Il Riflusso Rosa o come l’America Latina ha perso la sua sinistra

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Di Cristián Barros, gegenstrom.org

La polizia del Boss mi ha afferrato in stile gringo – Corrido, “Cananea”, 1917

Il Cile caldo

La caduta del Muro di Berlino ha lasciato numerosi orfani, tra cui, in primo luogo, i quadri dei partiti comunisti in tutto l’Occidente. Le scosse di assestamento arrivarono ovunque, in particolare alla periferia dell’Occidente: l’America Latina. Tradizionalmente riformisti, parlamentari e piccolo-borghesi, molti burocrati comunisti del continente – una volta scartati dall’improvviso ritiro sovietico – si riciclarono in ONG finanziate da Washington, sostenendo i diritti umani, la democrazia e il femminismo. Era il momento in cui Mosca, sprofondata nella sua crisi di legittimità, aveva abbandonato l’arena internazionale apparentemente per sempre. Ma il vuoto professionale doveva essere colmato in un modo o nell’altro: così un giorno, per necessità, il marxismo scolastico ha lasciato il posto al postmodernismo scialbo nei salotti ufficiali e nel mondo accademico. Il periodo in questione coincide grosso modo con la fine delle dittature neoliberali in Sudamerica, in particolare in Cile, il cui ritorno alla democrazia è stato segnato da ondate di protesta sociale simili a maratone nella seconda metà degli anni Ottanta.

Ora si va avanti di trent’anni

Generazioni dopo la scomparsa di Pinochet, il Cile ha riproposto un ciclo simile di insurrezione popolare proprio alla vigilia dell’esplosione del COVID-19: città invase da quasi due milioni di manifestanti, alcuni dei quali muniti di molotov e fervore luddista. Fino a quel momento, le sedie musicali elettorali erano state divise tra socialdemocratici dalla parlantina pulita e neoliberali draconiani, anche se l’economia trickle-down rimaneva sempre la stessa. Era un gioco di conchiglie giocato in successione da volpi e leoni di Pareto, “sinistra” e “destra” sul modello americano. Tutto questo mentre l’economia cilena, che mescola il PIL della Finlandia e il GINI del Lesotho, trascinava un arretrato di disperazione tra il precariato. Alla fine, la Rivoluzione colorata cilena del 2019 portò a un duplice processo. Da un lato, ha facilitato la futura vittoria presidenziale di un’alleanza di sinistra a metà, formata sia da progressisti di professione che da comunisti di pura razza.

Dall’altro lato, la mobilitazione di strada ha dato vita a un’Assemblea costituzionale, originariamente prevista dall’establishment come valvola di sicurezza per mitigare la volatilità dei cittadini. Tuttavia, come si è visto, l’Assemblea ha acquisito una logica propria e ha fatto avanzare la bozza di una nuova Costituzione che assomiglia a un mosaico multiculturalista – anche se, bisogna ammetterlo, i diritti dei lavoratori hanno ottenuto un residuo riconoscimento nelle sue ultime deliberazioni. Attualmente, l’Assemblea Costituzionale e la nuova amministrazione rappresentata da Boric, anch’egli ex leader studentesco, sembrano poco sincronizzate, in parte perché quest’ultima, scrollandosi di dosso le promesse della campagna elettorale, ha abbracciato l’austerità di bilancio e le misure deflazionistiche. In effetti, a un mese dall’investitura del Presidente Boric, la consueta luna di miele tra elettorato e nuovo gabinetto lascia presagire un divorzio burrascoso.

La causa è semplice. Il Cile detiene virtualmente il monopolio dell’estrazione del rame a livello mondiale, anche se lo Stato non riesce – a causa di accordi geopolitici che risalgono alla Dittatura – a catturare la rendita generata dal proprio sottosuolo. Per questo motivo, l’imposizione fiscale si riversa sulle masse lavoratrici, i cui risparmi per la pensione finiscono anch’essi sequestrati da portafogli Ponzi imposti dalla legge che finiscono nel labirinto dei broker finanziari americani – i famigerati Amministratori di Fondi Pensione (PFA).

Durante le recenti quarantene, i sussidi pubblici per i disoccupati sono stati così esigui che la gente ha chiesto di incassare i registri delle pensioni, da cui è scaturito un braccio di ferro tra i PFA e la loro clientela anziana e prigioniera. Presumibilmente, gli investimenti sono così illiquidi e opachi da rasentare la letterale inesistenza. Tuttavia, l’attuale amministrazione progressista-comunista, “rosa-rossa”, si è schierata fortemente con la lobby finanziaria locale, legata a doppio filo con Wall Street. Così, l’elettorato di sinistra di Boric oscilla tra lo stupore e la rabbia, rispondendo al tradimento percepito con la minaccia di una defenestrazione politica. Il buon senso suggerisce che, ancora una volta, la ribellione popolare cova sotto di sé. Ma questa volta sarà peggiore, poiché il governo non ha nessuno a sinistra, nessun antagonista formale con cui confrontarsi, appellarsi o negoziare, se non una folla amorfa, marea, per lo più giovanile, che affolla le barricate e i picchetti onnipresenti. Naturalmente, un nemico istituzionale può diventare un alleato fedele, e quindi una fonte di legittimazione. Purtroppo, questa non è più un’opzione. Invece, l’agenda multiculturale del signor Boric pretende di placare la penuria materiale e il rancore sociale invocando e propagandando il mantra dei diritti sessuali, dell’ambientalismo da boutique e della riabilitazione delle minoranze. Ma forse l’impresa è piuttosto stucchevole e la sua attualità abbastanza passata. Perché? Perché l’Assemblea Costituzionale, che corre in parallelo con obliqua complicità, si è già appropriata di tutti questi temi. Tutto sommato, il Cile è una barzelletta politica per ora senza finale.

Antinomie andine

L’anno scorso, dopo essere arrivato in testa al ballottaggio presidenziale, il maestro di scuola rurale con il cappello da cowboy Pedro Castillo, alias El Profesor, ha dovuto improvvisare un patto con la rappresentante della sinistra accademica, l’antropologa Verónika Toledo, per affrontare l’imminente ballottaggio elettorale. Alla fine Castillo ha vinto, ma non prima di aver subito un calvario giudiziario volto a inficiare il numero dei suoi voti, suffragi concentrati soprattutto nel retroterra indigeno.

Benché sostenuto dal partito leninista Perú Libre, Castillo è rimasto un classico populista della varietà latina, orientato verso i contadini e con un radicato ethos cattolico. Inutile dire che questo profilo metteva in imbarazzo i suoi alleati progressisti a Lima. La sinistra urbana istruita disapprovava la maggior parte del programma di Castillo e guardava con sospetto anche al suo stesso personaggio politico, rustico e moralista. Peggio ancora, l’iperbolica fraseologia da “ritorno alla terra” di El Profesor non si sposava, tra l’altro, con lo slancio pro-aborto della cricca accademica di Toledo. Il socialismo-familismo strideva con le orecchie del conformismo di sinistra. Ma dovrebbero saperlo bene.

Le famiglie contadine sono state duramente decimate dall’eugenetica neoliberale durante il regime autoritario di Fujimori (1990-2000), che ha perpetrato sterilizzazioni disinformate e non consensuali su decine di migliaia di donne indigene. La crociata di depopolamento, sponsorizzata e finanziata sia dalla NED che da enti di beneficenza ufficiali giapponesi (lo stesso Fujimori è nato in Giappone), ha traumatizzato profondamente le giovani donne, il cui ambiente nativo apprezza molto la gravidanza e il parto.

Paradossalmente, questa politica punitiva di pianificazione familiare è stata attuata in un Paese a bassissima densità demografica, il che solleva sospetti sul reale scopo di una simile iniziativa.

Tuttavia, la riduzione dei tassi di natalità è attualmente perseguita dalla lista della lavanderia abortista, a partire dall’epurazione postmoderna del cosiddetto patriarcato e della mascolinità operaia: prima il bastone, poi la carota… In realtà, fino a poco tempo fa, il blocco di governo peruviano ha avuto una traiettoria accidentata ed erratica, e sembra improbabile che la chimerica coabitazione tra populisti di campagna e mezza tacca universitaria possa funzionare comunque. Per cominciare, il ministro delle Finanze appartiene all’entourage liberale di Verónica Toledo, da cui deriva la continuità del capitalismo delle materie prime.

Tango e contanti

Dopo una tortuosa incubazione, il dissenso proletario in America Latina ha raggiunto l’apice intorno al primo decennio del XX secolo, una congiuntura che ha inaugurato la moderna politica di classe a sud del Rio Grande. Il famoso Sciopero di Cananea in Messico e lo Sciopero Generale in Argentina, entrambi avvenuti all’inizio degli anni Novanta, segnano l’ascesa politica della fabbrica sottoproletaria, protagonista di ardue lotte sociali culminate rispettivamente negli esperimenti redistributivi di Cárdenas e Perón. Per quanto riguarda quest’ultimo processo, l’Argentina stessa, nonostante l’ingente immigrazione transatlantica riversatasi sulle sue coste, non ha mai sviluppato partiti di massa marxisti di stampo europeo, come invece è avvenuto nel vicino Cile. Al contrario, il fascismo paternalistico e plebeo dell’Argentina sotto il generale Perón (1945-1955) servì da surrogato e da catalizzatore per la contestazione della classe operaia negli anni a venire. Fino ad oggi, l’epoca di Perón ha rappresentato in modo vivido l’età dell’oro dell’industrializzazione sostitutiva delle importazioni e del sindacalismo verticale.

Una volta sconfitto da una giunta militare di destra, il peronismo confluì presto nel guevarismo, formando una sottocultura di carisma macho rivoluzionario, che in seguito si evolse verso la guerriglia urbana. Questo contesto emergente indusse i partiti marxisti convenzionali all’introversione riformista. Il tropismo era così intenso che il Partito Comunista locale si alleò con i conservatori terrieri e sostenne persino brevemente la dittatura del generale Videla durante gli anni Settanta. Nel frattempo, il peronismo rivoluzionario degenerò in una serie di gruppuscoli putschisti, i cui militanti furono a loro volta massacrati dagli scagnozzi della Giunta. Durante questo periodo di effervescenza, la sinistra rivoluzionaria coltivò una prassi nativista e sacrificale. Pertanto, solo con il ritorno dei governi civili i movimenti anticapitalisti hanno acquisito un senso di vittimismo e passività. Certo, questo è stato possibile solo grazie all’installazione dell’ideologia-discorso sui diritti umani, il cui epicentro è stato l’amministrazione Carter. Da qui la tragica ironia: i repressori militari argentini hanno ricevuto istruzioni da Fort Benning e dal Pentagono, mentre le loro vittime sono state assistite e sermoneggiate dai missionari laici delle ONG americane.

Contemporaneamente, la crisi di default messicana del 1982 – originariamente causata dal colpo di mano di Volcker sui tassi di interesse – ha innescato il cortocircuito finale del paradigma keynesiano-fordista in America Latina. Decisamente, questa inflessione ha aperto la cupa bonanza dei programmi di aggiustamento strutturale (SAP) del FMI, che hanno intaccato il vigore economico della maggior parte dei Paesi dell’emisfero. A questo proposito, il debito estero dell’Argentina costituisce una lezione trasparente. La Repubblica del Sud ha mostrato una relativa solvibilità fino al 1976, anno in cui la Dittatura ha sestuplicato il livello di debito precedente. Da allora, i numeri rossi sono saliti alle stelle, sottoponendo i contribuenti argentini a un cronico peonaggio del debito di fronte ai creditori internazionali. Col senno di poi, ci si potrebbe chiedere se l’ideologia dei diritti umani – e in seguito il multiculturalismo e i suoi tropi concomitanti – sia stata solo una consolazione machiavellica, un trucco per addomesticare, neutralizzare e depoliticizzare la società civile, in particolare le organizzazioni dei lavoratori.

Se vogliamo chiarire le cose, è necessaria una vignetta giornalistica. A metà del 2002, l’obbligazionista avvoltoio Paul Singer ha fatto causa a Buenos Aires per inadempienza del debito sovrano, riuscendo così a sequestrare legalmente la nave scuola argentina attraccata al largo del Ghana, con un equipaggio di 22 giovani marinai. Si è trattato di un riscatto virtuale imposto da lontano, in seguito all’ordine di disarmo di un tribunale del New Jersey, il cui effetto extraterritoriale appare oggi discutibile. Ma il ricatto ha avuto successo e l’investitore attivista Singer ha finalmente spremuto 2,4 miliardi di dollari dal Tesoro argentino, quattro volte il suo investimento iniziale. Nel frattempo, i dibattiti parlamentari a Buenos Aires sono stati dominati dalle guerre culturali, dai presunti diritti degli omosessuali o da altre controversie del momento, per cui solo voci marginali hanno discusso il nodo dell’odioso debito.

Curiosamente, lo stesso Singer è un gigantesco finanziatore dei diritti degli omosessuali su scala globale, un’impresa caritatevole che potrebbe non essere così disinteressata come si dice.

Riflettendoci, si nota gradualmente uno schema. Come già osservato, la retorica dei diritti umani e del multiculturalismo rafforza l’inerzia della disciplina del debito e dell’estrattivismo economico, una volta che gli attori politici dell’America Latina sono diventati vittime istituzionalizzate che chiedono ospitalità. Non si può cambiare questo corso delle cose se non si sfida l’egemonia liberale nella cultura e non la si riduce alla banalità che comporta. La nuova sinistra postmoderna in America Latina, innestata artificialmente su una ricca tradizione populista, di cui la prima parassita astutamente la memoria, può solo portare disillusione e anomia. Gli esempi in tal senso abbondano.

Cavalli di Troia

Ad oggi, appare chiaro che il capitalismo atlantico ha scelto la sinistra progressista come percorso agevole per controllare il suo tradizionale cortile geostrategico di materie prime. In effetti, la sinistra socio-liberale, priva di qualsiasi allusione proletaria, si presenta come un perfetto cavallo di Troia per portare avanti l’agenda globalista nella sua nuova incarnazione estrattivista. I recenti sviluppi confermano questi sospetti. Petro, ex guerrigliero convertito in sicofante clintoniano, ha riaffermato il ruolo della Colombia all’interno della NATO e ha esteso la virtuale occupazione militare americana del Paese caraibico, con decine di basi finanziate dal Pentagono. Nel frattempo, Boric in Cile ha accelerato l’approvazione del Partenariato Trans-Pacifico (TPP11), un’iniziativa precedentemente scaricata da Trump ma ora guidata dalla diplomazia di Biden. È interessante notare che una sinistra più tradizionale, nata da veri e propri processi rivoluzionari in Messico (1910), Cuba (1959) e Nicaragua (1979), mantiene ancora uno slancio antiglobalista. Il Brasile di Lula è un esempio per il futuro del populismo di sinistra nel continente. Il Partito dei Lavoratori (PT) brasiliano deriva dal sindacalismo cristiano e dalle cooperative contadine. Per questo motivo, la sua ideologia tendeva a esprimersi in termini nazionalistici, comunitari e sviluppisti. Tuttavia, finora il primo governo di Lula è stato ancora un esperimento neoliberale con una patina di ridistribuzione inflazionistica. Non c’è da stupirsi che i ministri delle finanze e i controllori delle banche centrali di Lula provengano sempre dalla porta girevole del FMI-GoldmanSachs.

Tuttavia, grazie al suo peso demografico, il Brasile vanta un mercato interno che consente una borghesia nazionale minimalista, che aspira a consolidare il proprio posto all’interno del blocco BRIC. Da qui la posizione neutralista di Bolsonaro nei confronti della Russia, da cui il Brasile ottiene la maggior parte dei fertilizzanti per la soia che alimenta la Cina. Attualmente, Lula può abbracciare o meno il progetto BRIC. Il bivio è tra l’economia reale e quella finanziaria: il motore della crescita del Brasile dipende dalla domanda cinese di colture, mentre i meccanismi anglo-atlantici del debito in dollari incatenano ancora il Brasile alla subordinazione emisferica.

Inutile dire che la politica internazionale è più di un semplice riflesso degli affari interni, quindi la prevista extraterritorializzazione e denazionalizzazione del bacino di Amazonas, con il pretesto della gestione ambientale globale, sarà un momento decisivo per il nuovo governo di Lula. Un altro punto in discussione è il futuro ruolo di Petrobras, l’impresa pubblica petrolifera continuamente penalizzata da vicende di clientelismo e corruzione. L’autosufficienza energetica è cruciale per lo sviluppo nazionale, dato che il Brasile è un esportatore netto di petrolio greggio, anche se i prezzi locali per i consumatori nazionali sono molto alti. In questo momento, si spera solo che Lula possa avvicinarsi a una sorta di nazionalismo delle risorse economiche, rafforzando la diplomazia neutralista dei BRIC.

Di Cristián Barros, gegenstrom.org

Cristián Barros è professore alla University of Development (Cile) e alla Nagaoka University of Technology (Giappone).

Fonte: https://gegenstrom.org/die-rosafarbene-ebbe-oder-wie-lateinamerika-seine-linke-verloren-hat/

Traduzione di Costantino Ceoldo –  https://nritalia.org/2022/12/29/il-riflusso-rosa-o-come-lamerica-latina-ha-perso-la-sua-sinistra/

13.12.2022

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