IL MASSACRO DI OTTOBRE AD AL QAIM: ZONA DI UCCISIONI INDISCRIMINATE

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blankDI SABAH ALI

Dedicato alle Nazioni Unite, al Consiglio di Sicurezza e alla comunità internazionale

CON FOTO

A distanza di alcuni mesi dagli eventi, pubblichiamo uno straordinario reportage dall’Iraq occupato sull’attacco statunitense all’area di Al Qaim. Le drammatiche testimonianze dimostrano inequivocabilmente chi siano i primi terroristi in questa guerra.

L’autrice, Sabah Ali, è una giornalista irachena che scrive sotto pseudonimo (maschile) per timore di rappresaglie.

Abbiamo dovuto posticipare il nostro viaggio ad Al-Qaim e Haditha molte volte per 2 settimane. Spesso la strada era chiusa a causa di alcune operazioni militari, così abbiamo deciso di andare prima ai campi rifugiati, pronti a muoverci da lì non appena la strada fosse aperta. C’erano 8.100 campi rifugiati allora (l’ultima volta, prima del 1 ottobre, erano 7450) distribuiti nella città e nei villaggi confinanti, oltre che nel deserto. Alcuni dei campi erano tagliati fuori da ogni sorta di aiuto, specialmente quelli che si trovavano lungo l’Eufrate, perché le truppe americane avevano bombardato tutti i ponti ad Alqaim (3) e Haditha (2). Adesso c’è bisogno di vestiti pesanti, specialmente per i bambini, e medicine di uso quotidiano, a parte il cibo. Le famiglie nuove erano quelle scappate all’ultimo attacco ad Alqaim (1 ottobre) e Haditha (5 ottobre) o “il cancello del fiume”, come veniva chiamata quest’ultima città. Adesso una delle più grandi organizzazioni di aiuto in Iraq ha ammesso che non possono raggiungere i villaggi oltre il fiume.Arrivati all’ospedale generale di Alqaim il pomeriggio del 25 ottobre, dopo esserci persi in una deviazione lungo il deserto per più di 2 ore, e provenendo dal più vicino campo rifugiati, dove abbiamo udito diversi racconti sull’ultimo attacco del 1 ottobre 2005, eravamo ben preparati ad ascoltare la folla nella sala di emergenza. Un grande cartellone nero diceva che il guidatore dell’ambulanza, Mahmood Chiad, era stato ucciso il 1 ottobre 2005 dalle truppe americane mentre cercava di aiutare alcune famiglie ferite.

Un giovane, H.Khalaf, giaceva su un carrello, fradicio di sangue. Un cecchino americano gli aveva sparato nei genitali mentre tornava a casa dal mercato proprio dall’altro lato della strada. Il colpo ha ferito la sua coscia destra, i testicoli, ed è uscito dalla coscia sinistra.

“Non c’era nulla, nessuna sparatoria, nessun attentato, nulla” ha detto un vicino che ha portato Khalaf all’ospedale. “Abbiamo sentito il colpo, ed era per terra sanguinante. Non potevamo raggiungerlo. Ha strisciato lungo la strada laterale per alcuni minuti”. Il dottore non sa ancora quanto sia grave la ferita. Stava ancora sanguinando.

[I genitali feriti di Khalaf]

Anche un altro giovane nel reparto, Salah Hamid, era stato colpito sotto la cintura. Stava guidando il suo taxi alle 10 di mattina, lunedì 17 ottobre 2005, nel luogo di mercato, quando gli è stato sparato dai cecchini americani. Salah era così furioso che piangeva e usava parole oscene (inaccettabili in quelle aree). La sua auto è stata completamente rovinata. Il dottore ha spiegato che era stato necessario tagliare una buona parte del suo intestino.

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[Salah Hamid]

Nella sala dei dottori, le finestre, le tende, i muri erano crivellati di proiettili.

Il vice direttore dell’ospedale ha descritto quanto la situazione sia difficile e negativa: il continuo bombardamento delle case e delle auto, i cecchini che sparano indiscriminatamente ad ogni cosa in movimento (due giorni fa hanno ucciso sei asini), la città assediata, l’autostrada chiusa. “Non capiscono perché chiudano l’autostrada e facciano passare le famiglie attraverso il deserto, stanno perquisendo tutto e tutti! Adesso, oltretutto, i tubi di respirazione non sono permessi negli ospedali”.

Il vice direttore ha poi spiegato la situazione nelle aree bombardate vicino al fiume (l’Eufrate), dopo che i ponti erano stati bombardati nell’attacco. “Ci sono molti villaggi: Rumana, Al-Beidha, Al-Ish, Dgheima, Baghooz, Al-rabot… etc dove le famiglie cercando rifugio dai bombardamenti. Questi villaggi sono tagliati fuori da ogni tipo di aiuto adesso, e sono esposti a bombardamenti regolari. Non ci sono dottori o cliniche in un’area di 110 kilometri lungo il fiume. Le famiglie di feriti devono essere trasportate con barche. Muoiono dissanguate o sotto le macerie. E’ impossibile contare i morti, le loro famiglie li seppelliscono sul posto, senza alcun documento, e ovviamente senza che i media ne parlino. Civili, parenti e vicini aiutando a tirare fuori queste persone sepolte sotto le macerie. I cecchini sono ancora la nostra prima preoccupazione. Il giorno del referendum, il 15 ottobre, nessuno avrebbe osate uscire di casa: nemmeno io, sebbene avessi il posto di controllore”.

Il guidatore di ambulanza, Mahmood Chiad (35 anni), stava andando a Karabla per aiutare alcune famiglie ferite durante l’attacco. E’ stato ucciso da un proiettile penetrato nella parte sinistra del petto. Poi l’ambulanza è stata colpita da una granata che l’ha sventrata in due parti, per poi bruciarla. Il mezzo era ancora lì, ma non abbiamo potuto fotografarlo, qui nella terra di nessuno, come la chiamano. Mahmood ha lasciato una vedova e sei bambini; il più anziano di loro, Aimen (m) ha 10 anni, “Alla famiglia non è stato pagato alcun risarcimento o pensione”, ha detto il suo collega Muneer Said. “Era molto povero, viveva in una baracca di lamiera, qualcuno si dovrebbe prendere cura della sua famiglia”.

[Mahmood Chiad]

La mattina dopo, attorno alle 7, c’era rumore ed una certa folla all’ospedale. Fuori dal reparto di emergenza ci sono due auto coperte di polvere e diversi uomini in piedi. Un anziano, sopra i 60, stava piangendo e parlando al cielo, ripetendo istericamente “ti prego viene a vedere cosa mi è capitato”. Un altro uomo piangeva in silenzio.

Nel reparto di emergenza, una bambina di dieci anni giaceva su un lettino, ed una giovane donna su un altro. Erano ancora coscienti. La bambina di 10 anni, Yosr Jasim Mohammad Al-Ta’i (frequentava la quinta, come ha detto con orgoglio) è stata ferita ai piedi, alla schiena e all’orecchio destro, tutte parti coperte di sangue. Non sapeva che era l’unica sopravvissuto di una famiglia di 8 persone. Suo padre, sua madre Ibtisam Thiyab Othman, e cinque dei suoi fratelli e sorelle sono stati sepolti sotto le macerie quando gli aerei americani hanno bombardato il villaggio Al-Ish, il 26 ottobre 2005.

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[Yosr Jasim Mohammad Al-Ta’i ]

La donna, Sa’diya, 35 anni, è stata ferita alla coscia. E’ avvolta in una trapunta bruciata. Sa’diya si trovava nella casa dei suoi zii. La sua casa era stata fatta scoppiare il giorno prima dalle truppe americane, “hanno portato fuori le donne e i bambini, per poi far scoppiare la casa, non so se abbiano arrestato gli uomini e se siano rimasti dentro la casa. Ieri siamo andati alla casa dei miei zii, oggi alle 2 di notte siamo stati bombardati di nuovo”. Sa’diya era terribilmente shockata. “Non so quante persone siano state uccise. Eravamo più di 30 nella casa. I miei tre zii, le loro mogli e i bambini, mia zia, e cinque ospiti nella diwan (stanza degli ospiti), sono stati uccisi. Non so se ci siano sopravvissuti, io sono stata sepolta sotto il muro. Ho visto mio zio Idan, e due dei suoi bambini, Farooq (maschio, 8 anni)e Ahmad (maschio, 7 anni), ed erano morti”. (Sadiya non sapeva che Yosr, uno degli ospiti, e lei erano gli unici sopravvissuti delle molte famiglie in quella casa).

[Sa’diya]

Khalifa Mokhlos è l’unico sopravvissuto dalla stanza degli ospiti e ha detto che altri 4 uomini sono stati uccisi quando due missili hanno colpito la casa. “Jasim M. Mokhlos (30 anni), Idan Abdulla Mosa (52 anni), Awad M. Mosa (45 anni), e Moslem K. Hussein (30 anni) sono stati tutti uccisi”.

K., il capo del consiglio della comunità nel distretto di Al-Risala, lui stesso mutilato nella guerra Iraq-Iran, ci stava raccontando di molte case demolite e famiglie uccise. Abbiamo chiesto di visitare alcune di loro. Era esitante, ma poi ha suggerito di visitare solo quelle nei distretti relativamente sicuri. Al-qaim sembra così diversa ora dalla Alqaim che abbiamo visto 18 mesi fa, durante il primo grande attacco americano, nell’aprile 2004. Allora era una città pieno di vita, negozi, uffici, polizia… c’era movimento nelle strade. Adesso è una città morta. La paura e il sospetto sono re e regina nelle strade.

La prima famiglia era quella di Saggar Hamdan, che stava guidando un Land Cruiser per portare la sua famiglia e quella di suo cognato al campo rifugiati di Okashat, 200 kilometri nel deserto, durante il primo giorno di attacco. Suo padre ha spiegato che “c’erano 19 donne e bambini nell’auto quando le truppe americane hanno aperto il fuoco e l’hanno bruciata. Saggar, sua moglie Khadija, e i suoi 6 bambini – Ala’ (m, 10), Adil (m), Omar(m), Sheima’(f), Lamia(f)’, e un neonato. Anche sua nuora è stata uccisa. A nessuno è stato permesso di avvicinarsi all’auto finché non è stata altro che cenere”. Solo 5 giorni dopo, ad un cugino, Hashim Hamid, è stato permesso di recuperare i corpi.

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[Il padre di Saggar Hamdan]

“Ho dovuto rischiare la mia vita, portavo una bandiera bianca e andare incontro al convoglio americano”, ha detto Hashim. “Ho detto loro che volevo i corpi di mio cugino e della sua famiglia. Il comandante americano ha detto “Sono spiacente, è stato un errore, non sapevamo che fosse una famiglia”, e mi ha dato un sacco di plastica con i corpi carbonizzati.

La seconda famiglia era di Mohammad Jabir, un bambino di nove colpito da un cecchino americano davanti sulla porta du casa nella “strada della morte”, giovedì 20 ottobre 2005.

“Stava andando a casa dei suoi zii, dall’altra parte della strada, dove ci sono le baracche”, ha detto suo padre, cercando a stento di trattenere le lacrime. “Erano 4 dei miei figli, usciti per visitare la famiglia dei loro zii, hanno sparato loro immediatamente. Sono tornati indietro, Mohammad teneva la mano sul petto, ha detto ‘sono ferito’, e poi si è accasciato al suolo. Stava sanguinando. Abbiamo cercato di salvarlo, ma non era permesso passare a nessuna auto o ambulanza. Suo zio non badava al rischio; ha preso la sua auto e ci ha portato all’ospedale. Ma allora Mohammad era morto”.

[Il padre di Mohammad]

La madre era completamente vestita di nero: “Quando abbiamo cercato di portarlo all’ospedale, i soldati ci hanno sparato. Io stavo urlando, ma nessuno si preoccupava di venirci incontro. Ci siamo seduti a terra e abbiamo attesto che smettessero di sparare, finché suo zio è arrivato con l’auto”.

Mohammad è il 13° bambino ucciso da un cecchino tra le baracche. “la chiamano la Strada della Morte, uno dei bambini che è stato ucciso aveva solo un anno e mezzo, un altro 3. Posso portarvi a visitare tutte le loro famiglie. Il 23 ottobre 2005, alle 2 di pomeriggio, un aereo americano stava andando e tornando molte volte e ogni volta sparava”. Jabir ha lasciato la sua casa e adesso vive in una grande casa insieme ad altre famiglie, in un’altra area.

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[Mohammad]

La terza famiglia era quella di Attiya Mikhlif. La casa non era più che un cumulo di macerie. E’ stata bombardata il 30 agosto 2005. Non è rimasto nessuno della famiglia per raccontarlo. I vicini erano esitanti a parlare. “Il vecchio è morto anni fa”, si offre finalmente di parlare uno dei vicini. “C’era la sua anziana moglie, Dalla Hardan (55 anni), i suoi tre figli, Daham (35), Rashid (25) e Salman (18) e due nuore: Rafaah (19) and Kholood (19). Rashid, la sua sposa Rafaah, Salman e la sua sposa Kholood erano tutti appena sposati”. Tutti loro sono stati uccisi quella mattina.

– “Perché pensi che la casa sia stata bombardata?”

“Chi lo sa? Gli Americani dicono che c’erano insorti nella casa, ma erano famiglie come vedi. E comunque, non bombardi delle case per uccidere degli insorti che si suppone siano lì!”.

[La casa di Attiya Mikhlif]

La quarta famiglia era di Kawan Abu Mohammad. L’8 ottobre 2005, la sua casa, in un’area agricola chiamata Senjaq, è stata bombardata uccidendo 11 civili, la maggior parte dei quali bambini. Un anziano, Kawan (70 anni), suo figlio Mohammad (50 anni, insegnante di fisica), sua nuora Hamdiya (40 anni, moglie di Mohammad), e i loro 4 bambini: Dhoha (16, f), Ro’a (10, f), Obeida (12, m), and Hotheifa (4, m) sono stati tutti uccisi sotto le macerie. Khalid, 18 anni, nipote di Kawan, il cui zio Mohammad lo stava aiutando in fisica, Amjad (22, m), Zeinab (17, f), Saja (8, f) erano tutti nipoti di Kawan che stavano visitando il loro nonno. Anch’essi sono stati uccisi nel bombardamento. Sono sopravvissuti due membri della famiglia: Mahmood Kawan (25, m) è stato paralizzato e Nahida (16), la sorella di Amjad, è stata leggermente ferita.

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[La casa di Kawan]

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[Obeida, Ro’a, Mohammad, Khalid]
[La famiglia di Kawan]

K., del consiglio della comunità, ci ha dunque portati al distretto di Al-Risala, dove 8 case sono state bombardate insieme sabato 22 ottobre 2005, attorno alle 3 di notte, e la Grande Moschea il 23. Fortunatamente, erano edifici vuoti. “Gli americani credevano che degli insorti si nascondessero in queste case vuote”, ha spiegato K. Molte famiglie sono tornate dai campi profughi per vedere le proprie case distrutte.

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[Altre case distrutte]

In una delle case nel distretto di Al-Salaam, Alwan Abdul Kareem si rifiutò di stare con la sua famiglia nel campo rifugiati di Anah. Trovava insopportabile vivere come un rifugiato. Così era tornato a casa da solo 4 giorni dopo. La casa è stata bombardata lo stesso giorno (22 ottobre), e lui è stato ucciso sotto le pesanti scale dove si stava nascondendo, mangiando il suo sohoor (l’ultimo pranzo prima del digiuno). Alwan aveva 58 anni, era un giardiniere ed una guardia della scuole. Abbiamo incontrato la sua famiglia nel campo rifugiati di Anah. Ha lasciato una moglie, Shokriya (40 anni) e otto figli.

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[La casa di Alwan]

Nel campo rifugiati di Anah, 5 famiglie (di circa 10 membri l’una) vivevano in una sola casa. Non hanno ricevuto la razione mensile di cibo pe tre mesi. K., molto ansioso di mostrarci quali fossero i danni, non ha potuto mantenere la sua promessa di stare lontano dalle aree pericolose. Vicino alla stazione ferroviaria, un hotel completamente distrutto era usato dalla comunità per ospitare le famiglie molto povere per un prezzo simbolico. In altre parole, si tratta della stessa stazione ferroviaria.

[Hotel municipale distrutto]

Shawkat A. Abbood, che era appena arrivato da Alqaim, ci ha parlato dell’attacco al villaggio Si’da 10 kilometri ad est. Il 1 ottobre, il luogo di mercato era chiuso alle 10 di mattina, la città era assediata dai due posti rimanenti: Si’da e Karabla. Non c’erano né elettricità né telefoni, gli uffici erano chiusi, e le auto non potevano muoversi… “Quando è iniziato il bombardamento, siamo rimasti a casa. Gli interpreti nei veicoli militari dicevano alla gente con dei megafoni di stare a casa, e che le loro vite sarebbero state in pericolo se si fossero mossi. Potevamo udire i bombardamenti, ma non sapevamo dove fossero esattamente. Sono continuati per 4 giorni. Gli aerei rombavano 24 ore al giorno; il bombardamento più intenso era nel corso della notte. Nel villaggio di Rumana hanno bombardato 4 case. C’erano 12 feriti il primo giorno. Non sappiamo esattamente quanti siano i morti, 30-40.

– “Era un attacco dichiarato, perché le famiglie non se ne sono andate?”

– “Alcune famiglie non avevano alternativa, erano troppo povere per andarsene, altre hanno piantato delle tende nei campi dell’area Senjaq. E comunque ad essere dichiarato era che le truppe americane stavano per entrare ad Alqaim con le truppe irachene. Chiesero ai civili di cooperare con le truppe per arrestare gli insorti”. La madre di Shawkat, 55 anni, stava piangendo, ascoltando suo figlio. E’ diabetica, e troppo spaventata. “Quando sento i bombardamenti, ho un brivido, sento il dolore alla schiena; sento il soffitto che cade e mi schiaccia”.

Ad Alqaim abbiamo incontrato A.M. Un impiegato all’ufficio elettricità. “Abbiamo cercato 3 volte di riparare l’elettricità, gli Americani ci sparavano ogni volta. La terza volta ha detto ‘avete trenta minuti per ripararla’. Ci vogliono due ore, come sapete, sulla strada nel deserto per raggiungere la stazione. Ma ci siamo riusciti. L’altra stazione è vicina all’ufficio della dogana (che adesso è una base militare) e non abbiamo potuto raggiungerla. Stessa storia per l’acqua.

Shareef, pompiere e soccorritore volontario, era adirato: “dove sono le nazioni del mondo, i Musulmani, gli Arabi… milioni di loro pregano ogni giorno, non vedono quel che ci sta accadendo?”.

Data: 5 novembre 2005

Fonte: Brussels Tribunal

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Traduzione dall’inglese a cura di CARLO MARTINI per www.comedonchisciotte.org

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