Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org
Circa dieci anni fa, un amico fashion editor che lavorava a Londra (il compianto Peppe Orrù, per chi lo abbia letto e apprezzato) mi disse che le ultime generazioni di inglesi guardavano tutorial per fare qualunque cosa, dall’avviare una lavatrice all’apparecchiare la tavola; era come non sapessero fare più nulla, l’ignoranza regnava deliziosamente sovrana sulle loro esistenze. D’altro canto, il mercato della comunicazione o del “mentoring” offriva loro stampelle in cambio di audience o di congrui guadagni.
Colpa dell’americanizzazione della cultura, che come sempre sbarca prima da loro, poi arriva anche da noi? In parte sì. A questo aspetto si univa il fenomeno della pervasività nell’uso delle droghe: ci si drogava per aiutarsi ad andare ai party, a ballare, a fare sesso, poi però occorreva assumere altre droghe per calmarsi, dormire, lavorare. Frequentare le vie impervie della vita sembrava, cioè, qualcosa di impensabile senza una guida, senza uno sballo o senza l’abbinamento delle due cose.
Non sorprendentemente, nemmeno l’Italia di oggi sembra riesca più a fare a meno delle summenzionate soluzioni. Oggi ci concentreremo su quella più “soft”, da cui eravamo partiti. Dallo psicologo all’influencer, dal guru al coach sino al tutorial o alla formazione permanente, il “mentoring moment” sembra irrinunciabile. Pensando ai libri, quelli più in alto nelle vendite nelle classifiche di Amazon sono dedicati alla crescita personale. Per “imparare come si fa”.
Logicamente vien da pensare che, se ci occorre trovar qualcuno che ci dica “come si fa”, nessuno abbia svolto con noi questo compito quando era ora lo svolgesse, cioè in quella fertile epoca del nostro sviluppo in cui occorre essere introdotti ai segreti del mondo. Mi riferisco per primi ai genitori, per seconda alla scuola. Perché se questo fosse accaduto potremmo saperlo già, come si fa. Oppure, potremmo capire autonomamente quanto di nuovo c’è da capire senza trovarci nel nonsense in cui invece siamo impantanati.
La seconda cosa che vien da pensare è che la società d’oggi sia talmente complessa, piena di ingiunzioni paradossali e di “double binds” (quelli che in psichiatria è comprovato inducano psicosi) che lo sperdimento è un male necessario. Potremmo come al solito pensare che chi non si senta a disagio in questo clima sia un genio, un “baciato dagli dei” o un grave malato mentale (i più gravi pensano di essere sani).
“Essere in un percorso di terapia o di crescita” distingue dunque i “sofferenti consapevoli” dagli altri, i “sofferenti inconsapevoli”.
È dunque la dipendenza da un maestro o terapeuta un fenomeno deleterio, che induce a dipendere sempre da qualcuno per via dell’incapacità a sentirsi adulti?
Oppure il ricorso ai mentori è la spia di un’esigenza profonda e vera, che magari è bene soddisfare?
Senza dubbio, il fatto denuncia un diffuso vuoto interno, che non si può liquidare con l’insofferenza di chi pretenderebbe che chi sente d’aver bisogno di strumenti “si rimbocchi le maniche e faccia da solo”. Se chi si rivolge al mentore potesse “fare da solo” lo avrebbe già fatto. La vita è più complessa delle esternazioni teoriche dei vecchi barbogi.
In realtà, afferma lo psicoanalista Sheldon B. Kopp in “Se incontri il Buddha per la strada uccidilo”, “in ogni epoca gli uomini hanno intrapreso pellegrinaggi, viaggi spirituali, ricerche personali. Spinti dal dolore, attirati dal desiderio, sorretti dalla speranza, singolarmente o in gruppi sono andati alla ricerca della liberazione, dell’illuminazione, della pace, del potere, della gioia o dell’irrealizzabile. Desiderosi di conoscenza, hanno però confuso l’apprendimento con la conoscenza stessa e spesso hanno cercato aiutanti, guaritori e guide, insegnanti spirituali dei quali poter divenire discepoli. L’uomo d’oggi, il pellegrino contemporaneo, desidera essere discepolo dello psichiatra (n.d.r: oggi anche del coach, del mister, dell’influencer).
Se cerca la guida di tale guru contemporaneo, si troverà a intraprendere il proprio pellegrinaggio spirituale moderno. Non dovremmo rimanerne meravigliati”. Tuttavia, aggiunge l’Autore, “l’I King, la Bibbia, lo psicoterapeuta contemporaneo e altri guru sono oracoli imperfetti. Sono invece alquanto più significativi come fonti di saggezza riguardo l’ambiguità, l’insolubilità e l’inevitabilità della situazione umana. Il loro valore sta proprio nell’offrire immagini che sono fisse senza essere stereotipate, immagini “su cui meditare e in cui scoprire la propria identità”.
In questo brano troviamo la traccia sia per comprendere lo smarrimento che induce l’uomo d’ogni tempo e luogo a trovare aiutanti che lo sorreggano nel buio, sia lo spunto per capire come mai oggi tale necessità sia ubiquitaria.
Il punto chiave è l’identità: poterla ritrovare quando si è smarrita “la diretta via” (Dante nella Divina Commedia), quando sembra che tutto ciò che siamo stati, che abbiamo pensato e in cui abbiamo creduto sia inconsistente… oppure poterne fondare ex novo una, tessendo in inedite trame i fili dei troppi talenti sprecati. Il primo tipo di smarrimento identitario citato avviene nei grandi snodi del ciclo di vita, l’adolescenza, il matrimonio, la gravidanza, la separazione, il nido vuoto, la menopausa, l’andropausa, oppure in concomitanza di un forte choc che induce a una crisi, chiamando la persona alla rimessa in discussione profonda di sé.
La seconda occasione d’identificazione o “individuazione”, per dirla con gli analisti junghiani, avviene quando il soggetto s’accorge di sfuggire a se stesso, di non avere una vera identità, magari d’averne una fittizia fintamente sgargiante (“Sotto il vestito niente”), oppure di non riuscire a lanciarsi nella vita come sarebbe tempo facesse. Non gli occorre, in questo caso, una ri-nascita, ma una sorta di “nascita al mondo”, come se la prima non fosse stata in grado di mettere pienamente in vita il soggetto.
L’uomo non è nell’infanzia autosufficiente a causa della prolungata neotenia, grazie alla quale supera in intelligenza gli altri animali. Dopo l’utero, il bambino necessita di un altro prolungato “utero”, questa volta “mentale ed affettivo”, che primariamente la madre gli fornisce nei primi tre anni di vita, praticamente ventiquattr’ore su ventiquattro.
È in quella fase che gli occorre un’attenzione altamente specializzata che gli restituisca “chi è”, poiché “sapere chi si è”… è un dono “per sempre”. La madre è la prima a riconoscere il figlio, a descriverlo, a “vederlo”. Con le parole e mediante la musica dei gesti, degli sguardi, delle carezze. Ne abbiamo già parlato in precedenti articoli, ma la nostra organizzazione sociale, che non permette a madre e bambino di stare assieme il necessario, non potrà mai produrre soggetti autonomi. L’autonomia richiede, per realizzarsi, una precedente fase di dipendenza riuscita e goduta.
L’assistenza della coppia genitoriale, questo “secondo utero”, continua poi sino ad adolescenza compresa, fondando per il figlio quella “base d’attaccamento sicura” che gli consenta di essere bene accompagnato nelle prime esperienze, dal gioco con la mamma alle esperienze sullo scivolo nel parco. Solo se sente di “avere le spalle coperte” il bambino può fare qualcosa che gli è assai naturale, esplorare il mondo… lasciandosi volentieri alle spalle proprio gli amati genitori!
L’autonomia sarebbe congenita all’essere umano, se solo gli venisse garantita un’infanzia assistita dal fare concreto dei genitori e illuminata dal loro desiderio di lui.
Purtroppo, oggi la maggioranza dei bambini è deprivata del contenimento della prima infanzia e anche della seconda, che richiederebbero il “tempo nobile“ di genitori che investano su di lui con passione e genuino godimento (Guido Crocetti). I genitori stanchi non fanno un buon lavoro, poiché il loro bambino non disporrà dei primi mattoni su cui edificare la sua soggettività.
Rendendosi poi conto in maniera inconscia dell’insicurezza dei loro figli oramai adolescenti, molti di loro tenderanno a compiere un ulteriore abuso nell’intento di “riparare il danno”: l’iperprotezione.
Gli esiti estremi di tale disastro sono descritti nelle cronache nere di ogni quotidiano, quelli meno infausti, ma comunque dolorosi, affollano appunto i divani degli psicoanalisti, le sessioni di meditazione o s’affacciano speranzosi sul nuovo libro di crescita personale.
Chi sente d’aver bisogno di “qualcosa in più” non è dunque da condannare, con queste premesse. Sente di mancare di “un pezzo”, e a ragione. Non pensiate che a mancare di tale “pezzo” siano solo i fragili e gli indecisi: spesso personaggi anche di grande successo come Elon Musk ne sono privi, basti dare un’occhiata alla biografia autorizzata di Walter Isaacson.
Neppure dobbiamo pensare che una buona psicoterapia costituisca una nuova, deleteria dipendenza: il terapeuta onesto ha il compito di dare quel “pezzo” al paziente (oltre che di fare mille altri interventi, ma ne parleremo in altri articoli), poi di salutarlo. Nessuna manipolazione del paziente, nessuna formattazione dello stesso a uso e consumo della visione dello psicologo, qualora questi, ripeto, sia sano e onesto.
Il terapeuta non sovrascrive i suoi pensieri su quelli del paziente, si limita a renderlo libero di formulare i suoi.
Come indicava Kalil Gibran ne “Il profeta”, “il maestro che cammina all’ombra del tempio tra i discepoli non elargisce la sua sapienza, ma piuttosto la sua fede e il suo amore. E se è davvero saggio, non v’invita ad entrare nella dimora del suo sapere, ma vi guida alla soglia della vostra mente”.
Il “pezzo da restituire”, anzi da costruire ex novo è dunque spesso quella che potremmo definire una nuova esperienza di dipendenza. Ma essa ha la funzione di sopperire alle carenze di quella primaria, non andata a buon fine a causa dell’indisponibilità emotiva dei genitori. La nuova dipendenza dal terapeuta dev’essere ovviamente transitoria e concludersi con l’esito più ambito da ogni maestro: essere superato dall’allievo-paziente.
La frase spesso citata dagli psicoanalisti (anche dal mio) a fine analisi, indirizzata ai pazienti è quella pronunciata nel film di Giuseppe Tornatore “Nuovo cinema Paradiso” dal proiezionista, il “maestro semplice” che introdusse il bambino Totò (in cui identifichiamo il regista stesso) alla conoscenza del cinema. Totò è orami grande, indeciso se lasciare la natìa Sicilia. Il vecchio mentore gli parla così: “Ognuno di noi ha una stella da seguire. Vattinni! ‘A vita non è come l’hai vista al cinematografo, a vita è cchiu difficili. Vattinni, tonnatinni a Roma! Tu si giovane, il mondo è tuo e io, io sugnu vecchio… non voglio più sentirti parlare. Vogghio sentere parlà di tia. In italiano (più o meno, e reinterpretato): “vai via, non pensare più a me, voglio sentire parlare di te di te da altri”.
Accettare di farsi superare, di essere “lasciati indietro”: non vi sembra che il ruolo dello psicoanalista e del maestro siano, qui, assai vicini a quello del buon genitore? Ma quanti dei genitori fragili di oggi, apparentemente fortissimi, sono disposti a questo?
Nonostante la fatica che comporta, è proprio la separazione dal paziente a sancire il successo del terapeuta.
Se il paziente ne ricaverà il dono di un sé ritrovato, restaurato o costruito ex novo, il maestro ne otterrà il dono emotivo di un’esperienza indimenticabile.
Viene in mente, al proposito, anche il commovente rapporto dell’ex campione mondiale Apollo Creed con Rocky Balboa nel film “Rocky III”. Apollo cerca Rocky, colui che gli aveva strappato il titolo, e ne vuol fare il suo allievo… per salvarlo dalla stessa crisi che ha vissuto lui (e per “salvare se stesso” da un’altra crisi, quella di una maturità da rendere di nuovo fertile e generativa dopo la prima stagione). Nasce un’amicizia straordinaria di cui rimane impressa la scena in cui i due splendidi atleti corrono gareggiando sulla spiaggia, Apollo prima di Rocky, a perdifiato, fino a quando sarà Rocky a superare l’amico. Apollo potrà sanare, attraverso le conquiste dell’allievo Rocky, le sue stesse ferite in virtù del fenomeno della profonda identificazione che ha con lui.
Avere allievi è anche, in pratica, anche una chance di rinascita e riparazione del sé per lo stesso maestro. Chi avrà “dato” più all’altro, alla fine dell’avventura?
Tornando alla sofferenza, veniamo a un alto punto: il terapeuta o il guru non è un individuo superiore, semplicemente uno che “le ha passate prima di te”, dunque sa muoversi navigare nel vuoto infinito dell’ignoto, alla ricerca della verità nascosta (che spesso abbiamo tutti sotto il naso). E non si accontenta di soluzioni preconfezionate (le “diagnosi” da supermarket della finta cultura tanto in voga oggi), utili solo a placare l’inquietudine.
Che valore ha per il paziente un simile aiutante? Tornando al meraviglioso testo di Kopp, il cui emblematico titolo “Se incontri il Buddha per la strada uccidilo” ora comprendiamo sempre meglio: “il terapeuta può essere utile in diversi modi. Anzitutto contrappone un altro essere umano in lotta al paziente attualmente egocentrico e cieco a ogni problema al di fuori dei propri. Il terapeuta può interpretare, consigliare, fornire l’accettazione emotiva e l’appoggio che alimenta la crescita personale e, soprattutto, può ascoltare. Non intendo che debba semplicemente udire l’altro, ma che ascolterà attivamente e in modo significativo, rispondendo con lo strumento del suo mestiere, cioè, con la vulnerabilità del proprio sé fremente”.
Cos’è un maestro, dunque? Mi piace salutarvi con una provocazione. Per Don Milani è (più o meno, cito a memoria) “qualcuno che non dovrebbe avere, finite le ore di lezione, interessi culturali.” La facoltà primaria, quella che il maestro dovrebbe coltivare sempre, è cioè la competenza per la relazione.
Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org
23.09.2024
Alessia Vignali, psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista e giornalista.
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