli assalti speculativi, il riesplodere dell’emergenza “spread” sull’onda delle imminenti consultazioni, costringeranno la classe dirigente italiana ad affrontare la realtà, sinora occultata proprio come al Sole 24 Ore. E sarà l’ammutinamento della società italiana a costringere l’establishment, fallimentare e screditato come Roberto Napoletano, a quella “autosospensione” che sinora non ha mai preso in considerazione, sicuro com’è di avere il diritto ed il dovere di governare nonostante la sfiducia del Paese.
Federico Dezzani
Fonte: http://federicodezzani.altervista.org
Link: http://federicodezzani.altervista.org/sole-24-ore-una-crisi-che-travalica-leditoria/
14.03.2017